Sindacati, magari qualche concertone in meno e qualche lotta in più

Società | 3 maggio 2023
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Scene dal 1 maggio nel mondo. In Francia una giornata di disordini con centinaia di poliziotti e dimostranti feriti e centinaia di arresti. Dopo alcune settimane di pausa sono riprese le manifestazioni di piazza contro la legge voluta dal presidente Macron che innalza l’età del pensionamento da 62 a 64 anni. Diciamola tutta: a noi che in Italia abbiamo fissato da tempo a 67 anni l’addio al lavoro, pur con qualche distinguo e qualche scappatoia, l’atteggiamento indomabile dei nostri supponenti e privilegiati cuginetti francesi appare esagerato. Ma loro sono fatti così. Quando si tratta di diritti non si tirano indietro. Vanno giù duro, guerriglia urbana degli immancabili infiltrati “black bloc” compresa. Del resto hanno o non hanno ghigliottinato un re e una regina e diverse migliaia di nobili e presunti “controrivoluzionari”? Che diamine. Hanno inventato o no, poco meno di un secolo dopo, la “Comune” parigina?
Il 1 maggio in Libano con raduni di decine di migliaia di manifestanti si è protestato contro l’immobilismo della classe politica. In uno stato-fallito, prigioniero di divisioni storico-etniche-religiose insormontabili. Messo in ginocchio da una crisi economico-sociale spaventosa. Acuitasi ai limiti dell’irreversibile dopo la catastrofica esplosione che il 4 agosto 2020 ha devastato l’intero porto di Beirut e buona parte dei quartieri della capitale.

In Portogallo i cittadini hanno protestato contro le insostenibili bollette dei servizi e delle utenze (riscaldamento, luce, acqua e via discorrendo), contro l’inflazione, contro il carovita, contro il conseguente “lavoro povero” piaga sempre più universale.

E il 1 maggio in Italia? Due “concertoni”, liturgia sonora ormai rituale. Quello, di prassi, a Roma voluto da CGIL, CISL e UIL e il secondo a Taranto che da dieci anni segue un percorso organizzativo autonomo legato oltre che ai temi del lavoro a quelli del territorio, dell’ambiente, del polo siderurgico. Una manifestazione sindacale unitaria a Potenza. Un Consiglio dei Ministri provocatorio (perché in questa giornata? poteva benissimo essere convocato l’indomani o una settimana dopo) nel quale si è intervenuti con una sforbiciata a tempo sul cosiddetto “cuneo fiscale” ma nel quale si sono anche approvate norme che insistono sulla strada della precarizzazione del lavoro. Sempre meno a tempo indeterminato e sempre più a tempo determinato.

I tre sindacati principali – CGIL, CISL, UIL – sembrano avere ripreso approcci più unitari rispetto a qualche anno anche se in definitiva parlano lingue diverse. Con la CISL più “comprensiva” e talvolta si direbbe soddisfatta delle politiche governative. Ma le differenze possono starci, i rispettivi percorsi storici delle tre organizzazioni e l’orientamento politico degli iscritti lo richiedono. Anzi, lo impongono. Non è questo il dramma. Il dramma è che la manifestazione unitaria del 1 maggio fugge dalle città importanti e si rifugia in piazze meno ampie - che così non evidenziano il gramo numero dei partecipanti – in città di provincia. Con questa tendenza che si consolida e con le presenze ad ascoltare in piazza sempre più ridotte che si profilano per le prossime manifestazioni nazionali del 1 maggio finirà per pensarsi alla localizzazione in qualche “Borgo dei Borghi” o a Rio Bo.

E che dire della Triplice sindacale convocata a Palazzo Chigi dalla Presidente del Consiglio domenica sera per illustrare all’ultimo minuto i provvedimenti da approvare l’indomani? Roba da vignette satiriche o sfottò. O, più ragionevolmente, roba da disertare quella convocazione così tardiva e minimizzatrice se i tre segretari generali avessero avuto più attributi.

Nessuno auspica manifestazioni di piazza alla francese, vetrine rotte e auto in sosta incendiate – ci mancherebbe! – ma rimane sconcertante l’indifferenza, l’arrendevolezza, la passività degli italiani sui temi economici e sociali. Possono ballarci sopra la pancia, possono approvare leggi che rendono alla fine il lavoro sempre più precario, sempre più povero, possiamo ritrovarci schiacciati dall’inflazione e dal caro-utenze dei servizi alla collettività ma noi siamo signori. Signori si nasce. Non ci indigniamo. Non protestiamo. Sì, qualche brontolio, per carità ci può stare. Ma poi, dopo qualche giorno, tutto si placa, tutto si accetta. Forse perché esistono il lavoro nero e l’evasione fiscale che fanno - come dire? - da ammortizzatori sociali? Forse perché esiste una ramificata economia criminale che sfugge a statistiche e regole? Ammortizzatori sociali all’italiana. Può essere. Peccato che – divorati da bollette e inflazione i risparmi messi da parte a costo di feroci rinunce su tutto, dalle cure all’alimentazione - i pensionati non ce la fanno più a vivere con 600 o 700 euro al mese. E, alle prese con il “combinato disposto” di lavoro povero e carovita, rischiano di ricorrere ai pacchi alimentari delle Caritas e delle altre associazioni di volontariato tante famiglie monoreddito, le neoformate così come le composte da quarantenni e cinquantenni.

