Amore e odio nell'antico rapporto tra mafia e chiesa

Società | 7 settembre 2022
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Religione e mafia. Quindi mafiosi e religiosi. Un binomio che nella
storia passata e recente trova numerose vicende. Un «legame»
che si è ripetuto spesso. Tra gli ultimi in ordine di tempo quello
che riguarda Gaspare Spatuzza, il pentito che ha permesso la
riapertura delle indagini sulla strage di via D’Amelio e con esse la
rilettura dello stesso eccidio con persone già condannate
all’ergastolo rimesse in libertà e altre, che invece erano ancora
libere, finite dietro le sbarre. E sulle verità di Spatuzza e sulla
sincerità del suo pentimento è intervenuto anche don
Massimiliano De Simone, cappellano del carcere dell'Aquila, che
ha avuto per circa otto mesi, fra il 2008 e l'inizio del 2009,
colloqui frequenti con il killer di mafia ora pentito. «È stato lui -
ha sostenuto il sacerdote - a cercarmi. Quando è arrivato
all'Aquila aveva già iniziato un suo percorso, con il cappellano del
carcere di Ascoli Piceno da cui proveniva. Mi ha voluto raccontare
tutta la sua vita. Colloqui lunghi, ogni volta tre ore. Un giorno sì e
un giorno no. Dialoghi intensi, spesso interrotti dal pianto».
Dai colloqui avuti don De Simone ha ricavato l'impressione che si
tratti di «una conversione» autentica. «Sono un prete, non mi
interessa il lato politico-giudiziario con le possibili
strumentalizzazioni. Dio, se vuole, può toccare il cuore anche del
delinquente più incallito. Ho visto con i miei occhi il rammarico e
la vergogna di Spatuzza mentre raccontava tutto il male compiuto
nella sua lunga carriera criminale. Un rapporto continuato per
molti mesi, non solo l'impressione o lo sfogo di un momento. Mi
ha amareggiato - aggiunge - vedere come sia stato trattato dai
media l'aspetto della “conversione” di Spatuzza. Ignorato o
deriso». Spatuzza è accusato anche dell'omicidio di don Pino
Puglisi, il parroco del rione Brancaccio. In proposito, spiega il
prete che ha raccolto le sue confessioni, «lui mi ha raccontato
che qualche giorno prima era stato mandato a fare un
sopralluogo, per preparare l'esecuzione. E già allora era rimasto
colpito dal sorriso, mite, di quel piccolo prete indifeso. Poi quello
stesso sorriso lo rivide il giorno dell'omicidio mentre il suo
complice, Salvatore Grigoli, stava per premere il grilletto. Sono
convinto che l'omicidio di don Puglisi sia stato dirompente nella
storia della mafia». Spatuzza, che è stato pienamente creduto dai
magistrati delle Procure che lo hanno interrogato, chiese ed
ottenne di ritirarsi per qualche giorno in convento. Ma Spatuzza,
U Tignusu, rappresenta uno dei tanti «episodi» che collegano
mafia e religione.
«Gesù io confido in te». Così recitavano, scolpiti sull’effige di
Cristo in croce, i 73 santini - tutti uguali - trovati addosso al
padrino Bernardo Provenzano, insieme con la copiosa produzione
di «pizzini», quando fu catturato a Montagna dei Cavalli. La
magistratura ha affidato ad un sacerdote «specializzato» l’analisi
della produzione epistolare di Provenzano, comparata con
l’utilizzazione - in chiave di comunicazione - che il mafioso faceva
delle Bibbie trovate nel suo nascondiglio. Ma anche l’arresto di
Pietro Aglieri venne «segnato» dalla religione. Nel suo
nascondiglio i poliziotti che lo ammanettarono trovarono una
cappella, un altare nel quale il boss pregava in continuazione.
Chiesa, religione e Cosa nostra. Ed ecco frate Giacinto ucciso
come un boss nella sua «cella» di francescano, nel silenzio
assordante dei confratelli, atterriti più dalla personalità della
vittima che dalla crudeltà dei killer. Frate Giacinto, al secolo
Stefano Castronovo, nato nel 1919 a Favara, in provincia di
Agrigento, fu ucciso il 6 settembre 1980 con cinque colpi al capo
da due persone nella sua cella al primo piano del monastero di
Santa Maria del Gesù a Palermo. Già nel 1964 la polizia si era
interessata a lui. Il commissariato di Corleone aveva perquisito il
convento e la cella in cui viveva Fra Giacinto alla ricerca del
latitante Luciano Liggio. Una «soffiata» aveva indicato in Fra
Giacinto il suo protettore. A Santa Maria del Gesù si era
sistemato splendidamente: viveva in un appartamento di sette
stanze. Nella perquisizione, dopo il suo assassinio, fu trovata una
rivoltella calibro 38 in un cassetto della scrivania e quattro milioni
di lire in contanti, inoltre profumi e liquori e abiti civili di ottima
fattura. Don Giacinto era amico dei mafiosi. Oltre a Luciano Liggio
annoverava tra le sue frequentazioni anche la famiglia Bontate, di
cui era diventato il confessore. Le indagini sull’uccisione le svolse
il vicequestore Antonino Cassarà, assassinato qualche anno dopo.
