"Una che ha sudato sangue e il pane se l’è sempre affannato", la rabbia di Rosa
Cultura | 9 maggio 2023
«Non mi capiranno mai. Questa gente forse conoscerà qualcosa di me solo dopo la mia morte. Non capiranno mai che io sono molto più di una cantante, che non sono una che ha bisogno della gonna con lo spacco, sono una donna di Licata, di Agrigento, di Canicattì, una donna di tutta la Sicilia, una donna dei campi, una donna di marina. Una che ha sudato sangue e il pane se l’è sempre affannato» sembra di sentirla quella voce roca e indimenticata di Sicilia, Rosa Balistreri, capace di cantare come pochi la sofferenza degli ultimi e il desiderio di riscatto dalle eterne e infami ingiustizie. Scrisse di lei Ignazio Buttitta come di «un personaggio favoloso […] che cammina su un filo di cotone, che una cuore per tutti».
Stefania Aphel Barzini ci offre col suo testo “La mia casa è un’isola. La vita e la musica di Rosa Balistreri” (Giunti, pp. 288, euro 15,90) un racconto affascinante della cantastorie. Non è una biografia, bensì una chiave di lettura romanzata di una delle figure femminili più forti, sorprendenti e inesplorate del Novecento isolano.
Rosa nasce a Licata il primo giorno di primavera del 1927. Il cielo è pieno di rondini, ma a casa sua c’è solo miseria. Il padre cerca nel vino un inutile rimedio alla fame, la madre fa quello che la Storia le insegna da millenni: subisce il destino. Ma Rosa è diversa, lo si capisce da subito. È orgogliosa e ribelle, non si fa zittire né sopraffare, non tollera le offese. Si sente ricca anche se non possiede nulla, perché sa di avere un dono che la consolerà di ogni dolore: una voce che incanta e commuove. Così, Rosa canta. Canta mentre gioca scalza per le strade, mentre lavora a servizio dei signori, mentre arriva la guerra. Canta da sola, nel suo cuore, quando a diciassette anni la mandano in sposa all’orrendo Iachinazzu senza che lei possa dire di no. Canta anche in prigione, Rosa, dopo che ha cercato di uccidere quel marito «lagnusu, latru e ’mbriacuni». È un grido fiero e feroce e lo regala agli ultimi come lei, per infondere speranza, dignità e coraggio.
Per mantenere la figlia e aiutare la sua famiglia d’origine Rosa fa molti lavori: dapprima in una vetreria, poi come raccoglitrice e venditrice di lumache, capperi, fichi d’india, sarde e infine a servizio in una famiglia nobile di Palermo, dove mette la figlia in collegio. In questo periodo impara a leggere e scrivere.
Fu una delle protagoniste del folk revival che si è sviluppato in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, quando fu invitata nel 1964 al Festival della Canzone Popolare di Salerno e premiata insieme a Giovanna Daffini. Rosa Balistreri diventò subito una delle più acclamate protagoniste della riscoperta del popolare che furoreggiava in quegli anni, ed ebbe una sorta di consacrazione ufficiale quando fu chiamata dal Nuovo Canzoniere Italiano a partecipare allo spettacolo «Ci ragiono e ci canto» di Dario Fo, che rappresentò un momento decisivo, una specie di manifesto cantato del nuovo corso.
«Non la definirei però una che si era riscattata grazie alla voce», tiene a sottolineare quest’aspetto Barzini «Non si è mai sentita arrivata, ha continuato a lottare. Anche con tutto il successo del mondo, una vita come quella che lei ha avuto è una ferita viva, non si rimargina».
La bambina scalza di Licata diventa una cantautrice amatissima dal pubblico, ammirata dalla critica, ricercata da artisti come Dario Fo. Fuori dal palco, la sua esistenza burrascosa rotea in un vortice di passioni, dolori, amori, tradimenti.
Rosa Balistreri è riuscita a emanciparsi e sottrarsi al predominio dei padri, dei mariti e delle consuetudini, ma soprattutto ha saputo trasformare il suo dolore personale in canzoni che raccontano sentimenti universali. Una vita che è un romanzo, un romanzo su una vita eccezionale.
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