Sistema mafia, tutti i limiti dei cicli legislativi

L'analisi | 8 settembre 2024
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Sono molteplici e inimmaginabili le ricadute di carattere economico del “sistema mafia”, sulla comunità, derivanti dalle specifiche dinamiche economiche dell’organizzazione mafiosa.
Fino a qualche anno fa, l’azienda mafia, avvalendosi del metodo intimidatorio e del ricorso all’illegalità, era un’azienda che cresceva continuamente e registrava centinaia di miliardi di utile senza conoscere alcuna crisi e avvantaggiandosi della “esenzione” fiscale. L’azienda mafia diventa la grande protagonista dell’economia italiana potenzialmente capace di coprire, con il proprio “fatturato”, parecchie manovre finanziarie dei governi che si sono succeduti nel tempo. Soldi sporchi, macchiati di sangue, frutto di violenza e di soprusi.
Un’economia sporca in continua crescita mentre l’economia sana langue in danno della rete di piccole imprese commerciali o artigiane che non riescono a sostenere il peso dell’indebitamento e non riescono neanche a ottenere linee di credito e finanziamenti dalle banche.
Nel gennaio del 2012 il presidente di Confesercenti, Marco Venturi (grande accusatore di Antonello Montante), dichiarava che “una parte del Paese è controllata dalla criminalità organizzata e la crisi, la mancanza di fondi, rendono ancora più drammatico il problema. Lo Stato si è impegnato, ma serve un cambio di passo delle istituzioni: niente sponde politiche, niente appalti, assunzioni, investimenti all’ombra della criminalità”
Com’è ormai consuetudine, non sembra che da allora siano seguiti interventi dello Stato per mettere fine alla supremazia economica della mafia che ha continuato a crescere e ad arricchirsi.
L’obiettivo dell’impresa mafia non è tanto quello di ottenere il benessere dei propri associati quanto quello dell’arricchimento tout court. Uno studio particolareggiato di Marco Arnone, giovane e valentissimo economista prematuramente scomparso, sostiene che la vera lotta alla criminalità organizzata può realizzarsi in termini positivi, solamente mediante l’applicazione di strumenti idonei a colpire i patrimoni mafiosi e quindi gli immobili, i beni mobili, i valori mobiliari, le disponibilità liquide, i beni-azienda.
Partiamo da un concetto che non può sfuggire e che è naturalmente prioritario rispetto a qualsiasi altro. Oggi parliamo di mafia economica e finanziaria. Dobbiamo tralasciare ogni argomentazione sulla mafia militare perché essa oggi assume le forme dello Stato e s’infiltra nello Stato stesso: nella pubblica amministrazione, nella società civile, nell’associazionismo, perfino nella chiesa e perfino nell’antimafia (un certo tipo di antimafia).
I figli dei mafiosi si sono addottrinati, hanno frequentato le scuole di classe, noti istituti privati; sono divenuti avvocati, medici, ingegneri, manager. Perciò sono riusciti ad infiltrarsi nella società civile, ne fanno parte a pieno titolo, frequentano i salotti cittadini, i circoli, i club, i ristoranti alla moda. E fanno di tutto – riuscendovi quasi sempre – per insinuarsi nel mondo economico ed imprenditoriale anche facendo uso del potere intimidatorio imparato ed ereditato dai propri padri.
Così il gioco è fatto!
Sia pure con altri sistemi, apparentemente più leciti, riescono a controllare il territorio non più dall’esterno bensì standovi dentro, mischiandosi al resto della collettività, molto spesso con la piena e silente consapevolezza di quest’ultima.
Questo è il vero momento della trasformazione: il sistema mafioso si orienta verso il mondo economico e finanziario. Ecco perché la vera lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso non potrà che essere indirizzata all’aggressione dei patrimoni, quelli che stanno a cuore al mafioso perché costituiscono la costruzione di un potere parallelo concorrente con il potere dello Stato.
