Sulla destinazione delle aziende mafiose
L'analisi | 19 aprile 2023
Nelle imprese mafiose sottoposte a sequestro e confisca da parte della magistratura, si rileva un’ampia eterogeneità per quanto attiene alla determinazione del loro valore. Poiché la gestione di tali aziende ha un notevole impatto sul territorio in termini di produzione e di occupazione, appare tanto utile quanto necessario evidenziare alcuni problemi operativi inerenti alla loro valutazione, tenuto conto dell’emergere di diverse problematiche, siano esse di carattere generale o siano presenti nelle due fasi di sequestro/confisca. Ciò si verifica infatti nel caso di una valutazione aggregata delle imprese connesse alle mafie, o anche nell’attribuzione di un valore ai beni sequestrati/confiscati alle mafie, con le loro ricadute sociali. Invero, per tali motivi, l’esperienza ci insegna che emergono sostanziali difficoltà nell’attribuire un valore preciso al complesso di beni aziendali sottratti alle mafie.
Tali aziende, quando vengono individuate nel corso di un procedimento di prevenzione o all’interno di un’indagine penale (sequestro preventivo), possono essere staggite, al fine di sottrarle alla disponibilità dell’organizzazione criminale. E dunque, se si è certi che queste imprese escono effettivamente dalla disponibilità dell’organizzazione, il loro valore si riduce perché viene meno la connessione mafiosa: nel caso di una vera impresa che produce beni o servizi per un mercato legale (e non di una copertura per il riciclaggio di denaro sporco, che è tutt’altra situazione), allora il suo valore senza la connessione mafiosa sarà inferiore perché viene a mancare quell’insieme di situazioni (in parte, esternalità negative) - intimidazione dei concorrenti, pressioni sui clienti, minaccia o uso della violenza, pressioni psicologiche, minacce a familiari, favori bancari - che la rafforzano nel suo mercato, favorendone l’espansione ed eliminando la concorrenza. A livello più generale, però, si hanno dei vantaggi per le altre imprese e per i lavoratori che derivano dall’eliminazione di queste esternalità negative e per un (auspicabile) effetto deterrenza nei riguardi delle organizzazioni mafiose.
Ebbene, tenuto conto delle superiori considerazioni preliminari, serve osservare la diversità del valore d’azienda connessa alle mafie, nel caso di sequestro (che è un provvedimento cautelare) rispetto al caso di confisca coperta da giudicato, con tutte le prospettive che quest’ultimo provvedimento genera per il destino dell’azienda.
L’azienda inizialmente sequestrata che successivamente viene confiscata, vede cambiare irrimediabilmente il proprio valore a causa del cambiamento del proprio destino. In corso di sequestro, l’azienda viene amministrata normalmente e continua ad assolvere ai propri fini istituzionali secondo principi di legalità e trasparenza attuati dai nominati amministratori giudiziari.
Intervenuta la confisca, gli indirizzi prospettici aziendali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, mutano sostanzialmente: l’azienda confiscata viene gestita dall’ANBSC secondo criteri molto spesso discutibili. Infatti, in tali casi, le aziende vengono smembrate con la conseguente perdita delle loro peculiarità e unitarietà; i beni aziendali vengono estrapolati dal bilancio – azzerandone l’attivo – per essere destinati a terzi (enti locali, enti no profit, associazioni...). Conseguentemente i bilanci dell’ente in confisca finiscono per rappresentare una situazione debitoria alla quale l’ente stesso non potrà fare fronte per mancanza di attivo e dovrà necessariamente chiedere l’intervento dell’erario pubblico per il loro soddisfacimento. Detta situazione non potrà dunque che incidere profondamente nella valutazione dell’azienda nel percorso fra sequestro e confisca.
