Se il metodo mafioso si trasferisce nell'impresa
L'analisi | 4 aprile 2023
Cominciamo con il dire che la mafia non si vede, però si percepisce. Già questo primo assunto offre un panorama della mafia, come fenomeno ( e poi come sistema) assai inquietante, perché essa viene rappresentata nella sua invisibilità, impalpabilità, inavvicinabilità e si realizza, mediante svariate performances, in numerosi eventi e fatti della vita economico-sociale.
E’ un po’ come camminare su un campo ricolmo di vegetazione lussureggiante al punto da non fare in alcun modo sospettare che esso altro non sia se non la copertura di una discarica di rifiuti assolutamente invisibile. Eppure quella discarica c’è, è lì, è invisibile ma si percepisce a causa di quell’aria fetida e nauseabonda che mal si armonizza con quell’esteriore visione paradisiaca.
La mafia dunque non si vede, almeno oggi. Chi pensa, visitando Palermo o la Sicilia, di incontrare per strada facce di uomini silenziosi, dai folti baffi neri e dai capelli brillantinati, con la coppola storta in testa e la scopetta (fucile) a tracolla, si sbaglia del tutto. Non è più così. La mafia oggi, contrariamente a quanto accadeva molti decenni or sono, non si vede perché si nasconde; si nasconde perché non v’è ragione di dovere apparire; si nasconde per non rischiare di farsi scoprire; si nasconde perché così, nel retroscena, è più facile esercitare il proprio potere ed il controllo sul territorio; si nasconde perché si mimetizza e può più facilmente mischiarsi nella folla, nella società civile, nei circoli bene, nei meandri corporativi delle classi professionali, finanche nelle classi impiegatizie della pubblica amministrazione, da sempre considerata non solo un buon punto di osservazione e di controllo dei compiacenti politici di turno, ma anche la loro longa manus.
La mafia è intelligente. E’ fornita di un’intelligenza perversa finalizzata esclusivamente alla commissione di fatti criminosi. E sa bene quando intervenire, quando apparire e quando invece è più opportuno desistere da azioni eclatanti e plateali.
Leonardo Sciascia volle tratteggiare la mafia con un aforisma perfettamente calzante in quanto rappresenta una mafia che sa abbassarsi (desistere) quando il fiume è in piena, cioè quando l’attività della magistratura e delle forze dell’ordine è tale da non potere utilizzare quegli spazi di controllo del territorio e di zona franca: calati iuncu ca’ passa la china.
Insomma tutto ruota intorno al potere. Esercizio del potere sugli altri, sul territorio; e tutto ciò non solo perché il potere procura denaro (che comunque in certe occasioni, specialmente per chi conduce un’intera vita da latitanti, non appare fondamentale), ma soprattutto per il piacere di comandare; evidentemente l’esercizio del comando nel mafioso procura una sorta di libidine incontenibile ed inspiegabile.
D’altronde qualcuno ricorderà quella massima siciliana, volgare ma efficace, nella quale si trova racchiusa buona parte della spiegazione del potere mafioso e, oggi più che mai, della politica italiana:.
Detto ciò, l’azienda mafia, quella che, con l’avvento della crisi economica globale, si è prepotentemente insinuata nell’economia mondiale, e in particolare in quella occidentale, è, al tempo stesso, (con)causa ed effetto della crisi medesima. Non sfuggirà ad alcuno che l’intervento finanziario delle mafie nell’economia mondiale, sia stato almeno concausa della crisi in forza dell’origine illecita di quelle provviste; ma, parimenti, l’affluenza di denaro sporco nell’economia ufficiale, pone la mafia in condizione di egemonia nei confronti del mercato.
Durante la crisi bancaria mondiale, soprattutto quella statunitense, a seguito delle forti perdite registrate dalle banche, solo l’impresa mafiosa fu in grado, con la sua incalcolabile liquidità proveniente dal traffico illecito della droga colombiana, di sostenere il sistema bancario americano con grande ricaduta su quello mondiale. E tutto questo è avvenuto con la sfrontata collusione delle banche che hanno ripulito cifre incalcolabili di denaro con l’adozione del semplicissimo sistema di acquisto di titoli elettronici che facevano veleggiare da un paese all’altro, da un continente all’altro, al fine di farne perdere le tracce.
