Le ricadute del sistema mafia sull’economia legale

Cultura | 18 settembre 2023
Condividi su WhatsApp Twitter

(Prima parte. Dal libro – Mafia Egemone – Editrice Albatros)


Sono molteplici ed inimmaginabili le ricadute di carattere economico del sistema mafia, sulla comunità, derivanti dalle specifiche dinamiche economiche dell’organizzazione mafiosa. Fino a qualche anno fa, l’azienda mafia, avvalendosi del metodo intimidatorio e del ricorso all’illegalità, era un’azienda che cresceva continuamente e registrava centinaia di miliardi di utile senza conoscere alcuna crisi e avvantaggiandosi della “esenzione” fiscale. L’azienda mafia diventa la grande protagonista dell’economia italiana potenzialmente capace di coprire, con il proprio “fatturato”, parecchie manovre finanziarie dei governi che si sono succeduti nel tempo. Soldi sporchi, macchiati di sangue, frutto di violenza e di soprusi. Un’economia sporca in continua crescita mentre l’economia sana langue in danno della rete di piccole imprese commerciali o artigiane che non riescono a sostenere il peso dell’indebitamento e non riescono neanche ad ottenere linee di credito e finanziamenti dalle banche. Nel gennaio del 2012 il presidente di Confesercenti, Marco Venturi (grande accusatore di Antonello Montante), dichiarava che “una parte del Paese è controllata dalla criminalità organizzata e la crisi, la mancanza di fondi, rendono ancora più drammatico il problema. Lo Stato si è impegnato, ma serve un cambio di passo delle istituzioni: niente sponde politiche, niente appalti, assunzioni, investimenti all’ombra della criminalità”. Com’è ormai consuetudine, non sembra che da allora siano seguiti interventi dello Stato per mettere fine alla supremazia economica della mafia che ha continuato a crescere e ad arricchirsi. L’obiettivo dell’impresa mafia non è tanto quello di ottenere il benessere dei propri associati quanto quello dell’arricchimento tout court. Uno studio particolareggiato di Marco Arnone - giovane e valentissimo economista prematuramente scomparso – sostiene che la vera lotta alla criminalità organizzata può realizzarsi in termini positivi, solamente mediante l’applicazione di strumenti idonei a colpire i patrimoni mafiosi e quindi gli immobili, i beni mobili, i valori mobiliari, le disponibilità liquide, i beni-azienda. Partiamo da un concetto che non può sfuggire e che è naturalmente prioritario rispetto a qualsiasi altro. Oggi parliamo di mafia economica e finanziaria. Dobbiamo tralasciare ogni argomentazione sulla mafia militare perché la mafia oggi assume le forme dello Stato e s’infiltra nello Stato stesso: nella pubblica amministrazione, nella società civile, nell’associazionismo, perfino nella chiesa e perfino nell’antimafia. I figli dei mafiosi si sono addottrinati, hanno frequentato le scuole di classe, noti istituti privati; sono divenuti avvocati, medici, ingegneri, manager. Perciò sono riusciti ad infiltrarsi nella società civile, ne fanno parte a pieno titolo, frequentano i salotti cittadini, i circoli, i club, i ristoranti alla moda. E fanno di tutto – riuscendovi quasi sempre – per insinuarsi nel mondo economico ed imprenditoriale anche facendo uso del potere intimidatorio imparato ed ereditato dai propri padri. Così il gioco è fatto! Sia pure con altri sistemi, apparentemente più leciti, riescono a controllare il territorio non più dall’esterno bensì standovi dentro, mischiandosi al resto della collettività, molto spesso con la piena e silente consapevolezza di quest’ultima. Questo è il vero momento della trasformazione: il sistema mafioso si orienta verso il mondo economico e finanziario. Ecco perché la vera lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso non potrà che essere indirizzata all’aggressione dei patrimoni, quelli che stanno a cuore al mafioso perché costituiscono la costruzione di un potere parallelo concorrente con il potere dello Stato. Come già detto, è ormai opinione comune – ne hanno discusso ampiamente giuristi, sociologi ed altri esperti della materia - che il mafioso è già assuefatto alla vita carceraria tanto da tollerarla mentre mal tollera essere privato dei propri beni, frutto della propria attività malavitosa e criminale ma pur sempre simbolo del potere acquisito. Ecco perché, con riferimento alle analisi economiche, lo Stato dovrebbe riservare maggiori risorse umane e finanziarie all’informazione sull’economia mafiosa tanto da evitare che uno Stato invisibile si accosti ad un sistema mafioso ben visibile ma poco osservato dall’opinione pubblica. La responsabilità di tale indolenza non può essere attribuita – come spesso avviene – ad eventuale inoperosità della magistratura o delle forze dell’ordine che invece sono quotidianamente impegnate per combattere il fenomeno con molteplici difficoltà. Si provi a pensare alla carenza dell’organico nella magistratura requirente e giudicante, alla carenza del personale di segreteria e di cancelleria, alla carenza di strumenti di indagine. Il pianeta giustizia, non può certamente funzionare in condizioni di precarietà; esso dovrebbe avere tutta l’attenzione del mondo politico. Ma l’attuale situazione mostra con evidenza quanto poca sia la volontà del legislatore e dell’esecutivo, di dare una svolta decisiva a questa immane lotta.

