Navalny, vita e morte dell'oppositore di un tiranno
L'analisi | 17 febbraio 2024
La “putinite”, la sindrome mortale che uccide gli oppositori di Vladimir Putin, colpisce ancora. E al più alto livello. È morto Alexei Navalny, avvocato, dissidente, blogger, il principale oppositore del bellicoso tiranno di Mosca. Di cosa? Di malattia, di stenti, di veleno, non sappiamo ancora precisamente di cosa. Uno dei canali televisivi della tv di stato russa ha parlato sulle prime di “coagulo sanguigno” ossia trombosi. Ma le notizie rimangono frammentarie, contraddittorie, ancora inattendibili stando a più attente ricostruzioni. E probabilmente questa cappa di inattendibilità non sarà mai squarciata del tutto.
Al mese di novembre del 2006 risale l’avvelenamento senza scampo con una sostanza radioattiva, il polonio, di Alexander Livtinenko, agente dei servizi segreti russi del FSB, fuggito nel 2000 a Londra dopo avere accusato i suoi superiori di avere ordinato l’assassinio dell’oligarca Boris Berezovsky. Un mese prima, il 7 ottobre 2006, era stata assassinata a Mosca la giornalista d’inchiesta Anna Politkovskaja e Livtinenko aveva puntato il dito su Putin per quell’omicidio. Il 23 agosto 2023 il ribelle capo dei mercenari del “Gruppo Wagner” Evgenij Prigozin è stato “suicidato” assieme ad alcuni suoi ufficiali con un incidente aereo provocato. Sono solo alcune tra le vittime più note dello sbrigativo “sistema Putin” per liberarsi di chi gli si ribella, di chi lo infastidisce, di chi gli si oppone.
Ora è arrivata l’ora di Navalny. E se per l’irruento Prigozin (miliardario danaroso, non meno sanguinario del suo dante causa) nessuno ha versato lacrime tranne - forse – i familiari, per la tragedia umana e politica dell’attivista Alexei Navalny è diverso. In tutti noi che abbiamo la fortuna di vivere in nazioni con mille contrasti e mille insufficienze ma libere è scattata l’indignazione, la pietà, lo sconcerto per la sorte riservata all’oppositore. Fatto avvelenare con il gas nervino “Novichok” nell’agosto del 2020 da Putin tramite sicari o i servizi segreti, salvato – praticamente preso per i capelli – in un ospedale tedesco, coraggiosamente tornato in Russia per continuare a essere una spina nel fianco per il dittatore moscovita. Con un’unica arma a sua disposizione – potersi fare sentire tramite i social – e con la consapevolezza di finire incarcerato. E in carcere, a sommare processi su processi e condanne su condanne nel complesso per una trentina di anni, ovviamente c’è finito. Dopo un primo periodo di carcerazione non troppo lontana da Mosca la nuova destinazione lo scorso dicembre è stata un gulag ancora peggiore dei gulag siberiani tanto cari ad un altro tiranno sanguinario di nome Stalin. Per il quale lo zar Vladimir non nasconde le sue simpatie. Un gulag-campo di concentramento – la colonia penale n. 3 “Lupo polare” nell’Artico russo – sepolto perennemente dalla neve e dal ghiaccio, posto una sessantina di chilometri oltre il Circolo polare artico. Dove un internato può e deve solo morire. Il dissidente Navalny era reduce da 300 giorni di cella d’isolamento, da chissà quale trattamento quanto a vitto e alloggio, da chissà quali condizioni di freddo e gelo nella sua cella. Se non ti avvelenano i secondini con i più sofisticati e irrintracciabili veleni muori comunque di patimenti che minano anche il più temprato fisico di lottatore.
Ecco come per la stampa sono state ricostruite dalla asservita informazione russa le drammatiche fasi del decesso: “L'oppositore russo Alexei Navalny, 47 anni, è morto nella colonia penale n. 3 dell'Okrug autonomo di Yamalo-Nenets. Lo ha riferito il dipartimento regionale del servizio penitenziario federale: "Il 16 febbraio di quest'anno, nella colonia correzionale n. 3, il detenuto Navalny A.A. si è sentito male dopo una passeggiata, perdendo quasi immediatamente conoscenza. Gli operatori sanitari dell'istituto sono immediatamente arrivati ed è stata chiamata una squadra medica di emergenza", si legge nel comunicato. "Sono state eseguite tutte le misure di rianimazione necessarie, ma non hanno dato risultati positivi. I medici del pronto soccorso hanno confermato la morte del condannato. Si stanno accertando le cause della morte", aggiunge il comunicato rilanciato dalle agenzie russe. (…) “Non voglio sentire alcuna condoglianza. Lo abbiamo visto in carcere il 12, in una riunione. Era vivo, sano e felice”, ha scritto sui social la madre Lyudmila Navalnaya, mentre la moglie Julija Borisovna ha parlato dal podio della Conferenza della sicurezza di Monaco dicendo, fra l'altro, che il presidente russo e altri responsabili russi devono sapere che "saranno puniti" per quello che hanno fatto.