Il sociologo Pino Arlacchi, per definire l’imprenditore mafioso, tratteggia il suo stile di vita e la sua cultura, sostenendo che il mafioso in genere si presentava nella società con discrezione e riservatezza, senza alcuna ostentazione della propria ricchezza, in quanto il suo potere, la sua influenza, le del suo status, erano strettamente connesse alla sua agiatezza. Secondo il sociologo, il mafioso non aveva bisogno neanche di essere ricco per esercitare il proprio potere sul territorio; gli bastava solamente non lavorare ed essere indipendente in una società assolutamente fondata e dipendente dal lavoro a costo di sacrifici.
Con il venir meno della cultura tradizionale, tuttavia, anche il mafioso tipico è cambiato; com’è anche mutata la sua attività. Con un termine moderno, si potrebbe dire che la sua cultura si è globalizzata. I suoi confini e le sue prospettive si sono estesi; egli ha capito che non poteva rimanere stretto nel proprio giardinetto, che doveva espandere il proprio potere oltre provincia, nell’intero territorio regionale o nell’intero paese.
E così, viene alla luce, il mafioso imprenditore caratterizzato dai simboli dell’agiatezza, dal lusso pacchiano, dalle frequentazioni del mondo della finanza e della politica; a volte occupa posti di responsabilità nella società o, addirittura conquista i vertici delle istituzioni dai cui pulpiti divulga ingannevoli ed apparenti proclami di legalità.
Il mafioso moderno – ancor più se imprenditore mafioso – ama enormemente ostentare la propria ricchezza ed il proprio potere. Lo fa in diversi modi ma certamente quelli più utilizzati riguardano le proprie abitazioni, quelle in cui vive con le rispettive famiglie sempre numerose.
Nino Madonia, oggi pluricondannato all’ergastolo, figlio maggiore del boss di Cosa Nostra, Francesco Madonia, seguendo le orme del padre, alleato dei corleonesi, si conquistò il posto di boss di Resuttana (quartiere periferico di Palermo).
Quando gli fu applicata la misura di prevenzione patrimoniale con il sequestro di molteplici beni, fui nominato amministratore giudiziario. E in occasione dei sopralluoghi di due immobili – al fine di prenderne il possesso - che lo stesso condannato aveva abitato sotto falso nome nel corso della sua latitanza, rimasi stupito dagli arredi e dall’abbigliamento personale del Madonia contenuto in numerosi armadi super serviti.
Il primo dei due appartamenti si trova in via D’Amelio, proprio nel fabbricato che sta di fronte a quello in cui abitava la madre di Paolo Borsellino e dove lo stesso fu tragicamente trucidato insieme agli uomini della sua scorta. (E’ stato sconvolgente per me scoprire che il pericoloso criminale latitante Nino Madonia, si nascondeva in un appartamento a pochi passi da quello, giornalmente frequentato dall’eroico magistrato).
Quell’appartamento, apparentemente di proprietà altrui, era arredato riccamente ma con gusto assai discutibile. Qualunque cosa era di brutta estetica ma soprattutto quella casa era fornita di una molteplicità di beni (anche alimenti e liquori) che dimostravano il cosiddetto; chi vive nascosto, ma fornito di una floridezza senza uguali che allevia la sua latitanza.
Gli armadi erano ricolmi di lussuosi capi di abbigliamento in pelle, di pellicce, di camicie di seta, di scarpe (church, Prada) costosissime; insomma tutto rigorosamente firmato.
Quella casa e i suoi contenuti, mi è apparsa immediatamente kitsch ma non sapevo ancora cosa avrei dovuto vedere da lì a poco.