Come già detto, è ormai opinione comune – ne hanno discusso ampiamente giuristi, sociologi e altri esperti della materia – che il mafioso è già assuefatto alla vita carceraria tanto da tollerarla mentre mal tollera essere privato dei propri beni, frutto della propria attività malavitosa e criminale ma pur sempre simbolo del potere acquisito. Ecco perché, con riferimento alle analisi economiche, lo Stato dovrebbe riservare maggiori risorse umane e finanziarie all’informazione sull’economia mafiosa tanto da evitare che uno Stato invisibile si accosti ad un sistema mafioso ben visibile ma poco osservato dall’opinione pubblica.
La responsabilità di tale indolenza non può essere attribuita – come spesso avviene – ad eventuale inoperosità della magistratura o delle forze dell’ordine che invece sono quotidianamente impegnate per combattere il fenomeno con molteplici difficoltà. Si provi a pensare alla carenza dell’organico nella magistratura requirente e giudicante, alla carenza del personale di segreteria e di cancelleria, alla carenza di strumenti di indagine. Il pianeta giustizia, non può certamente funzionare in condizioni di precarietà; esso dovrebbe avere tutta l’attenzione del mondo politico. Ma l’attuale situazione mostra con evidenza quanto poca sia la volontà del legislatore e dell’esecutivo, di dare una svolta decisiva a questa immane lotta.
Invero le vicende di mafia sono sempre soggette a cicli autonomi nel senso che ad ogni eccidio, ad ogni strage, corrisponde immancabilmente un intervento repressivo dello Stato. La prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e la prima legge antimafia nascono dopo la strage dei Ciaculli; la seconda legge antimafia voluta da Pio La Torre nasce dopo l’omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa; dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, nascono nuove leggi antimafia che integrano le norme già esistenti. Insomma, è più che evidente che il legislatore e l’esecutivo si siano mossi sempre in occasione di stragi, attentati, uccisioni di magistrati e di uomini delle forze dell’ordine. Questa è la prova evidente che la politica non è voluta intervenire quando avrebbe potuto farlo in tutta calma, portando in discussione parlamentare una vera riforma che fosse di valido ausilio per gli addetti ai lavori. E invece ha preferito partorire un cosiddetto codice antimafia, nel 2011 (e poi integrato e modificato più volte) dal cui esame traspaiono in tutta evidenza i forti limiti ereditati dalle precedenti norme approvate frettolosamente e, a volte, anche demagogicamente, per simboleggiare uno Stato intraprendente e impeccabile.
Con la riforma del codice antimafia – come già prima osservato – il legislatore è riuscito a colmare parzialmente alcune gravi lacune della normativa vigente. Tuttavia non si può affermare che l’attuale versione di tale codice soddisfi le esigenze della magistratura per tenere vivo il contrasto alla criminalità organizzata.
Ma perché la mafia attacca con azioni clamorose e violente proprio nei momenti in cui si registra calma piatta? È ovvio che tali azioni corrispondano a precise reazioni d’insoddisfazione nei confronti del potere politico che probabilmente non ha rispettato patti e condizioni. E questo potrebbe dipendere anche da un calo di consenso nell’opinione pubblica e nelle difficoltà riscontrate da politici ed amministratori corrotti, collusi o complici, nel fare approvare provvedimenti e leggi che possano contenere la pressione sulle organizzazioni criminali.
C’è un’altra questione che non si può sottovalutare e che s’inserisce a viva forza nell’argomentazione economica del “sistema mafia”. È la questione che riguarda quanto accadeva durante la prima Repubblica, quando le imprese di mafia operavano all’interno della cosiddetta “economia assistita” meridionale, cioè un’economia alterata dalla spesa pubblica in cui scorrevano fiumi di denaro che alimentavano il flusso della spesa per gli appalti pubblici; e gli imprenditori (pseudo imprenditori) che vivevano di spesa pubblica manipolavano gli appalti e si impadronivano di finanziamenti destinati a fini personali, ad ingrassare le casse della mafia.