Cassarà restò fortemente impressionato dall’omertà dei suoi
confratelli. Le poche cose che venne a sapere riguardavano la sua
non partecipazione alla vita religiosa del convento; riceveva solo
gente che gli chiedeva favori e faceva raccomandazioni, i doni che
gli portavano non li condivideva con gli altri frati.
Ma c’è un altro sacerdote legato a doppia mandata con la mafia, è don Agostino
Coppola. È il prete che il 16 aprile 1974 nei giardini di Cinisi sposa
Totò Riina (allora latitante) con Ninetta Bagarella. Insieme con lui
altri due preti, Don Mario e don Rosario. È parroco di Carini e
viene ammesso nelle fila (combinato) di Cosa Nostra a Ramacca
nel 1969. Ne parla il collaboratore di giustizia Antonino
Calderone: «Mentre eravamo a cena arrivò un prete. Ci fu
presentato come un uomo d’onore della famiglia di Partinico.
Agostino Coppola si chiamava. Quello che riscosse i soldi del
sequestro Cassina. Con mio fratello abbiamo scherzato durante il
viaggio di ritorno su questo prete che faceva parte della mafia.
”Gesù Gesù, anche un parrino in Cosa Nostra”». Don Agostino è
legatissimo a Luciano Liggio ed è nipote di un capo di Cosa Nostra
americana, Frank Coppola detto Tre dita. Amministra i beni della
diocesi di Monreale (la più chiacchierata della Sicilia) e fa da
mediatore nei sequestri di persona fatti dai Corleonesi (quello di
Luciano Cassina, di Luigi Rossi di Montelera e dell’industriale
Emilio Baroni). Nel 1974 viene arrestato, e nella sua abitazione gli
inquirenti trovano cinque milioni provenienti dal riscatto di un
sequestro di persona. Nel 1976 don Agostino viene processato,
insieme con Luciano Liggio, per il sequestro di Luigi Rossi di
Montelera e condannato a quattordici anni di galera. Nel marzo
del 1977 riceve una seconda condanna, questa volta per
estorsione. Morì mentre era agli arresti domiciliari.
Ma sempre per estorsione e mafia altri confratelli finirono nelle
maglie della giustizia. Si deve fare qualche passo indietro ed
andare alla fine degli anni ’50 nell’entroterra nisseno: a
Mazzarino. Il convento è ancora lì. A ridosso del paese. Quattro
frati, che in quel convento vivevano vennero incatenati con
accuse pesantissime: associazione a delinquere, estorsioni,
omicidi e tentati omicidi. «La terribile istoria dei frati di
Mazzarino» titolò un suo libro Giorgio Frasca Polara. Quel
convento venne additato come centro del malaffare. Furono
quattro i cappuccini coinvolti nella «Istoria», padre Venanzio,
padre Agrippino, padre Carmelo e padre Vittorio. Vennero
arrestati dopo che una guardia municipale di Mazzarino, Giovanni
Stuppia, li denunciò. Stuppia aveva ricevuto una richiesta
estorsiva, ma non volle cedere. Una sera mentre rincasava, gli
spararono contro due revolverate e lo colpirono alle gambe.
Dai frati di Mazzarino a don Coppola Storie di relazioni pericolose.
Ed è storia relativamente recente la decisione di pentirsi da parte
di un picciotto del Nisseno, maturata proprio perché in lui
sarebbe maturata la conversione religiosa. Lui è Maurizio
Carrubba ex reggente della famiglia mafiosa di Campofranco. Ai
magistrati che lo hanno interrogato dopo l’arresto per mafia ha
detto: «Vinistuvu in ritardo veramente. Vinistuvu in ritardo» disse
e il magistrato replica «meglio tardi che mai» e lui ancora «in
ritardo nel senso che mafioso già non lo ero più. Io - aggiunge
Carrubba sono entrato a far parte della famiglia mafiosa di
Campofranco nell'ottobre del 2001 e me ne sono tirato fuori, per
motivi diciamo religiosi, verso i primi mesi del 2007». «Motivi
religiosi».