Il direttore della Fondazione anticorruzione (di Navalny, ndr), Ivan Zhdanov, ha affermato: "Ora la situazione è tale che capiamo che, molto probabilmente, quello che è successo è che Alexei Navalny è stato ucciso con un grado di probabilità molto alto. Non vi diremo una bugia, che c'è qualche speranza che domani accada qualcosa, che tutto questo non è vero. Tale possibilità è trascurabile. Ora tutto sta andando verso il fatto che un omicidio è realmente accaduto: l'omicidio di Alexei Navalny in prigione. Ed è stato Putin a ucciderlo".
“Il carcere ha deciso di battere il record per compiacere Vladimir e le autorità di Mosca: mi hanno appena dato 15 giorni in una cella di punizione ed è la quarta volta in due mesi”. È questo l'ultimo messaggio di Alexei Navalny datato 14 febbraio alle 15.00.” (Rai News 24 “Navalny è morto in prigione. Biden: “Putin è responsabile”.”, 16 febbraio 2024)
Su queste pagine scriviamo da anni che Putin è l’Hitler del XXI secolo e su queste pagine abbiamo già usato in passato la parola “putinite”, neologismo che ci siamo inventati con amara ironia. Valido sia come concetto che come singolo termine.
Ora che il dramma politico e umano di Navalny è giunto al capolinea con l’ennesimo, eclatante caso di “putinite” non nascondiamo lo sdegno, la rabbia per questo esito. L’attivista Navalny non ha commesso né ispirato alcun omicidio. Ha solo aiutato a svelare la corruzione di Putin e della sua cerchia di fedelissimi. Quanto basta in un paese come la Russia odierna per passare a miglior vita. È un personaggio ancora più drammatico dei personaggi delle immortali tragedie greche. E dalle sofferenze del suo gulag nell’Artico è ora asceso all’Olimpo dei martiri della libertà d’ogni tempo. Affollato. Ben più di quanto possiamo immaginare. Quello dove sono finiti Spartaco e lo scozzese William Wallace (Braveheart), Giacomo Matteotti e Anna Frank, i fratelli Rosselli e i fratelli Cervi, Gandhi e Mandela. E mille e mille altre vittime di tiranni. Nei modi più diversi questi martiri – li definiamo così non a causa della loro fede religiosa ma per la loro fede civile - hanno combattuto per l’affermazione della libertà e della giustizia. E molto spesso, quasi sempre, hanno perso la vita battendosi per la libertà.
Intendiamoci: forse Navalny non è neppure un democratico nel significato “occidentale” del termine che intendiamo noi. È un nazionalista nemico e oppositore di Putin. Ma è morto lottando con grande coraggio contro chi ha seppellito il dissenso nello sterminato paese che governa. Del resto i russi conoscono poco la libertà e la democrazia. L’hanno conquistata a carissimo prezzo per brevi spazi di anni. Appena il tempo necessario perché l’Unto del Signore di turno consolidi il suo potere personale. Poi sopravviene una forma di governo che dura finché l’autocrate in sella – con alle spalle l’aquila a due teste emblema del potere zarista, e ora di Putin, o con la falce e martello del simbolo comunista – non va al creatore per morte naturale o viene rimosso o viene fatto fuori da qualche sommovimento rivoluzionario. Si chiama autocrazia ed è la tendenza a consolidare la propria leadership personale fino al culto della personalità. Inattaccabile. Incontestabile. Può derivare da sedicente diritto divino come invocato dalle teste coronate. Può derivare persino da regolari elezioni. Sorge nel momento in cui, finito il primo o al massimo il secondo mandato, non ti fai da parte ma ti arroghi il diritto di continuare ad essere il capo dei capi per anni e poi per decenni. A qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo. Succede nei paesi arabi dove molto spesso troviamo un presidente, un “rais”, al potere per tempi lunghissimi. È successo nel “millenario” (così veniva definito e auspicato) Terzo Reich nazista in Germania. Come nella mussoliniana “era fascista” con tanto di calendario con numeri romani da affiancare al normale calendario gregoriano. Così si opprimono i popoli, così si spengono le opposizioni, così si eliminano gli oppositori. Così, da secoli ormai, vanno le cose in Russia, paese sofferente che esporta sofferenza, paese sventurato che esporta sventura.