Andai a fare un altro sopralluogo, in un altro appartamento – anche quello abitato dal Madonia e da alcuni suoi familiari durante la sua latitanza – al nono piano di viale del fante; un appartamento con una vista Monte Pellegrino assolutamente impagabile; sennonché, gli interni apparivano davvero straordinariamente sproporzionati, disarmonici, addirittura sconvenienti. Pareti rigorosamente ricoperte da tessuti che riproducevano grossi uccelli o finte foreste; saune finlandesi realizzate in legno e azionate da costosissimi macchinari ad alta tecnologia, cucina prosperamente arredata e dotata di ogni confort, tale da potere essere utilizzata per luculliane abbuffate in favore di numerosi ospiti, bagni dalla rubinetteria vistosamente dorata e costellati da grandiosi specchi variamente smerigliati e disegnati.
Questa è l’ostentazione del latitante, quella di cui tutti sanno e nessuno deve sapere.
Nel sequestro in danno di Nicolò Eucaliptus, di cui fui nominato amministratore giudiziario, la mia impressione fu forte quando mi trovai al cospetto di una grande villa in territorio di Bagheria, utilizzata da tutti i familiari. Un immobile al quale si accede attraverso spiazzi esterni forniti di finti pozzi, tanto grossolano e di cattivo gusto quanto squallido. L’immobile constava di diversi livelli, comprensivi di tipica ed immancabile, in ognuno dei quali erano visibili statue di animali a dimensione reale (leopardi, cani) ed un affollamento tale di sopramobili da confondere le idee.
La casa dell’ingegnere Pietro Di Vincenzo, a Roma in prossimità del Pantheon, costituisce, anche quella, ostentazione della ricchezza e del potere. Chiunque era a conoscenza di questa residenza romana del Di Vincenzo che lo stesso utilizzava nelle sue trasferte romane.
C’è un altro esempio tipico di ostentazione, ancora più sfacciato: L’anziano Francesco Casarubea, socio della sala da gioco “Las Vegas Bingo s.r.l.”, risiedeva nella sua barca di ben 24 metri con due motori entrobordo di 700 cavalli ciascuno, ormeggiata nel porticciolo dell’Arenella (la barca per la verità era di proprietà della società ma utilizzata per fini personali) ed ogni mattina amava sedersi sul ponte dello Yacht per farsi radere la barba dal barbiere del luogo marinaro alla presenza di tutti i passanti.
Ma questa è solo una diceria della gente locale (anche se supportata da fonte sicura); personalmente non ho mai avuto modo di costatare che quella vicenda fosse vera. Tuttavia, se lo fosse, non si può fare a meno di pensare che quella pratica, costituisca un tipico esempio di ostentazione dell’esercizio del potere mafioso.
La questione dell’ostentazione della propria ricchezza da parte del mafioso, non deve indurre a pensare che quest’ultima sia incongruente con l’affermazione dell’invisibilità della mafia. L’invisibilità riguarda il sistema mafioso mentre l’ostentazione della ricchezza costituisce una sorta di messaggio interno all’organizzazione.
Dopo questa breve divagazione su tipici esempi di ostentazione del potere e della ricchezza della mafia, ritorniamo a Pino Arlacchi, e alla sua identificazione dell’imprenditore mafioso. Egli sostiene, fra l’altro, che l’imprenditore tipico – non quello mafioso - è quello che deve indirizzare la propria attività all’innovazione.
Egli, per conseguire i propri fini, deve necessariamente innovare nella propria impresa anche rischiando il capitale investito. Il rischio d’impresa, nella normalità dei casi, è, infatti, proprio dell’imprenditore; esso si scompone in diversi fattori quali il rischio economico, il rischio finanziario ed il rischio patrimoniale; ma non può prescindersi dal rischio reputazionale consistente nella responsabilità dell’imprenditore di adottare scelte di gestione che non producano effetti negativi nella reputazione. Sostiene Arlacchi, che una delle innovazioni consiste proprio nel trasferire il cosiddetto “metodo mafioso” nell’impresa; in buona sostanza, l’abbandono del metodo legale e l’uso, in alternativa del metodo mafioso, danno luogo all’impresa mafiosa e quindi all’imprenditore mafioso.