Maurizio Carrubba, oggi cinquantenne, racconta la sua
conversione. Dice di essere uscito dalla "famiglia" e chiede al
magistrato di chiarire questa scelta: «Sono uscito da Cosa nostra
prima delle elezioni del 2007. Me ne esco - aggiunge - perché io
sono stato sempre, diciamo, un frequentatore della chiesa, però
se prima per ipocrisia, tra virgolette, no? Poi però man mano mi
avvicinavo, man mano diciamo mi avvicinavo a Dio, cioè più
vedevo sta cosa che...ci avevo rigetto in poche parole, va, quindi
cioè non è che... io aprile, maggio 2007 me ne esco, però già più
di un anno prima io non sono diciamo più propenso. Comunque
prendo sta decisione di volermene uscire Gliel'ho comunicato
senza riunione agli altri, dico: guarda che io da oggi in poi non
intendo più far parte di sta situazione qua». Aggiunge anche che
qualche uomo d'onore lo ha successivamente invitato a rientrare
ma lui rispondeva che non gli interessava più niente. Carrubba
era entrato in Cosa nostra dopo che il fratello Francesco venne
ucciso, a Catania, mentre faceva da autista al rappresentante
provinciale di Cosa nostra nissena, Lorenzo Vaccaro. Proprio
Vaccaro era stato colui il quale aveva "posato" un altro boss di
Campofranco, Raimondo La Mattina. Quest'ultimo, macellaio, è
stato accusato da diversi pentiti di aver fatto parte del gruppo di
fuoco che nell'Agrigentino aveva lastricato le strade di sangue per
vendicare l'uccisione del boss Carmelo Colletti. La Mattina venne
accusato di alcuni omicidi ma il processo a suo carico non si
concluse perché è morto prima della sentenza definitiva.
Nel frattempo, dopo il "cambio di guardia" alla guida della
famiglia di Campofranco venne "posato". Successivamente venne
deciso di "rimetterlo in famiglia" Carrubba racconta: «In quel
periodo c'era Angelo Schillaci a capo e dice che è giunto il tempo
di far rientrare nella famiglia a Raimondo La Mattina: Noi
andiamo a parlargli ma lui rifiuta. Dice era avvicinato...si era
avvicinato alla chiesa, al Signore, dice che era...comunque rifiuta
totalmente la situazione, cioè neanche si mette a disposizione.
Dice: io non è... non mi interessa proprio».
Diversi gli intrecci tra mafia e religione, o meglio tra chiesa e
mafiosi. I mafiosi usavano un santino per diventare uomini
d’onore. Se lo passavano tra le mani mentre bruciava. Allora è
possibile conciliare Vangelo e lupara? Una illusione che ha
permesso a Cosa nostra di tirare avanti per decenni e forse e
un'illusione che ancora esiste.
Nel 1997 le forze dell’ordine dopo aver fatto irruzione nel covo
del boss Pietro Aglieri – pezzo grosso dei vertici di Cosa Nostra,
nonché uno dei mandanti per le stragi di Capaci e di via D’Amelio
– trovarono una piccola cappella privata: sei panche, altarino con
un grande crocifisso ligneo e due statue in gesso di Cristo e della
Madonna. Nella lingua siciliana, la Punciuta (puntura) indica il rito
di iniziazione dei membri di Cosa nostra: la persona da iniziare
viene condotta in una stanza alla presenza di tutti i componenti
della Famiglia; l’iniziato, puntosi sull’indice della mano con una
apposita spilla o con una spina d’arancio, giura fedeltà a Cosa
nostra imbrattando col sangue una immaginetta sacra, per poi
bruciarla – «giuro di essere fedele a cosa nostra. Possa la mia
carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al
giuramento». Nella Camorra l’iniziazione avviene sempre con la
puntura, ma, in questo caso, l’immagine usata è quella della
Madonna di Pompei: tutti i presenti baciano l’immaginetta,
l’omissione di questo passaggio da parte anche di uno solo dei
partecipanti preclude all’iniziato l’accesso dell’organizzazione [3].
Nel 2010 il parroco di Sant’Onofrio annullò il tradizionale rito
pasquale dell’affruntata a causa della presenza di esponenti della
criminalità organizzata calabrese tra i portatori della statua della
madonna: a seguito di questa decisione il parroco ricevette sì
larga solidarietà, ma anche numerose intimidazioni.