La popolazione del più vasto stato del mondo avrebbe potuto godere di ben altre sorti quanto a benessere se non si fossero massicciamente privilegiati negli investimenti dello stato l’industria bellica e l’apparato militare. A scapito di produzioni ben più pacifiche e a scapito di welfare per tutti e non per il bengodi di una ristretta élite di oligarchi miliardari. Ovviamente tutti sodali e a sostegno del tiranno Putin alla luce del patto sintetizzabile nella formula “voi continuate ad arricchirvi senza troppe interferenze nostre nei vostri affari ma non intralciate la mia politica e il mio potere”.
In Russia, dove non esiste né opposizione né dissenso, probabilmente Navalny è un cognome semisconosciuto a milioni di cittadini. Ora che è stato silenziato ci si chiede in Occidente se a Putin creerà più fastidio da morto che da vivo. Difficile azzardare pronostici. "Non vi è permesso arrendervi, se decidono di uccidermi vuol dire che siamo incredibilmente forti" dichiarava l'oppositore russo rivolto ai suoi non numerosi seguaci nel documentario di Daniel Rohr, premio Oscar nel 2022, in cui denunciava il regime di Putin. Appunto. Potremmo tentare una risposta di questo tipo: c’è solo da sperare che il suo triste destino contribuisca a svegliare le coscienze sopite e impaurite dei suoi connazionali. Perché si rendano conto del valore di due beni inestimabili: la democrazia vera e la libertà vera.
Almeno questo martirio serva a svegliare dal sonno della ragione decine di milioni di russi che nelle periodiche elezioni-farsa votano plebiscitariamente Putin. Quel Putin che li ha mandati a morire come carne da cannone a centinaia di migliaia nelle trincee e nel fango delle campagne dell’Ucraina. Per invadere quello stato sovrano. Che anacronistica fregatura! Architettata in nome della “Grande Russia”, dell’”imperialismo russo”, della “sicurezza nazionale” russa e di altre fissazioni del genere. Qualcuna secolare, qualche altra recente. Fatta tornare in auge da chi con cinismo e brutalità senza eguali ha trasformato l’arte del governo, o più in generale della politica, in una agghiacciante serie di telefilm-realtà in cui i protagonisti sono i serial killer.
di Pino Scorciapino
Al mese di novembre del 2006 risale l’avvelenamento senza scampo con una sostanza radioattiva, il polonio, di Alexander Livtinenko, agente dei servizi segreti russi del FSB, fuggito nel 2000 a Londra dopo avere accusato i suoi superiori di avere ordinato l’assassinio dell’oligarca Boris Berezovsky. Un mese prima, il 7 ottobre 2006, era stata assassinata a Mosca la giornalista d’inchiesta Anna Politkovskaja e Livtinenko aveva puntato il dito su Putin per quell’omicidio. Il 23 agosto 2023 il ribelle capo dei mercenari del “Gruppo Wagner” Evgenij Prigozin è stato “suicidato” assieme ad alcuni suoi ufficiali con un incidente aereo provocato. Sono solo alcune tra le vittime più note dello sbrigativo “sistema Putin” per liberarsi di chi gli si ribella, di chi lo infastidisce, di chi gli si oppone.