Il metodo mafioso consiste nella monopolizzazione delle forniture di beni e servizi mediante l’attivazione di sistemi di scoraggiamento o intimidazione, nella grande disponibilità di finanze proveniente da attività illecite (droga, armi, commercio di organi umani, gioco d’azzardo), nell’evasione fiscale, nell’adozione di lavoro in nero. Tutte attività procurate con la contiguità – ma molto frequentemente con la collusione - di buona parte delle istituzioni (pubblica amministrazione, enti locali), degli istituti bancari, della politica. Purtroppo bisogna ammettere che, in alcuni casi, si registra la complicità – e soprattutto il tradimento – di uomini delle forze dell’ordine che hanno venduto il proprio giuramento di fedeltà alla giustizia, alla legalità e allo Stato, per un tozzo di pane o per un profondo cambiamento del proprio status symbol .
di Elio Collovà
E’ un po’ come camminare su un campo ricolmo di vegetazione lussureggiante al punto da non fare in alcun modo sospettare che esso altro non sia se non la copertura di una discarica di rifiuti assolutamente invisibile. Eppure quella discarica c’è, è lì, è invisibile ma si percepisce a causa di quell’aria fetida e nauseabonda che mal si armonizza con quell’esteriore visione paradisiaca.
La mafia dunque non si vede, almeno oggi. Chi pensa, visitando Palermo o la Sicilia, di incontrare per strada facce di uomini silenziosi, dai folti baffi neri e dai capelli brillantinati, con la coppola storta in testa e la scopetta (fucile) a tracolla, si sbaglia del tutto. Non è più così. La mafia oggi, contrariamente a quanto accadeva molti decenni or sono, non si vede perché si nasconde; si nasconde perché non v’è ragione di dovere apparire; si nasconde per non rischiare di farsi scoprire; si nasconde perché così, nel retroscena, è più facile esercitare il proprio potere ed il controllo sul territorio; si nasconde perché si mimetizza e può più facilmente mischiarsi nella folla, nella società civile, nei circoli bene, nei meandri corporativi delle classi professionali, finanche nelle classi impiegatizie della pubblica amministrazione, da sempre considerata non solo un buon punto di osservazione e di controllo dei compiacenti politici di turno, ma anche la loro longa manus.
La mafia è intelligente. E’ fornita di un’intelligenza perversa finalizzata esclusivamente alla commissione di fatti criminosi. E sa bene quando intervenire, quando apparire e quando invece è più opportuno desistere da azioni eclatanti e plateali.
Leonardo Sciascia volle tratteggiare la mafia con un aforisma perfettamente calzante in quanto rappresenta una mafia che sa abbassarsi (desistere) quando il fiume è in piena, cioè quando l’attività della magistratura e delle forze dell’ordine è tale da non potere utilizzare quegli spazi di controllo del territorio e di zona franca: calati iuncu ca’ passa la china.
Insomma tutto ruota intorno al potere. Esercizio del potere sugli altri, sul territorio; e tutto ciò non solo perché il potere procura denaro (che comunque in certe occasioni, specialmente per chi conduce un’intera vita da latitanti, non appare fondamentale), ma soprattutto per il piacere di comandare; evidentemente l’esercizio del comando nel mafioso procura una sorta di libidine incontenibile ed inspiegabile.
D’altronde qualcuno ricorderà quella massima siciliana, volgare ma efficace, nella quale si trova racchiusa buona parte della spiegazione del potere mafioso e, oggi più che mai, della politica italiana:
Detto ciò, l’azienda mafia, quella che, con l’avvento della crisi economica globale, si è prepotentemente insinuata nell’economia mondiale, e in particolare in quella occidentale, è, al tempo stesso, (con)causa ed effetto della crisi medesima. Non sfuggirà ad alcuno che l’intervento finanziario delle mafie nell’economia mondiale, sia stato almeno concausa della crisi in forza dell’origine illecita di quelle provviste; ma, parimenti, l’affluenza di denaro sporco nell’economia ufficiale, pone la mafia in condizione di egemonia nei confronti del mercato.
Durante la crisi bancaria mondiale, soprattutto quella statunitense, a seguito delle forti perdite registrate dalle banche, solo l’impresa mafiosa fu in grado, con la sua incalcolabile liquidità proveniente dal traffico illecito della droga colombiana, di sostenere il sistema bancario americano con grande ricaduta su quello mondiale. E tutto questo è avvenuto con la sfrontata collusione delle banche che hanno ripulito cifre incalcolabili di denaro con l’adozione del semplicissimo sistema di acquisto di titoli elettronici che facevano veleggiare da un paese all’altro, da un continente all’altro, al fine di farne perdere le tracce.