In tutto ciò, assai inquietante appare il comportamento delle banche – almeno molte di esse – che, ante sequestro, in presenza di aziende chiaramente ingestibili, concedono ingenti linee di credito senza garanzia ma solo in funzione dell’autorevolezza (sic!) dell’imprenditore mafioso. Il rapporto fra sistema bancario ed economia mafiosa è molto stretto; le banche costituiscono il vero ed essenziale supporto alle imprese mafiose che devono, come principio fondante della loro esistenza, conseguire grandi affari nel mondo degli appalti, dell’edilizia, del traffico di stupefacenti, del gioco d’azzardo e delle scommesse e di altre operazioni che gravitano nel mondo del mercato sommerso dell’illecito. Il sistema bancario in generale, salvo rari casi, non ha mai saputo o voluto prendere le distanze dall’impresa mafiosa; in molte occasioni non solo non ha valutato opportunamente – pur avendone la possibilità – la mala gestio dell’imprenditore, ma addirittura ha mantenuto un rapporto di collusione se non, talvolta, di complicità, condividendone operazioni palesemente irregolari o addirittura oltre i confini del lecito. La questione dell’intervento delle banche nel sistema imprenditoriale mafioso, non è di poco conto in quanto i loro crediti, iscritti fra i debiti dei bilanci delle aziende sequestrate o confiscate, non potranno essere soddisfatti se non dopo averne provato la buona fede (del terzo creditore). Dunque la banca dovrà provare all’organo giudiziario competente, la buona fede nell’avere concesso linee di credito all’azienda mafiosa a fronte di garanzie insufficienti o addirittura inesistenti; ma, cosa assai più onerosa, dovrà provare la propria buona fede nei casi di vera e propria partecipazione ad attività irregolari o ad operazioni sospette. Nei casi in cui la banca non dovesse riuscire a provare la propria buona fede, il Tribunale potrà addirittura ordinare la cancellazione del credito dal bilancio aziendale. Anche in questo caso dunque non potrà non rilevarsi una forte influenza, delle inerenti poste contabili incerte, nella valutazione dell’azienda mafiosa.
Non è poi da trascurare, nella valutazione di aziende connesse alle mafie, la diversità di intenti e, pertanto, di politica gestionale, che si prefiggono di raggiungere, per un verso l’imprenditore – in special modo se mafioso – e, per altro verso l’amministratore giudiziario nel corso del sequestro/confisca. Come è noto, l’imprenditore in genere – anche quello mafioso – persegue il fine del lucro della propria azienda subendo quello che si chiama comunemente “rischio d’impresa”1. L’amministratore giudiziario – in quanto munus publicum non avendo interessi personali – nella gestione dell’azienda sequestrata/confiscata, non subisce il rischio d’impresa in quanto amministra (per conto di chi spetta) secondo percorsi assolutamente tecnici improntati alla correttezza ed alla trasparenza, anche se questi principi dovessero creare all’azienda difficoltà economico-finanziarie.
A puro titolo di esempio, si consideri l’attività di edilizia privata svolta da un amministratore giudiziario mediante l’apertura di un cantiere edile per la realizzazione di un fabbricato le cui singole unità immobiliari vengono destinate alla vendita. Il piano finanziario messo a punto dall’amministratore giudiziario indicherà, fra l’altro, il cosiddetto “break even point” che è il punto in cui i costi sostenuti per la costruzione vengono coperti dai corrispettivi rivenienti dalle promesse di vendita degli immobili in corso di costruzione. L’imprenditore in genere, da quel momento in avanti, continuerà a promettere in vendita le unità immobiliari rimaste, ben sapendo che i corrispettivi che dovrà riscuotere, costituiranno il suo margine di utile lordo; e la finalità sarà quella di chiudere la propria impresa in utile al fine di poterlo distribuire all’imprenditore medesimo (ai soci nel caso di ente giuridico); al contrario l’amministratore giudiziario, non dovendo distribuire utili nella prospettiva della confisca, tende a patrimonializzare l’azienda con la conseguenza che non procederà alla vendita delle unità immobiliari rimaste. Anche in questo caso dunque la diversità di gestione influenza notevolmente i criteri che riguardano la valutazione delle aziende connesse alle mafie.