(seconda parte)

Le vicende di mafia sono sempre soggette a cicli autonomi nel senso che ad ogni eccidio, ad ogni strage, corrisponde immancabilmente un intervento repressivo dello Stato. La prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e la prima legge antimafia, nascono dopo la strage dei Ciaculli; la seconda legge antimafia nasce, per volere di Pio La Torre, dopo l’omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa; dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, nascono nuove leggi antimafia che integrano le norme già esistenti. Insomma, è più che evidente che il legislatore e l’esecutivo, si siano mossi sempre in occasione di stragi, attentati, uccisioni di magistrati e di uomini delle forze dell’ordine. Questa è la prova evidente che la politica non è voluta intervenire quando avrebbe potuto farlo in tutta calma, portando in discussione parlamentare una vera riforma che fosse di valido ausilio per gli addetti ai lavori. E invece ha preferito partorire un cosiddetto codice antimafia, nel 2011 (e poi integrato e modificato più volte) dal cui esame traspaiono in tutta evidenza i forti limiti ereditati dalle precedenti norme approvate frettolosamente e, a volte, anche demagogicamente, per simboleggiare uno Stato intraprendente e impeccabile.

Con la riforma del codice antimafia – come già prima osservato – il legislatore è riuscito a colmare parzialmente alcune gravi lacune della normativa vigente. Tuttavia non si può affermare che l’attuale versione di tale codice soddisfi le esigenze della magistratura per tenere vivo il contrasto alla criminalità organizzata.

Ma perché la mafia attacca con azioni clamorose e violente proprio nei momenti in cui si registra calma piatta? È ovvio che tali azioni corrispondano a precise reazioni d’insoddisfazione nei confronti del potere politico che probabilmente non ha rispettato patti e condizioni. E questo potrebbe dipendere anche da un calo di consenso nell’opinione pubblica e nelle difficoltà riscontrate da politici ed amministratori corrotti, collusi o complici, nel fare approvare provvedimenti e leggi che possano contenere la pressione sulle organizzazioni criminali.

C’è un’altra questione che non può sottovalutarsi e che s’inserisce a viva forza nell’argomentazione economica del . E’ la questione che riguarda quanto accadeva durante la prima Repubblica, quando le imprese di mafia operavano all’interno della cosiddetta meridionale, cioè un’economia alterata dalla spesa pubblica in cui scorrevano fiumi di denaro che alimentavano il flusso della spesa per gli appalti pubblici; e gli imprenditori (pseudo imprenditori) che vivevano di spesa pubblica manipolavano gli appalti e si impadronivano di finanziamenti destinati a fini personali, ad ingrassare le casse della mafia.

E così l’economia girava: girava intorno al ciclo edilizio e intorno al suo indotto. Adesso questo mondo è finito perché la spesa pubblica soffre ed è ridotta ai minimi termini; la spesa per gli appalti si è ridotta del 60, 70 %, quindi oltre all’azione della magistratura, è la crisi economica che sta manifestando ancora oggi i suoi effetti e che quindi costituisce un grave impedimento per la mafia.

A tal proposito, mi piace inserire l’autorevole voce di Roberto Scarpinato, con riguardo all’atteggiamento che la mafia ha nei confronti dei giudici della prevenzione: prima il mafioso soffriva per il danno subito quando si vedeva sequestrare la casa; ma tutto ciò avveniva all’interno di una economia che girava; ; nella fase attuale, invece, in cui l’economia non gira più, al mafioso che vive come tutti i cittadini la recessione, quando gli sequestrano un bene, glielo sequestrano per sempre; da qui la crescita di uno stato di insofferenza nei confronti dei Giudici della prevenzione e degli amministratori giudiziari di cui la storia ci offre molteplici inquietanti riscontri.