Ci accapigliamo sul Reddito di Cittadinanza. Scomodiamo Amleto: deve esserci o non deve esserci? E non capiamo, o facciamo finta di non capire, che la situazione è ben più epocale: da tre-quattro lustri a questa parte i ricchi diventano sempre più ricchi, i miliardari accatastano inaccettabilmente sempre più miliardi; i poveri diventano sempre più poveri; il ceto medio tende a sparire o comunque ad assottigliarsi. Era il ceto medio il vero motore della crescita economica e sociale. In Italia come altrove. Se cresce il ceto medio aumentano i consumi, l’istruzione, i servizi, il turismo. E dunque aumenta la produzione agroalimentare e industriale, la produzione culturale. Dagli anni ’60 del secolo scorso fino a non molti anni fa è stato così. Tutto ineluttabile? Tutto irrimediabile?

Ma quando mai. Non tutto può dipendere dalle Borse, dalla finanza, dalla BCE, dalla Federal Reserve americana. Dai tassi che salgono o scendono. La politica – meglio: la buona politica – non arretri di fronte al predominio della finanza. Non si faccia schiacciare. La politica viene prima. “Deve” venire prima. E noi italiani ricominciamo ad indignarci, a lottare. Da noi organizzare uno sciopero o una manifestazione è diventato complesso come organizzare un Concilio vaticano. Quasi che richieda anni di preparazione, ragionamenti, pensamenti e ripensamenti. Lottare non significa scivolare per forza di nuovo, come negli “anni di piombo”, in violenze, P38, attentati, bombe, terrorismo. Spauracchi che vengono additati da vari esponenti politici per tenerci buoni, per tenerci ben spenti nella nostra rassegnazione. Si lotta prima e più di tutto con la discussione e la partecipazione, incontrandosi, dialogando, manifestando, protestando pacificamente, uscendo dalle case, dal privato, dall’informatica e dal telefonino che ci cloroformizzano, ci chiudono, ci estraniano.

Bisogna lottare sul terreno retributivo e dei diritti nel lavoro ma con una strategia che metta assieme a lavoro e salari altri pilastri del vivere civile e dell’organizzazione sociale di un paese. Perché siamo così arrendevoli di fronte allo smantellamento pezzo per pezzo della sanità pubblica? Perché assistiamo distratti ed indifferenti al disastro di una scuola pubblica nella quale il dirigente scolastico ormai svolge più che altro il mestiere di autista per spostarsi un giorno qui un giorno lì in qualcuna delle cinque o sei o otto scuole di cui è “preside”, come si diceva una volta? E’ normale tutto questo? E’ accettabile? E’ irrisolvibile? E perché non si parla più di tassare le plusvalenze ossia i guadagni supermiliardari introitati dalle aziende del settore energetico, a cominciare dalle grandi aziende di Stato, grazie all’impennata dei costi del gas e degli idrocarburi in genere?

Indigniamoci. Perché non sappiamo andare oltre una scrollata di spalle quando ascoltiamo o leggiamo di ennesime morti sul lavoro e di incidenti sul lavoro. Una strage che viaggia - come decenni fa quando si lavorava con pala e piccone - su numeri assurdi che superano il migliaio l’anno. Se siamo indifferenti siamo complici di queste morti.
Quanto alle organizzazioni sindacali, un consiglio disinteressato: che ne direste di più lotte e meno concertoni del 1 maggio, più tutele e meno liturgie, più presenza nei luoghi di lavoro e meno burocrazia sindacale? Visto l’arretramento che si registra in fatto di “lavoro sicuro”, “lavoro dignitosamente retribuito”, “lavoro che non sia sempre più a tempo determinato e precario”, occorre trasformare questi tre obiettivi in altrettanti “imperativi categorici” dell’azione sindacale. Ossessivamente. Incessantemente. Giornalmente.

E un altro consiglio. Mirato. Pratico. Così come esiste all’interno di ogni sindacato con una propria organizzazione il comparto “Pensionati” o “Metalmeccanici” o “Funzione Pubblica” non si perda un solo giorno per istituire il comparto “Giovani”. Destinato all’iscrizione, alla tutela ed alle lotte sindacali di donne e uomini dai 16 ai 35-38 anni. Con un proprio Segretario confederale e una propria organizzazione ben strutturata sul territorio. La Confindustria, con la sua articolazione dei Giovani Industriali l’aveva già capito tantissimo tempo fa, alla fine degli anni ’60.
 di Pino Scorciapino

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