Ora è arrivata l’ora di Navalny. E se per l’irruento Prigozin (miliardario danaroso, non meno sanguinario del suo dante causa) nessuno ha versato lacrime tranne - forse – i familiari, per la tragedia umana e politica dell’attivista Alexei Navalny è diverso. In tutti noi che abbiamo la fortuna di vivere in nazioni con mille contrasti e mille insufficienze ma libere è scattata l’indignazione, la pietà, lo sconcerto per la sorte riservata all’oppositore. Fatto avvelenare con il gas nervino “Novichok” nell’agosto del 2020 da Putin tramite sicari o i servizi segreti, salvato – praticamente preso per i capelli – in un ospedale tedesco, coraggiosamente tornato in Russia per continuare a essere una spina nel fianco per il dittatore moscovita. Con un’unica arma a sua disposizione – potersi fare sentire tramite i social – e con la consapevolezza di finire incarcerato. E in carcere, a sommare processi su processi e condanne su condanne nel complesso per una trentina di anni, ovviamente c’è finito. Dopo un primo periodo di carcerazione non troppo lontana da Mosca la nuova destinazione lo scorso dicembre è stata un gulag ancora peggiore dei gulag siberiani tanto cari ad un altro tiranno sanguinario di nome Stalin. Per il quale lo zar Vladimir non nasconde le sue simpatie. Un gulag-campo di concentramento – la colonia penale n. 3 “Lupo polare” nell’Artico russo – sepolto perennemente dalla neve e dal ghiaccio, posto una sessantina di chilometri oltre il Circolo polare artico. Dove un internato può e deve solo morire. Il dissidente Navalny era reduce da 300 giorni di cella d’isolamento, da chissà quale trattamento quanto a vitto e alloggio, da chissà quali condizioni di freddo e gelo nella sua cella. Se non ti avvelenano i secondini con i più sofisticati e irrintracciabili veleni muori comunque di patimenti che minano anche il più temprato fisico di lottatore.
Ecco come per la stampa sono state ricostruite dalla asservita informazione russa le drammatiche fasi del decesso: “L'oppositore russo Alexei Navalny, 47 anni, è morto nella colonia penale n. 3 dell'Okrug autonomo di Yamalo-Nenets. Lo ha riferito il dipartimento regionale del servizio penitenziario federale: "Il 16 febbraio di quest'anno, nella colonia correzionale n. 3, il detenuto Navalny A.A. si è sentito male dopo una passeggiata, perdendo quasi immediatamente conoscenza. Gli operatori sanitari dell'istituto sono immediatamente arrivati ed è stata chiamata una squadra medica di emergenza", si legge nel comunicato. "Sono state eseguite tutte le misure di rianimazione necessarie, ma non hanno dato risultati positivi. I medici del pronto soccorso hanno confermato la morte del condannato. Si stanno accertando le cause della morte", aggiunge il comunicato rilanciato dalle agenzie russe. (…) “Non voglio sentire alcuna condoglianza. Lo abbiamo visto in carcere il 12, in una riunione. Era vivo, sano e felice”, ha scritto sui social la madre Lyudmila Navalnaya, mentre la moglie Julija Borisovna ha parlato dal podio della Conferenza della sicurezza di Monaco dicendo, fra l'altro, che il presidente russo e altri responsabili russi devono sapere che "saranno puniti" per quello che hanno fatto.
Il direttore della Fondazione anticorruzione (di Navalny, ndr), Ivan Zhdanov, ha affermato: "Ora la situazione è tale che capiamo che, molto probabilmente, quello che è successo è che Alexei Navalny è stato ucciso con un grado di probabilità molto alto. Non vi diremo una bugia, che c'è qualche speranza che domani accada qualcosa, che tutto questo non è vero. Tale possibilità è trascurabile. Ora tutto sta andando verso il fatto che un omicidio è realmente accaduto: l'omicidio di Alexei Navalny in prigione. Ed è stato Putin a ucciderlo".
“Il carcere ha deciso di battere il record per compiacere Vladimir e le autorità di Mosca: mi hanno appena dato 15 giorni in una cella di punizione ed è la quarta volta in due mesi”. È questo l'ultimo messaggio di Alexei Navalny datato 14 febbraio alle 15.00.” (Rai News 24 “Navalny è morto in prigione. Biden: “Putin è responsabile”.”, 16 febbraio 2024)
Su queste pagine scriviamo da anni che Putin è l’Hitler del XXI secolo e su queste pagine abbiamo già usato in passato la parola “putinite”, neologismo che ci siamo inventati con amara ironia. Valido sia come concetto che come singolo termine.
Ora che il dramma politico e umano di Navalny è giunto al capolinea con l’ennesimo, eclatante caso di “putinite” non nascondiamo lo sdegno, la rabbia per questo esito. L’attivista Navalny non ha commesso né ispirato alcun omicidio. Ha solo aiutato a svelare la corruzione di Putin e della sua cerchia di fedelissimi. Quanto basta in un paese come la Russia odierna per passare a miglior vita. È un personaggio ancora più drammatico dei personaggi delle immortali tragedie greche. E dalle sofferenze del suo gulag nell’Artico è ora asceso all’Olimpo dei martiri della libertà d’ogni tempo. Affollato. Ben più di quanto possiamo immaginare. Quello dove sono finiti Spartaco e lo scozzese William Wallace (Braveheart), Giacomo Matteotti e Anna Frank, i fratelli Rosselli e i fratelli Cervi, Gandhi e Mandela. E mille e mille altre vittime di tiranni. Nei modi più diversi questi martiri – li definiamo così non a causa della loro fede religiosa ma per la loro fede civile - hanno combattuto per l’affermazione della libertà e della giustizia. E molto spesso, quasi sempre, hanno perso la vita battendosi per la libertà.