Scarpinato in diverse occasioni ha offerto un ampio panorama di episodi di intimidazione e danneggiamenti nei confronti di amministratori giudiziari a Palermo; episodi di violenza, automobili distrutte a colpi di mazza, teste di maiali poste dietro la porta di casa ed altri episodi di questo genere anche nei confronti dei giudici della prevenzione; non possiamo dimenticare l’uccisione di Gianluca Grimaldi, coadiutore giudiziario, avvenuta peraltro in un periodo molto difficile.(1)

All’interno del mondo mafioso cresce non solo l’insofferenza nei confronti della magistratura ma anche nei confronti degli amministratori giudiziari; anzi proprio nei confronti di questi ultimi l’insofferenza del mafioso si abbatte dapprima, perché è con loro che ha un diretto rapporto.

E non è solo questo; il mafioso cui è stato sequestrato un bene, manifesta la propria insofferenza, fino a tradurla molto spesso in veri e propri atti di spietata violenza, anche, nei confronti degli stessi vertici di - proprio di quei vertici che sono considerati in fondo tolleranti verso la magistratura – tanto da auspicare il ritorno di uomini forti che sappiano battere il pugno sul tavolo.

Non ricordo in quale occasione ma ricordo perfettamente che Roberto Scarpinato, durante un suo intervento, ha citato testualmente la frase di un mafioso intercettato che diceva: .

La mafia si aspetta un ritorno alle maniere forti perché non ci sono più i soldi per mantenere le famiglie dei carcerati e per mantenere l’organizzazione stessa.

Quindi la stessa insofferenza che c’è nella società civile per effetto della crisi finanziaria e della recessione, comincia a nascere all’interno della società illegale; c’è una crisi di leadership, nel mondo civile come nella società illegale; c’è una chiamata alle armi, e in questo contesto ci sono soggetti poco disposti che soffiano sul fuoco; gli imprenditori mafiosi e collusi naturalmente istigano non soltanto il popolo mafioso ma anche i lavoratori che a causa della crisi perdono il lavoro e vengono spesso licenziati dalle aziende sequestrate; e fanno credere loro che i responsabili della crisi siano i magistrati che hanno sequestrato e confiscato le imprese e che mentre loro facevano girare l’economia, la magistratura, invece, la condannava.

D’altronde le vicende mafiose sembrano avere un ciclo autonomo: azione mafiosa clamorosa, repressione, ristabilimento degli equilibri. Abbiamo già detto che a seguito della strage dei Ciaculli, negli anni ’60, è nata la prima legge antimafia e la prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia; negli anni ’70 e ’80, si ricordano a Palermo numerosi omicidi: Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Peppino Impastato, Piersanti Mattarella, fino a Carlo Alberto dalla Chiesa a seguito dei quali è nata la seconda legge antimafia (la più importante !) per opera di Pio La Torre; dalle stragi che hanno visto vittime Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sono nate nuove leggi antimafia. Insomma è pur vero che i maggiori successi della magistratura e delle forze dell’ordine nell’azione repressiva della criminalità organizzata, si censiscono sempre sull’introduzione di nuovi strumenti legislativi emanati dal Parlamento e messe a disposizione delle forze inquirenti. E questo conferma quanto sia importante l’intervento del legislatore che dovrebbe però agire in maniera continua e persistente senza attendere il verificarsi di gravi fatti di sangue. L’inerzia del legislatore sembra essere improntata a controllare il fenomeno mafia piuttosto che a combatterlo. E ciò non può che dipendere dai forti interessi che molti uomini della politica e della pubblica amministrazione intrattengono nel mondo dell’economia e dell’impresa, soprattutto con riguardo all'ammaliante settore della gestione dei pubblici appalti.

Le stragi, gli omicidi di mafia, hanno sempre avuto come ragion d’essere, la reazione violenta dell’organizzazione criminale mafiosa innanzi al verificarsi di un disallineamento del potere politico rispetto ai patti e alle promesse assicurate.

Tale assunto ci porta a quanto già affermato circa un indebolimento del potere economico e politico dovuto alla più lunga crisi economica mai vissuta dal Paese, con conseguente aumento delle difficoltà da parte del legislatore colluso nel fare adottare provvedimenti legislativi a tutto vantaggio delle organizzazioni criminali, buoni soprattutto per attenuare le rigide regole della vita carceraria.

Eppure la crisi economica non è la sola ragione della crisi dell’impresa mafiosa. La modifica dell’art. 81 della Costituzione che riguarda l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio, ha certamente influito sulla riduzione della spesa pubblica e, pertanto, anche sulla riduzione degli appalti.