È importante, quindi, nel valutare queste imprese al momento del sequestro e della eventuale successiva confisca, che la procedura di valutazione tenga conto di questo “salto di valore” e anche del conseguente possibile ridimensionamento dell’impresa sia in termini di fatturato che d’occupazione, con le relative ricadute sociali, per minimizzare le quali occorrerebbe predisporre contromisure economiche e sociali.
di Elio Collovà
Tali aziende, quando vengono individuate nel corso di un procedimento di prevenzione o all’interno di un’indagine penale (sequestro preventivo), possono essere staggite, al fine di sottrarle alla disponibilità dell’organizzazione criminale. E dunque, se si è certi che queste imprese escono effettivamente dalla disponibilità dell’organizzazione, il loro valore si riduce perché viene meno la connessione mafiosa: nel caso di una vera impresa che produce beni o servizi per un mercato legale (e non di una copertura per il riciclaggio di denaro sporco, che è tutt’altra situazione), allora il suo valore senza la connessione mafiosa sarà inferiore perché viene a mancare quell’insieme di situazioni (in parte, esternalità negative) - intimidazione dei concorrenti, pressioni sui clienti, minaccia o uso della violenza, pressioni psicologiche, minacce a familiari, favori bancari - che la rafforzano nel suo mercato, favorendone l’espansione ed eliminando la concorrenza. A livello più generale, però, si hanno dei vantaggi per le altre imprese e per i lavoratori che derivano dall’eliminazione di queste esternalità negative e per un (auspicabile) effetto deterrenza nei riguardi delle organizzazioni mafiose.
Ebbene, tenuto conto delle superiori considerazioni preliminari, serve osservare la diversità del valore d’azienda connessa alle mafie, nel caso di sequestro (che è un provvedimento cautelare) rispetto al caso di confisca coperta da giudicato, con tutte le prospettive che quest’ultimo provvedimento genera per il destino dell’azienda.
L’azienda inizialmente sequestrata che successivamente viene confiscata, vede cambiare irrimediabilmente il proprio valore a causa del cambiamento del proprio destino. In corso di sequestro, l’azienda viene amministrata normalmente e continua ad assolvere ai propri fini istituzionali secondo principi di legalità e trasparenza attuati dai nominati amministratori giudiziari.
Intervenuta la confisca, gli indirizzi prospettici aziendali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, mutano sostanzialmente: l’azienda confiscata viene gestita dall’ANBSC secondo criteri molto spesso discutibili. Infatti, in tali casi, le aziende vengono smembrate con la conseguente perdita delle loro peculiarità e unitarietà; i beni aziendali vengono estrapolati dal bilancio – azzerandone l’attivo – per essere destinati a terzi (enti locali, enti no profit, associazioni...). Conseguentemente i bilanci dell’ente in confisca finiscono per rappresentare una situazione debitoria alla quale l’ente stesso non potrà fare fronte per mancanza di attivo e dovrà necessariamente chiedere l’intervento dell’erario pubblico per il loro soddisfacimento. Detta situazione non potrà dunque che incidere profondamente nella valutazione dell’azienda nel percorso fra sequestro e confisca.