Intendiamoci: forse Navalny non è neppure un democratico nel significato “occidentale” del termine che intendiamo noi. È un nazionalista nemico e oppositore di Putin. Ma è morto lottando con grande coraggio contro chi ha seppellito il dissenso nello sterminato paese che governa. Del resto i russi conoscono poco la libertà e la democrazia. L’hanno conquistata a carissimo prezzo per brevi spazi di anni. Appena il tempo necessario perché l’Unto del Signore di turno consolidi il suo potere personale. Poi sopravviene una forma di governo che dura finché l’autocrate in sella – con alle spalle l’aquila a due teste emblema del potere zarista, e ora di Putin, o con la falce e martello del simbolo comunista – non va al creatore per morte naturale o viene rimosso o viene fatto fuori da qualche sommovimento rivoluzionario. Si chiama autocrazia ed è la tendenza a consolidare la propria leadership personale fino al culto della personalità. Inattaccabile. Incontestabile. Può derivare da sedicente diritto divino come invocato dalle teste coronate. Può derivare persino da regolari elezioni. Sorge nel momento in cui, finito il primo o al massimo il secondo mandato, non ti fai da parte ma ti arroghi il diritto di continuare ad essere il capo dei capi per anni e poi per decenni. A qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo. Succede nei paesi arabi dove molto spesso troviamo un presidente, un “rais”, al potere per tempi lunghissimi. È successo nel “millenario” (così veniva definito e auspicato) Terzo Reich nazista in Germania. Come nella mussoliniana “era fascista” con tanto di calendario con numeri romani da affiancare al normale calendario gregoriano. Così si opprimono i popoli, così si spengono le opposizioni, così si eliminano gli oppositori. Così, da secoli ormai, vanno le cose in Russia, paese sofferente che esporta sofferenza, paese sventurato che esporta sventura.
La popolazione del più vasto stato del mondo avrebbe potuto godere di ben altre sorti quanto a benessere se non si fossero massicciamente privilegiati negli investimenti dello stato l’industria bellica e l’apparato militare. A scapito di produzioni ben più pacifiche e a scapito di welfare per tutti e non per il bengodi di una ristretta élite di oligarchi miliardari. Ovviamente tutti sodali e a sostegno del tiranno Putin alla luce del patto sintetizzabile nella formula “voi continuate ad arricchirvi senza troppe interferenze nostre nei vostri affari ma non intralciate la mia politica e il mio potere”.
In Russia, dove non esiste né opposizione né dissenso, probabilmente Navalny è un cognome semisconosciuto a milioni di cittadini. Ora che è stato silenziato ci si chiede in Occidente se a Putin creerà più fastidio da morto che da vivo. Difficile azzardare pronostici. "Non vi è permesso arrendervi, se decidono di uccidermi vuol dire che siamo incredibilmente forti" dichiarava l'oppositore russo rivolto ai suoi non numerosi seguaci nel documentario di Daniel Rohr, premio Oscar nel 2022, in cui denunciava il regime di Putin. Appunto. Potremmo tentare una risposta di questo tipo: c’è solo da sperare che il suo triste destino contribuisca a svegliare le coscienze sopite e impaurite dei suoi connazionali. Perché si rendano conto del valore di due beni inestimabili: la democrazia vera e la libertà vera.
Almeno questo martirio serva a svegliare dal sonno della ragione decine di milioni di russi che nelle periodiche elezioni-farsa votano plebiscitariamente Putin. Quel Putin che li ha mandati a morire come carne da cannone a centinaia di migliaia nelle trincee e nel fango delle campagne dell’Ucraina. Per invadere quello stato sovrano. Che anacronistica fregatura! Architettata in nome della “Grande Russia”, dell’”imperialismo russo”, della “sicurezza nazionale” russa e di altre fissazioni del genere. Qualcuna secolare, qualche altra recente. Fatta tornare in auge da chi con cinismo e brutalità senza eguali ha trasformato l’arte del governo, o più in generale della politica, in una agghiacciante serie di telefilm-realtà in cui i protagonisti sono i serial killer.
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