La “Primavera” di Catania, quando la politica venne spinta dal basso
L'analisi | 14 marzo 2024
Avrebbe potuto la “stagione dei sindaci” avviare il rinnovamento della politica a partire dal rinnovamento del modo di amministrare le città, innestando una fase lunga di sviluppo economico e sociale che rinvigorisse le radici della partecipazione democratica? È la domanda che attraversa il documentatissimo volume che Paolino Maniscalco dedica alla sua esperienza di assessore nelle due giunte comunali guidate dal sindaco Enzo Bianco a Catania dal 1993 alla fine del 1999 (Paolino Maniscalco: L’occasione perduta, Algra editore, 20 euro).
In Sicilia la stagione di sindaci cominciò con la legge regionale 7 del 1992 che introdusse l’elezione a suffragio popolare diretto del sindaco e nuove norme per l’elezione dei consigli comunali che garantissero la maggioranza alla coalizione che si era formata attorno al sindaco eletto. La norma siciliana anticipava di qualche mese la legge nazionale di riforma 81 del 1993. È stato ricordato che gli elementi di discontinuità col passato erano rilevanti: il rapporto di legittimazione diretto dei nuovi sindaci con l’elettorato, la possibilità di amministrare sulla base di una sostanziale stabilità delle coalizioni di maggioranza, l’autonoma designazione degli assessori da parte del sindaco. Tuttavia, come sottolinea Maniscalco, il vero acceleratore della riforma era quanto stava avvenendo nel sistema politico complessivo: l’esplosione di Tangentopoli che sconvolse l’assetto dei partiti che avevano fondato la Repubblica fino a segnare la fine della loro esistenza, le terribili stragi di mafia del 1992 e 1993. E contemporaneamente il moto di ribellione al malaffare e alla mafia che si diffuse nel paese e che si tradusse in imponenti movimenti di massa.
Coloro che nell’isola divennero simboli della fase di intenso cambiamento che si andava sviluppando, Leoluca Orlando a Palermo ed Enzo Bianco a Catania, rappresentavano l’espressione di gruppi dirigenti giovani intenzionati a spazzare via i comitati di affari e le compromissioni che avevano segnato le vecchie amministrazioni nelle quali il sindaco era frutto degli equilibri tra i partiti e destinato in genere a governare per periodi tutt’altro che lunghi. A Catania alla vicenda politica nazionale si sommava la fine ingloriosa di potentati economici che avevano dato vita a un sistema d’impresa, legato a doppio filo con la politica e intrecciato alla mafia, che si riteneva egemone ed inattaccabile. Ricorda l’autore (pag.23) che il “travagliato trapasso tra prima e seconda Repubblica coincise... con il crollo dei “cavalieri”: dei cantieri di Rendo ne era rimasto aperto solo uno nel novembre del 1992, era scoppiato il caso Costanzo con l’arresto di Pasquale e del nipote Giuseppe per una vicenda riguardante l’appalto dell’ospedale Cannizzaro”. La lotta per la legalità divenne perciò il fronte principale di quella che da lì a poco sarebbe stata definita “Primavera” di Catania.
Ciò, per la cultura di una città da sempre abituata a considerare il disordine e l’illegalità diffusa come consustanziali al proprio modo d’essere, costituiva di per sé un aspetto potenzialmente rivoluzionario. Maniscalco sottolinea opportunamente che il fulcro dell’iniziativa non apparteneva ai partititi, nemmeno a quelli della sinistra, ma all’associazione Città Insieme guidata da Salvatore Resca parroco della chiesa dei SS. Pietro e Paolo (e autore della bella prefazione al volume). L’iniziativa si tradusse nel Patto per Catania che Resca ricorda come “grande esperienza di democrazia e di partecipazione di popolo” (pag. 7), sottolineando che “gli assessori della giunta Bianco furono scelti democraticamente non nominati dai centri di potere e dalle alleanze di partito... furono indicati e votati da pubbliche assemblee i 59 componenti della lista dei candidati a consiglieri comunali”. Se ci si riflette, cosa c’è di più simile alla definizione di “stato nascente” proposta da Francesco Alberoni (che aveva insegnato sociologia a Catania fino al 1978) che identifica un periodo entro il quale un gruppo di persone accomunate da speranze comuni si unisce per creare una forza nuova (il movimento) che si contrappone all’istituzione?
Per la prima volta nella città etnea, dopo la fine dell’esperienza socialista e popolare di Giuseppe De Felice Giuffrida della “Catania Milano del Sud” (non a caso Bianco più volte fu tentato dall’ istituire un parallelo tra la sua sindacatura e la prosindacatura del leader dei Fasci siciliani) un movimento che originava dal basso tentava di mettere in discussione gli equilibri di potere esistenti. Nelle 325 pagine del volume l’autore ricostruisce con precisione di ricordi e ricchezza di documentazione l’operato delle due amministrazioni che governarono la città - nella prima fase ponendo rimedio ai disastri ereditati, nella seconda occupandosi anche di progettare il futuro - dalla metà del 1993 alla fine del 1999. Un contributo prezioso per chi finalmente, a quasi trent'anni dagli accadimenti, vorrà studiare quella stagione che, per citare un’affermazione di Maniscalco che condividiamo pienamente, avrebbe potuto offrire alla città ben altro destino rispetto a quello di progressivo, inarrestabile e triste degrado oggi sotto i nostri occhi. Enzo Bianco è stato sindaco di Catania quattro volte in fasi storicamente diverse: dal luglio 1988 al novembre 1989 eletto dal consiglio comunale con la vecchia normativa, dal giugno 1993 al gennaio 2000 (rieletto nel novembre 1997) e dal giugno 2013 al giugno 2018 votato direttamente dal corpo elettorale.