Il rapporto tra le Mafie e la Chiesa Cattolica – intendendosi per
“chiesa cattolica”, il culto cattolico in generale – può sembrare un
accostamento azzardato, sicuramente controverso, ma non del
tutto impensabile. A primo impatto sembra illogico, quasi
contraddittorio, rapportare una fede fondata sull’amore (e
sull’espresso dettame di “non uccidere”) a delle organizzazioni
sanguinarie, eppure le mafie in generale curano con particolare
minuzia i simboli e le pratiche della religione cattolica, dal rito del
battesimo fino ai funerali. I gruppi mafiosi si qualificano
tendenzialmente per la capacità di radicarsi nel territorio,
disponendo delle risorse economiche e delle attività politico-
istituzionali, ricercandone però il consenso sociale, essendo
specialisti «della violenza e delle relazioni sociali». Cercano
continuamente una legittimazione ed una appartenenza alla
cultura del luogo che deriva dalla partecipazione ai riti ed alle
cerimonie religiose: proprio per questo non si conoscono esempi
di mafiosi atei, salvo il caso di Matteo Messina Denaro.
Mediante l’uso di linguaggio evocante l’elemento spirituale, la
partecipazione attiva e soprattutto visibile alle feste religione,
l’assunzione di ruoli di rilievo nelle medesime feste e nei riti
religiosi stessi, il mafioso legittima la propria posizione di dominio
all’interno della comunità locale, garantendosi così la signoria
territoriale.
La Chiesa ha aderito tendenzialmente in ritardo alla battaglia
antimafia, il motivo di questo intervento tardivo è da attribuirsi
non solo alla sottovalutazione del fenomeno mafioso quanto
anche al condizionamento socio-culturali di stampo strettamente
conservatore che marchiava la vita dell’epoca, dove la non
reazione era frutto di una opposizione a qualsivoglia
cambiamento di potere; dove ridottissime erano le quote di
interventi episcopali.
Un esempio eclatante del rapporto ambiguo tra clero e mafie è
rappresentato dal caso di Mario Frittitta: frate carmelitano
arrestato a Palermo negli anni ’90 con l’accusa di favoreggiamento del boss
Pietro Aglieri, condannato in primo grado e poi assolto nei giudizi
successivi. Frittitta non ha mai negato d’aver frequentato per un
certo periodo il covo di Aglieri, derivando da questo
comportamento l’accusa di averne favorito la latitanza; il frate si
è giustificato adducendo come ci fosse la necessità degli uomini
di chiesa di interloquire con le persone e soprattutto con i boss di
mafia, proprio per favorirne la purificazione. Più che la vicenda
giudiziaria e la motivazione del Frate molti studiosi hanno
eccepito come il problema fosse rappresentato dall’aver
trasmesso all’opinione pubblica un messaggio errato di vicinanza
e comprensione verso il capomafia.
Ma la storia dei rapporti tra le Mafie e la Chiesa non è solo
segnata da questi casi, passati, di coesistenza dei sistemi: dietro
questo rapporto, inizialmente nato quasi da una esigenza di
sopportazione, prudenza e conformazione territoriale, emerge
col tempo un filone di protesta, di contrasto del fenomeno, di
rifiuto, di tutela: è con il Cardinale Pappalardo che è iniziato il
filone di denuncia ferma e aperta della violenza mafiosa,
favorendo il riacquisto della dignità mortificata dagli atteggiamenti di complice prudenza. Ai funerali di Boris Giuliano, nella così detta «messa antimafia», si rivolse direttamente ai mafiosi, dicendo: «Il profitto che deriva dall’omicidio è maledetto
da Dio e dagli uomini e quand’anche riusciste a sfuggire alla
giustizia degli uomini, non riuscireste a sfuggire a quella di Dio».
Il 4 settembre 1982 ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa,
dinnanzi agli uomini di politica presenti: «La mafia è un demone
dell’odio, l’incarnazione stessa di Satana. Si sta sviluppando una
catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché,
mentre così lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi
deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti, quanto mai
decise, invece, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha
mente, volontà e braccio pronti a colpire. Sovviene e si può
applicare una nota frase della letteratura latina: Dum Romae
consulitur, Saguntum expugnatur; mentre a Roma ci si consulta,
la città di Sagunto viene espugnata. Sagunto è Palermo. Povera la
nostra Palermo! Come difenderla?». L’”omelia – così poi
denominata – di Sagunto” ha segnato una svolta nella storia della
lotta alla mafia, a rappresentazione del potere che anche il
contrasto religioso, spirituale e sociale può avere nella lotta alla
malavita.