Il sociologo Pino Arlacchi, per definire l’imprenditore mafioso, tratteggia il suo stile di vita e la sua cultura, sostenendo che il mafioso in genere si presentava nella società con discrezione e riservatezza, senza alcuna ostentazione della propria ricchezza, in quanto il suo potere, la sua influenza, le
Con il venir meno della cultura tradizionale, tuttavia, anche il mafioso tipico è cambiato; com’è anche mutata la sua attività. Con un termine moderno, si potrebbe dire che la sua cultura si è globalizzata. I suoi confini e le sue prospettive si sono estesi; egli ha capito che non poteva rimanere stretto nel proprio giardinetto, che doveva espandere il proprio potere oltre provincia, nell’intero territorio regionale o nell’intero paese.
E così, viene alla luce, il mafioso imprenditore caratterizzato dai simboli dell’agiatezza, dal lusso pacchiano, dalle frequentazioni del mondo della finanza e della politica; a volte occupa posti di responsabilità nella società o, addirittura conquista i vertici delle istituzioni dai cui pulpiti divulga ingannevoli ed apparenti proclami di legalità.
Il mafioso moderno – ancor più se imprenditore mafioso – ama enormemente ostentare la propria ricchezza ed il proprio potere. Lo fa in diversi modi ma certamente quelli più utilizzati riguardano le proprie abitazioni, quelle in cui vive con le rispettive famiglie sempre numerose.
Nino Madonia, oggi pluricondannato all’ergastolo, figlio maggiore del boss di Cosa Nostra, Francesco Madonia, seguendo le orme del padre, alleato dei corleonesi, si conquistò il posto di boss di Resuttana (quartiere periferico di Palermo).
Quando gli fu applicata la misura di prevenzione patrimoniale con il sequestro di molteplici beni, fui nominato amministratore giudiziario. E in occasione dei sopralluoghi di due immobili – al fine di prenderne il possesso - che lo stesso condannato aveva abitato sotto falso nome nel corso della sua latitanza, rimasi stupito dagli arredi e dall’abbigliamento personale del Madonia contenuto in numerosi armadi super serviti.
Il primo dei due appartamenti si trova in via D’Amelio, proprio nel fabbricato che sta di fronte a quello in cui abitava la madre di Paolo Borsellino e dove lo stesso fu tragicamente trucidato insieme agli uomini della sua scorta. (E’ stato sconvolgente per me scoprire che il pericoloso criminale latitante Nino Madonia, si nascondeva in un appartamento a pochi passi da quello, giornalmente frequentato dall’eroico magistrato).
Quell’appartamento, apparentemente di proprietà altrui, era arredato riccamente ma con gusto assai discutibile. Qualunque cosa era di brutta estetica ma soprattutto quella casa era fornita di una molteplicità di beni (anche alimenti e liquori) che dimostravano il cosiddetto
Gli armadi erano ricolmi di lussuosi capi di abbigliamento in pelle, di pellicce, di camicie di seta, di scarpe (church, Prada) costosissime; insomma tutto rigorosamente firmato.
Quella casa e i suoi contenuti, mi è apparsa immediatamente kitsch ma non sapevo ancora cosa avrei dovuto vedere da lì a poco.
Andai a fare un altro sopralluogo, in un altro appartamento – anche quello abitato dal Madonia e da alcuni suoi familiari durante la sua latitanza – al nono piano di viale del fante; un appartamento con una vista Monte Pellegrino assolutamente impagabile; sennonché, gli interni apparivano davvero straordinariamente sproporzionati, disarmonici, addirittura sconvenienti. Pareti rigorosamente ricoperte da tessuti che riproducevano grossi uccelli o finte foreste; saune finlandesi realizzate in legno e azionate da costosissimi macchinari ad alta tecnologia, cucina prosperamente arredata e dotata di ogni confort, tale da potere essere utilizzata per luculliane abbuffate in favore di numerosi ospiti, bagni dalla rubinetteria vistosamente dorata e costellati da grandiosi specchi variamente smerigliati e disegnati.