Maniscalco, a ragion veduta dal momento che vi rivestì un ruolo importante, si occupa delle due sindacature che considera più decisamente indirizzate a produrre innovazione amministrativa e svolte coraggiose per il tessuto civile, sociale ed economico della città. Egli individua tre errori che ne hanno compromesso i destini: l’atteggiamento de La Rete che divise il fronte progressista, l’errore collettivo dei componenti della giunta di buttarsi “a corpo morto nel fare. Avremmo dovuto fare meno cose ma coinvolgendo la città”, le dimissioni di Bianco alla fine del 1999 perché chiamato al Governo come ministro degli Interni. Siamo sostanzialmente d’accordo, ma desideriamo introdurre un altro argomento che Maniscalco affronta nelle pagine finali del testo, non legandolo tuttavia direttamente agli evidenziati limiti dell’esperienza. Siamo cioè convinti che una delle cause strutturali che condussero alla crisi della stagione dei sindaci non fu il tentativo dei partiti di riprendere il controllo, ma la loro debolezza strutturale che li ha resi incapaci di tornare ad essere ciò, che pur tra molti errori erano stati nella prima Repubblica: soggetti politici capaci di interfacciarsi con la società organizzandone le legittime richieste collettive e traducendole in iniziativa politica nei confronti delle istituzioni.
Lo schieramento conservatore ha trovato la soluzione canalizzando il consenso attraverso la miriade di patronati e Caf descritti dall’autore. Dall’altra parte, ai partiti di massa si sono sostituiti soggetti deboli, con rara presenza nel territorio, poco o punto capaci di organizzare e canalizzare istanze collettive di cambiamento e ridotti, alla fine, a comitati elettorali. A noi pare questo il nodo gordiano, ancora tutto da sciogliere, di ciò che resta della grande tradizione della sinistra in Italia. Ciò che è stato non tornerà perché una fase storica si è conclusa, ma ciò che oggi abbiamo appare debole e a volte contraddittorio. Le riflessioni di Maniscalco sull’esperienza di una grande città del Sud ci aiutano anche su tale versante, che appare decisivo anche per le caratteristiche che via via sta rivelando la maggioranza di destra che oggi governa il Paese.
di Franco Garufi
In Sicilia la stagione di sindaci cominciò con la legge regionale 7 del 1992 che introdusse l’elezione a suffragio popolare diretto del sindaco e nuove norme per l’elezione dei consigli comunali che garantissero la maggioranza alla coalizione che si era formata attorno al sindaco eletto. La norma siciliana anticipava di qualche mese la legge nazionale di riforma 81 del 1993. È stato ricordato che gli elementi di discontinuità col passato erano rilevanti: il rapporto di legittimazione diretto dei nuovi sindaci con l’elettorato, la possibilità di amministrare sulla base di una sostanziale stabilità delle coalizioni di maggioranza, l’autonoma designazione degli assessori da parte del sindaco. Tuttavia, come sottolinea Maniscalco, il vero acceleratore della riforma era quanto stava avvenendo nel sistema politico complessivo: l’esplosione di Tangentopoli che sconvolse l’assetto dei partiti che avevano fondato la Repubblica fino a segnare la fine della loro esistenza, le terribili stragi di mafia del 1992 e 1993. E contemporaneamente il moto di ribellione al malaffare e alla mafia che si diffuse nel paese e che si tradusse in imponenti movimenti di massa.
Coloro che nell’isola divennero simboli della fase di intenso cambiamento che si andava sviluppando, Leoluca Orlando a Palermo ed Enzo Bianco a Catania, rappresentavano l’espressione di gruppi dirigenti giovani intenzionati a spazzare via i comitati di affari e le compromissioni che avevano segnato le vecchie amministrazioni nelle quali il sindaco era frutto degli equilibri tra i partiti e destinato in genere a governare per periodi tutt’altro che lunghi. A Catania alla vicenda politica nazionale si sommava la fine ingloriosa di potentati economici che avevano dato vita a un sistema d’impresa, legato a doppio filo con la politica e intrecciato alla mafia, che si riteneva egemone ed inattaccabile. Ricorda l’autore (pag.23) che il “travagliato trapasso tra prima e seconda Repubblica coincise... con il crollo dei “cavalieri”: dei cantieri di Rendo ne era rimasto aperto solo uno nel novembre del 1992, era scoppiato il caso Costanzo con l’arresto di Pasquale e del nipote Giuseppe per una vicenda riguardante l’appalto dell’ospedale Cannizzaro”. La lotta per la legalità divenne perciò il fronte principale di quella che da lì a poco sarebbe stata definita “Primavera” di Catania.