Dopo qualche giorno dalla omelia di Sagunto, in virtù del
terremoto sociale conseguente alla morte di Dalla Chiesa, è stata
approvata la legge n. 646/1982, meglio conosciuta come legge
Rognoni-La Torre, con la quale viene introdotto il reato di
associazione per delinquere di tipo mafioso nel codice penale
italiano; ha inizio, quindi, la lotta alla mafia, per come è
conosciuta e riconosciuta oggi. «Occorre spezzare il legame
esistente tra il bene posseduto ed i gruppi mafiosi, intaccandone
il potere economico e marcando il confine tra l’economia legale e
quella illegale», dietro le parole dell’on. Pio La Torre si nasconde
la ratio della legge in questione: colpirle nelle ricchezze e nei
patrimoni accumulati le mafie: togliere loro le ricchezze
economico-finanziarie significava dunque indebolirle e diminuirle
nel prestigio.
Un movimento, quello dell’antimafia, nato tra il fervore sociale,
spinto da forze non solo politiche, ma anche ideologiche, fatto di
grandi figure provenienti dai più svariati ambienti, anche clericali:
oltre il caso Pappalardo e di Pino Puglisi, necessario è sottolineare
anche il nome di don Peppino Diana, simbolo del clero impegnato
contro le mafie e disposto a sacrificare la propria vita pur di non
indietreggiare.
“Vittime e carnefici pregano un Dio diverso” disse l'ex
procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato: boss e
affiliati si rivolgono a Dio strumentalizzandone la figura e in suo
nome commettono peccati.
Dall’iniziazione (che non a caso è il “battesimo”) al funerale, gli
affiliati conciliano omicidi con preghiere e messe. Eccezion fatta
per Matteo Messina Denaro, apertamente ateo, non ci sono
mafiosi che vivono la loro religiosità in maniera intima: anzi,
attraverso l’ostentazione della fede, i clan mafiosi si assicurano
un maggior consenso popolare. I boss si battezzano, si sposano in
Chiesa, fanno ricevere ai propri figli tutti i sacramenti previsti,
richiedono il funerale religioso, elargiscono offerte in parrocchia e
si propongono per organizzare le processioni in occasione delle
feste patronali.
L’appoggio alla Chiesa è prettamente strumentale e consente ai
boss di presentarsi per poi essere “accreditati” presso la
comunità sociale: del resto, risulterebbe difficile considerarli
delinquenti se i boss vengono scelti come organizzatori di
processioni o se portano i Santi e la Madonna sulle spalle.
Un percorso che quello tra Religione e mafia che spesso è stato
intrapreso in parallelo e molte volte sovrapposto.
Nel giugno di 8 anni fa a Sibari, in Calabria, Papa Francesco ha
sferzato un duro attacco contro i mafiosi: “Non sono in
comunione con Dio, sono scomunicati”.
Prima di lui il 9 maggio del 1993 Papa Giovanni Paolo II ad
Agrigento aveva tuonato contro i trafficanti di morte le ormai
famose parole “Questi che portano sulle loro coscienze tante
vittime umane, devono capire, devono capire che non si
permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta “Non
uccidere” non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana
agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo
diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome
di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita,
verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili:
convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.
Parole pesanti come macigni che scatenarono la violenta
reazione di Cosa nostra con una serie di attentati contro le
chiese. Ricordiamo degli attentati di Roma alla basilica di San
Giovani in Laterano e della chiesa di San Giorgio in Velabro. E poi
l'uccisione la sera del 15 settembre del 93 di Padre Pino Puglisi. E
possiamo senza ombra di dubbio che la sua beatificazione
rappresenta una scelta di campo da parte della Chiesa che forse
proprio nel 1993 creo uno spartiacque tra mafia e Chiesa. Un
passaggio fondamentale lo segna il cardinale Amato, prefetto
emerito della congregazione delle cause dei santi il quale disse: "I
mafiosi sono religiosi, ma non sono cristiani”.
Negli anni Settanta a Palermo, nel periodo di coesione maggiore
tra mafia ed imprenditoria, il Cardinale Ruffini, di fronte alla furia
mafiosa che si ripercuoteva quasi a cadenza giornaliera per le
strade siciliane, ha sostenuto continuamente come la mafia fosse,
in realtà, una “creazione dei giornali comunisti”, evitando ogni
riconoscimento ed individuazione del fenomeno.
 di Giuseppe Martorana

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