E così l’economia girava: girava intorno al ciclo edilizio e intorno al suo indotto. Adesso questo mondo è finito perché la spesa pubblica soffre ed è ridotta ai minimi termini; la spesa per gli appalti si è ridotta del 60-70 %, quindi oltre all’azione della magistratura, è la crisi economica che sta manifestando ancora oggi i suoi effetti e che quindi costituisce un grave impedimento per la mafia.
E non è solo questo. Il mafioso cui è stato sequestrato un bene manifesta la propria insofferenza, fino a tradurla molto spesso in veri e propri atti di spietata violenza, anche, nei confronti degli stessi vertici di cosa nostra – proprio di quei vertici che sono considerati in fondo tolleranti verso la magistratura – tanto da auspicare il ritorno di uomini forti che sappiano battere il pugno sul tavolo.
La mafia si aspetta un ritorno alle maniere forti perché non ci sono più i soldi per mantenere le famiglie dei carcerati e per mantenere l’organizzazione stessa.
Quindi la stessa insofferenza che c’è nella società civile per effetto della crisi finanziaria e della recessione, comincia a nascere all’interno della società illegale; c’è una crisi di leadership, nel mondo civile come nella società illegale; c’è una chiamata alle armi, e in questo contesto ci sono soggetti poco disposti che soffiano sul fuoco; gli imprenditori mafiosi e collusi naturalmente istigano. Non soltanto il popolo mafioso ma anche i lavoratori che a causa della crisi perdono il lavoro e vengono spesso licenziati dalle aziende sequestrate; e fanno credere loro che i responsabili della crisi siano i magistrati che hanno sequestrato e confiscato le imprese e che mentre loro facevano girare l’economia, la magistratura, invece, la condannava. E oggi si aggiunge il problema dei negazionisti (come noi li chiamiamo per brevità). Anch’essi soffiano sul fuoco contestando la legge Rognoni-La Torre.
D’altronde le vicende mafiose sembrano avere un ciclo autonomo: azione mafiosa clamorosa, repressione, ristabilimento degli equilibri. Abbiamo già detto che a seguito della strage dei Ciaculli, negli anni Sessanta, è nata la prima legge antimafia e la prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia; negli anni Settanta e Ottanta, si ricordano a Palermo numerosi omicidi: Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Peppino Impastato, Piersanti Mattarella, fino a Carlo Alberto dalla Chiesa a seguito dei quali è nata la seconda legge antimafia (la più importante !) per opera di Pio La Torre. Dalle stragi che hanno visto vittime Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono nate nuove leggi antimafia. Insomma è pur vero che i maggiori successi della magistratura e delle forze dell’ordine nell’azione repressiva della criminalità organizzata si censiscono sempre sull’introduzione di nuovi strumenti legislativi emanati dal Parlamento e messe a disposizione delle forze inquirenti. E questo conferma quanto sia importante l’intervento del legislatore che dovrebbe però agire in maniera continua e persistente senza attendere il verificarsi di gravi fatti di sangue. L’inerzia del legislatore sembra essere improntata a controllare il fenomeno mafia piuttosto che a combatterlo. E ciò non può che dipendere dai forti interessi che molti uomini della politica e della pubblica amministrazione intrattengono nel mondo dell’economia e dell’impresa, soprattutto con riguardo all'ammaliante settore della gestione dei pubblici appalti.
Le stragi, gli omicidi di mafia, hanno sempre avuto come ragion d’essere, la reazione violenta dell’organizzazione criminale mafiosa innanzi al verificarsi di un disallineamento del potere politico rispetto ai patti e alle promesse assicurate.
Tale assunto ci porta a quanto già affermato circa un indebolimento del potere economico e politico dovuto alla più lunga crisi economica mai vissuta dal Paese, con conseguente aumento delle difficoltà da parte del legislatore colluso nel fare adottare provvedimenti legislativi a tutto vantaggio delle organizzazioni criminali, buoni soprattutto per attenuare le rigide regole della vita carceraria.
 di Elio Collovà

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