In tutto ciò, assai inquietante appare il comportamento delle banche – almeno molte di esse – che, ante sequestro, in presenza di aziende chiaramente ingestibili, concedono ingenti linee di credito senza garanzia ma solo in funzione dell’autorevolezza (sic!) dell’imprenditore mafioso. Il rapporto fra sistema bancario ed economia mafiosa è molto stretto; le banche costituiscono il vero ed essenziale supporto alle imprese mafiose che devono, come principio fondante della loro esistenza, conseguire grandi affari nel mondo degli appalti, dell’edilizia, del traffico di stupefacenti, del gioco d’azzardo e delle scommesse e di altre operazioni che gravitano nel mondo del mercato sommerso dell’illecito. Il sistema bancario in generale, salvo rari casi, non ha mai saputo o voluto prendere le distanze dall’impresa mafiosa; in molte occasioni non solo non ha valutato opportunamente – pur avendone la possibilità – la mala gestio dell’imprenditore, ma addirittura ha mantenuto un rapporto di collusione se non, talvolta, di complicità, condividendone operazioni palesemente irregolari o addirittura oltre i confini del lecito. La questione dell’intervento delle banche nel sistema imprenditoriale mafioso, non è di poco conto in quanto i loro crediti, iscritti fra i debiti dei bilanci delle aziende sequestrate o confiscate, non potranno essere soddisfatti se non dopo averne provato la buona fede (del terzo creditore). Dunque la banca dovrà provare all’organo giudiziario competente, la buona fede nell’avere concesso linee di credito all’azienda mafiosa a fronte di garanzie insufficienti o addirittura inesistenti; ma, cosa assai più onerosa, dovrà provare la propria buona fede nei casi di vera e propria partecipazione ad attività irregolari o ad operazioni sospette. Nei casi in cui la banca non dovesse riuscire a provare la propria buona fede, il Tribunale potrà addirittura ordinare la cancellazione del credito dal bilancio aziendale. Anche in questo caso dunque non potrà non rilevarsi una forte influenza, delle inerenti poste contabili incerte, nella valutazione dell’azienda mafiosa.
Non è poi da trascurare, nella valutazione di aziende connesse alle mafie, la diversità di intenti e, pertanto, di politica gestionale, che si prefiggono di raggiungere, per un verso l’imprenditore – in special modo se mafioso – e, per altro verso l’amministratore giudiziario nel corso del sequestro/confisca. Come è noto, l’imprenditore in genere – anche quello mafioso – persegue il fine del lucro della propria azienda subendo quello che si chiama comunemente “rischio d’impresa”1. L’amministratore giudiziario – in quanto munus publicum non avendo interessi personali – nella gestione dell’azienda sequestrata/confiscata, non subisce il rischio d’impresa in quanto amministra (per conto di chi spetta) secondo percorsi assolutamente tecnici improntati alla correttezza ed alla trasparenza, anche se questi principi dovessero creare all’azienda difficoltà economico-finanziarie.
A puro titolo di esempio, si consideri l’attività di edilizia privata svolta da un amministratore giudiziario mediante l’apertura di un cantiere edile per la realizzazione di un fabbricato le cui singole unità immobiliari vengono destinate alla vendita. Il piano finanziario messo a punto dall’amministratore giudiziario indicherà, fra l’altro, il cosiddetto “break even point” che è il punto in cui i costi sostenuti per la costruzione vengono coperti dai corrispettivi rivenienti dalle promesse di vendita degli immobili in corso di costruzione. L’imprenditore in genere, da quel momento in avanti, continuerà a promettere in vendita le unità immobiliari rimaste, ben sapendo che i corrispettivi che dovrà riscuotere, costituiranno il suo margine di utile lordo; e la finalità sarà quella di chiudere la propria impresa in utile al fine di poterlo distribuire all’imprenditore medesimo (ai soci nel caso di ente giuridico); al contrario l’amministratore giudiziario, non dovendo distribuire utili nella prospettiva della confisca, tende a patrimonializzare l’azienda con la conseguenza che non procederà alla vendita delle unità immobiliari rimaste. Anche in questo caso dunque la diversità di gestione influenza notevolmente i criteri che riguardano la valutazione delle aziende connesse alle mafie.
È importante, quindi, nel valutare queste imprese al momento del sequestro e della eventuale successiva confisca, che la procedura di valutazione tenga conto di questo “salto di valore” e anche del conseguente possibile ridimensionamento dell’impresa sia in termini di fatturato che d’occupazione, con le relative ricadute sociali, per minimizzare le quali occorrerebbe predisporre contromisure economiche e sociali.
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