Ciò, per la cultura di una città da sempre abituata a considerare il disordine e l’illegalità diffusa come consustanziali al proprio modo d’essere, costituiva di per sé un aspetto potenzialmente rivoluzionario. Maniscalco sottolinea opportunamente che il fulcro dell’iniziativa non apparteneva ai partititi, nemmeno a quelli della sinistra, ma all’associazione Città Insieme guidata da Salvatore Resca parroco della chiesa dei SS. Pietro e Paolo (e autore della bella prefazione al volume). L’iniziativa si tradusse nel Patto per Catania che Resca ricorda come “grande esperienza di democrazia e di partecipazione di popolo” (pag. 7), sottolineando che “gli assessori della giunta Bianco furono scelti democraticamente non nominati dai centri di potere e dalle alleanze di partito... furono indicati e votati da pubbliche assemblee i 59 componenti della lista dei candidati a consiglieri comunali”. Se ci si riflette, cosa c’è di più simile alla definizione di “stato nascente” proposta da Francesco Alberoni (che aveva insegnato sociologia a Catania fino al 1978) che identifica un periodo entro il quale un gruppo di persone accomunate da speranze comuni si unisce per creare una forza nuova (il movimento) che si contrappone all’istituzione?
Per la prima volta nella città etnea, dopo la fine dell’esperienza socialista e popolare di Giuseppe De Felice Giuffrida della “Catania Milano del Sud” (non a caso Bianco più volte fu tentato dall’ istituire un parallelo tra la sua sindacatura e la prosindacatura del leader dei Fasci siciliani) un movimento che originava dal basso tentava di mettere in discussione gli equilibri di potere esistenti. Nelle 325 pagine del volume l’autore ricostruisce con precisione di ricordi e ricchezza di documentazione l’operato delle due amministrazioni che governarono la città - nella prima fase ponendo rimedio ai disastri ereditati, nella seconda occupandosi anche di progettare il futuro - dalla metà del 1993 alla fine del 1999. Un contributo prezioso per chi finalmente, a quasi trent'anni dagli accadimenti, vorrà studiare quella stagione che, per citare un’affermazione di Maniscalco che condividiamo pienamente, avrebbe potuto offrire alla città ben altro destino rispetto a quello di progressivo, inarrestabile e triste degrado oggi sotto i nostri occhi. Enzo Bianco è stato sindaco di Catania quattro volte in fasi storicamente diverse: dal luglio 1988 al novembre 1989 eletto dal consiglio comunale con la vecchia normativa, dal giugno 1993 al gennaio 2000 (rieletto nel novembre 1997) e dal giugno 2013 al giugno 2018 votato direttamente dal corpo elettorale.
Maniscalco, a ragion veduta dal momento che vi rivestì un ruolo importante, si occupa delle due sindacature che considera più decisamente indirizzate a produrre innovazione amministrativa e svolte coraggiose per il tessuto civile, sociale ed economico della città. Egli individua tre errori che ne hanno compromesso i destini: l’atteggiamento de La Rete che divise il fronte progressista, l’errore collettivo dei componenti della giunta di buttarsi “a corpo morto nel fare. Avremmo dovuto fare meno cose ma coinvolgendo la città”, le dimissioni di Bianco alla fine del 1999 perché chiamato al Governo come ministro degli Interni. Siamo sostanzialmente d’accordo, ma desideriamo introdurre un altro argomento che Maniscalco affronta nelle pagine finali del testo, non legandolo tuttavia direttamente agli evidenziati limiti dell’esperienza. Siamo cioè convinti che una delle cause strutturali che condussero alla crisi della stagione dei sindaci non fu il tentativo dei partiti di riprendere il controllo, ma la loro debolezza strutturale che li ha resi incapaci di tornare ad essere ciò, che pur tra molti errori erano stati nella prima Repubblica: soggetti politici capaci di interfacciarsi con la società organizzandone le legittime richieste collettive e traducendole in iniziativa politica nei confronti delle istituzioni.
Lo schieramento conservatore ha trovato la soluzione canalizzando il consenso attraverso la miriade di patronati e Caf descritti dall’autore. Dall’altra parte, ai partiti di massa si sono sostituiti soggetti deboli, con rara presenza nel territorio, poco o punto capaci di organizzare e canalizzare istanze collettive di cambiamento e ridotti, alla fine, a comitati elettorali. A noi pare questo il nodo gordiano, ancora tutto da sciogliere, di ciò che resta della grande tradizione della sinistra in Italia. Ciò che è stato non tornerà perché una fase storica si è conclusa, ma ciò che oggi abbiamo appare debole e a volte contraddittorio. Le riflessioni di Maniscalco sull’esperienza di una grande città del Sud ci aiutano anche su tale versante, che appare decisivo anche per le caratteristiche che via via sta rivelando la maggioranza di destra che oggi governa il Paese.
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