Paolo Borsellino e la cura dello Stato alla sua famiglia dopo via D’Amelio

Cultura | 9 febbraio 2023
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Pochi giorni dopo la strage di via D’Amelio, solerti funzionari dello Stato installarono a casa Borsellino un telefono. «È una linea diretta. Se alzate la cornetta, noi rispondiamo subito» raccomandarono alla vedova, la signora Agnese. Ma perché? Quale pericolo poteva minacciare una donna che aveva appena perso, in uno tra i più terrificanti attentati di Cosa nostra, il marito, il magistrato Paolo Borsellino, fatto a pezzi insieme con cinque agenti della scorta? Nel ricordo dei figli del magistrato, l’arrivo del telefono per le emergenze segnò l’esordio di una insistita strategia di protezione, molto simile a un assedio, fatto di avvisi obliqui, inviti al silenzio e alla cautela, visite di magistrati e investigatori pronti a raccogliere, in nome del riserbo, tra le pareti domestiche, testimonianze che non sarebbero mai state riversate in un verbale.

A trent’anni dalla strage, il racconto di quell’assedio è il nucleo più inquietante del libro che Piero Melati, giornalista e scrittore di cose di mafia, ha dedicato a Paolo Borsellino, con l’intenzione di restituirne un ritratto intimo, con «le parole di Lucia, Manfredi e Fiammetta», i tre figli del magistrato. Attingendo a testimonianze di prima mano e ai propri ricordi personali, Melati, che fu cronista giudiziario a «L’Ora», poi giornalista a «la Repubblica» e al «Venerdì», traccia il profilo di un uomo innamorato della vita, teneramente legato alla propria famiglia, devoto a un ideale altissimo di giustizia, al punto da accettare di perdere la vita per servirlo.

Si leggono con emozione le pagine in cui Manfredi Borsellino rievoca l’ironia del padre, il suo scherzare sulla propria possibile morte per mano di mafia, «per stemperare la tensione». E con dolore si legge come, dopo la strage di Capaci, l’attentato che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta, Borsellino divenne sempre più consapevole che anche il suo tempo stava per scadere.

Melati ricorda un episodio di quella tremenda estate del 1992: Borsellino rientra a Palermo da Roma e ha una crisi di vomito davanti alla moglie. «Aveva visto “la mafia in diretta” dentro i palazzi delle istituzioni», scrive Melati. Per i figli, i gesti compiuti dal padre nei 57 giorni tra la strage di Capaci e l’attentato di via D’Amelio si caricano di presagi. Spesso struggenti, come l’insolito doppio saluto che Borsellino rivolse al figlio dopo avergli chiesto di accompagnarlo fino alla macchina, lungo «i settanta metri» del vialetto di un villino sul mare. Mezz’ora dopo il magistrato saltò in aria.

Non c’è ancora una piena verità giudiziaria su quell’attentato né sul depistaggio - «tra i più gravi della storia giudiziaria italiana», secondo la stessa magistratura – che segnò le prime indagini, con l’ingresso in scena di un pentito manovrato, Vincenzo Scarantino, «il pupo». E tanto più appare oscuro il «cordone sanitario» che intorno alla famiglia si strinse, con l’intenzione di convincerla al silenzio, mentre in parallelo si costruiva la trama di quel depistaggio che ha intorbidato per anni i processi sulla strage (14 finora, i primi conclusi con la condanna di imputati innocenti, successivamente scagionati).

Melati non si avventura sul sentiero scivoloso delle rivelazioni o delle ipotesi. Segnala, però, come sia strano che le indagini abbiano rinunciato a scavare nella direzione del rapporto mafia-appalti che fu l’ultimo rovello di Paolo Borsellino, nelle settimane in cui con angosciosa passione provava a mettere a nudo la verità sull’assassinio di Falcone, il suo amico più caro. Al cuore delle riflessioni del magistrato, c’era il tentativo della Cosa nostra di Salvatore Riina di farsi largo nei salotti buoni dell’economia e della finanza, sfruttando le enormi ricchezze accumulate con il traffico della droga. Intuizioni accantonate. Ci sono ancora molti angoli bui in questa storia. Questo libro ne rischiara alcuni: mette in luce come la protezione intrusiva dei primi anni si mutò in isolamento, in ostilità quando la vedova e i figli decisero di riprendere la parola e di chiedere giustizia. Due soli esempi: il test del Dna eseguito su Lucia, la figlia maggiore, con l’offensivo sospetto che avesse manipolato la borsa del padre, quella borsa dalla quale scomparve l’agenda rossa sulla quale il magistrato annotava le sue intuizioni investigative. E la resistenza accanita, gli ostacoli, gli inciampi che Fiammetta, la figlia minore, dovette superare quando decise di incontrare in carcere i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, condannati all’ergastolo per la strage, per «capire cosa c’è dentro e dietro queste persone».

Il 19 luglio scorso la famiglia del magistrato ha disertato le cerimonie per il trentennale. Chi vuole conoscere le ragioni di quel gesto, troverà in queste pagine ampio materiale per capire.(Il Sole 24 Ore)

 di Bianca Stancanelli

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