Concludendo, dunque, sulle intervenute difficoltà delle organizzazioni criminali dovute alla crisi economica, mi pare molto interessante, fra gli altri, un aneddoto narrato da Scarpinato in un suo intervento, perché assai suggestivo e, per certi versi perversamente affascinante.

Del resto, Signor Giudice, oggi non è più la politica che comanda l’economia, ma è l’economia che comanda la politica; e noi il cuore nero dell’economia siamo.

L’aneddoto raccontato da Scarpinato, da’ ingresso a nuove riflessioni, ci apre le porte di un nuovo mondo, una sconfinata prateria di argomentazioni che hanno a che fare proprio con quella teoria mercatista che lui stesso ha inteso accostare al sistema mafia tanto da fare discutere animosamente gli studiosi della materia.

Invero il mercatismo, secondo le teorie economiche più diffuse corrisponde alle dialettiche liberiste del mercato internazionale prive di regole e di controllo pubblico, sviluppatosi in particolare nell’era della globalizzazione e confermatosi nei periodi di crisi economiche.

E dunque, secondo la teoria del boss mafioso descritta da Scarpinato, la globalizzazione e la crisi economica sarebbero i veri motivi per i quali è in grandi difficoltà.

Le argomentazioni da trattare con riguardo alle ricadute del sistema mafia sull’economia legale, sono molteplici. Già molti giuristi, sociologi, economisti, hanno studiato e trattato a fondo il fenomeno.

Stefania Pellegrini, in occasione di un approfondito studio sulle ragioni dell’esistenza delle organizzazioni criminali mafiose e sull’aggressione e riutilizzazione dei beni confiscati alle mafie, ha individuato le più rilevanti peculiarità dell’impresa mafiosa e le conseguenti ripercussioni dell’economia mafiosa ineluttabilmente causate all’economia legale. A tal proposito, fra le varie tesi sostenute da molteplici esperti del settore, si sofferma maggiormente su quegli studi che privilegiano la teoria dei costi che la società civile continuamente sopporta da parte della mafiosa; quei costi che sono stati definiti come la “tassa mafiosa” da Nando dalla Chiesa, altro importante sociologo e studioso della materia.

Secondo l’argomentata teoria, la crescita abnorme dell’economia mafiosa e, conseguentemente del patrimonio mafioso, ha prodotto tre elementi specifici, dice la Pellegrini: l’espansione del territorio, l’arricchimento economico e l’impoverimento del tessuto sociale-produttivo.

Questi tre elementi interagiscono fra di loro e mirano tutti ad un fine comune: il conseguimento del potere. Perché il potere consente alle organizzazioni mafiose di infiltrarsi nella società civile e di mimetizzarsi nel mondo della normalità nel quale potranno così avvalersi di conoscenze capillari sulle attività economiche e di intrattenere rapporti con esponenti della politica, della pubblica amministrazione, di entità private, dell’associazionismo, con la possibilità di programmare le attività intimidatorie al fine di ottenere la crescita del patrimonio mafioso. Ovviamente l’espansione del territorio sotto controllo, sarà direttamente proporzionale all’arricchimento economico. Ma a tale arricchimento, di contro, non può che contrapporsi l’impoverimento del tessuto sociale-produttivo perché la penetrazione coattiva delle attività illegali produce inevitabilmente una sottrazione di risorse all’economia legale.



(1) Il 18 settembre 2015, il geologo Gianluca Grimaldi, all’interno degli uffici della “cava Buttitta”, fu ucciso a colpi di pistola.

L’amministratore giudiziario dei beni sequestrati a Buttitta era l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e il dottore Grimaldi era il suo coadiutore. Quel giorno un operaio assassino, preso dalla disperazione per il proprio licenziamento, si recò presso gli uffici della cava e sparò alcuni colpi di pistola a Grimaldi e al capo cantiere, uccidendoli sul colpo.

La triste storia si svolge in pieno periodo di crisi della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dovuta alla presunta condotta scellerata da parte del suo presidente, Silvana Saguto e di alcuni amministratori giudiziari a lei vicini, compreso Gaetano Cappellano Seminara. Ovviamente sull’episodio, non vogliamo e non possiamo affermare alcuna responsabilità a carico della Saguto, però non si può escludere che la tensione di quei giorni angoscianti in cui Palermo viveva quella triste vicenda giudiziaria, possa avere influito sulle estreme quanto violente decisioni dell’assassino.
 di Elio Collovà

Ultimi articoli

« Articoli precedenti