Questa è l’ostentazione del latitante, quella di cui tutti sanno e nessuno deve sapere.
Nel sequestro in danno di Nicolò Eucaliptus, di cui fui nominato amministratore giudiziario, la mia impressione fu forte quando mi trovai al cospetto di una grande villa in territorio di Bagheria, utilizzata da tutti i familiari. Un immobile al quale si accede attraverso spiazzi esterni forniti di finti pozzi, tanto grossolano e di cattivo gusto quanto squallido. L’immobile constava di diversi livelli, comprensivi di tipica ed immancabile
La casa dell’ingegnere Pietro Di Vincenzo, a Roma in prossimità del Pantheon, costituisce, anche quella, ostentazione della ricchezza e del potere. Chiunque era a conoscenza di questa residenza romana del Di Vincenzo che lo stesso utilizzava nelle sue trasferte romane.
C’è un altro esempio tipico di ostentazione, ancora più sfacciato: L’anziano Francesco Casarubea, socio della sala da gioco “Las Vegas Bingo s.r.l.”, risiedeva nella sua barca di ben 24 metri con due motori entrobordo di 700 cavalli ciascuno, ormeggiata nel porticciolo dell’Arenella (la barca per la verità era di proprietà della società ma utilizzata per fini personali) ed ogni mattina amava sedersi sul ponte dello Yacht per farsi radere la barba dal barbiere del luogo marinaro alla presenza di tutti i passanti.
Ma questa è solo una diceria della gente locale (anche se supportata da fonte sicura); personalmente non ho mai avuto modo di costatare che quella vicenda fosse vera. Tuttavia, se lo fosse, non si può fare a meno di pensare che quella pratica, costituisca un tipico esempio di ostentazione dell’esercizio del potere mafioso.
La questione dell’ostentazione della propria ricchezza da parte del mafioso, non deve indurre a pensare che quest’ultima sia incongruente con l’affermazione dell’invisibilità della mafia. L’invisibilità riguarda il sistema mafioso mentre l’ostentazione della ricchezza costituisce una sorta di messaggio interno all’organizzazione.
Dopo questa breve divagazione su tipici esempi di ostentazione del potere e della ricchezza della mafia, ritorniamo a Pino Arlacchi, e alla sua identificazione dell’imprenditore mafioso. Egli sostiene, fra l’altro, che l’imprenditore tipico – non quello mafioso - è quello che deve indirizzare la propria attività all’innovazione.
Egli, per conseguire i propri fini, deve necessariamente innovare nella propria impresa anche rischiando il capitale investito. Il rischio d’impresa, nella normalità dei casi, è, infatti, proprio dell’imprenditore; esso si scompone in diversi fattori quali il rischio economico, il rischio finanziario ed il rischio patrimoniale; ma non può prescindersi dal rischio reputazionale consistente nella responsabilità dell’imprenditore di adottare scelte di gestione che non producano effetti negativi nella reputazione. Sostiene Arlacchi, che una delle innovazioni consiste proprio nel trasferire il cosiddetto “metodo mafioso” nell’impresa; in buona sostanza, l’abbandono del metodo legale e l’uso, in alternativa del metodo mafioso, danno luogo all’impresa mafiosa e quindi all’imprenditore mafioso.
Il metodo mafioso consiste nella monopolizzazione delle forniture di beni e servizi mediante l’attivazione di sistemi di scoraggiamento o intimidazione, nella grande disponibilità di finanze proveniente da attività illecite (droga, armi, commercio di organi umani, gioco d’azzardo), nell’evasione fiscale, nell’adozione di lavoro in nero. Tutte attività procurate con la contiguità – ma molto frequentemente con la collusione - di buona parte delle istituzioni (pubblica amministrazione, enti locali), degli istituti bancari, della politica. Purtroppo bisogna ammettere che, in alcuni casi, si registra la complicità – e soprattutto il tradimento – di uomini delle forze dell’ordine che hanno venduto il proprio giuramento di fedeltà alla giustizia, alla legalità e allo Stato, per un tozzo di pane o per un profondo cambiamento del proprio status symbol .
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