L'ultimo stragista di Cosa Nostra se ne va con i suoi segreti
Si dice che da bambino stava spesso seduto sulla ginocchia di 'U zi Totò. Si dice che suo padre Francesco, grande amico di 'U zi Totò, avesse preso il bastone del comando mafioso della provincia di Trapani proprio per questo legame con Totò 'U Curtu. Si dice che dopo la morte del padre fu naturale che divenisse lui il capo della mafia trapanese. Si dice che dopo la morte di 'U zi Totò e la morte di Binnu 'U Tratturi fu lui a divenire il capo dei capi della Cosa nostra siciliana. Si dice come si dicono tante cose, ma sarà vero? Sarà vero che si sia fatto prendere perché gravemente malato, si dice anche questo. Lui, per la verità, ha detto che se non fosse stato malato non lo avrebbero mai preso.
Si dice, e probabilmente questo è vero, che ha potuto contare su un grande numero di aiutanti che lo hanno coperto nella sua lunghissima latitanza. Trent'anni, una vita.
Si dice ed è vero che ha avuto tantissimi fiancheggiatori. Molti sono stati arrestati prima e anche dopo la sua cattura. Lui stesso ha detto che se dovevano finire in galera tutti coloro che hanno avuto "contatti" con lui, consapevoli o non, avrebbero dovuto costruire un carcere grandissimo.
Si dice, ora che è morto, che nella tomba si è portato i segreti della stagione stragista e non solo.
Matteo Messina Denaro ora è accanto al padre nella tomba di famiglia a Castelvetrano. Quel padre che venne fatto ritrovare pronto per la sepoltura mentre era ancora latitante. Forse anche lui voleva identica sorte, si dice. Ora l'unica certezza è che è... morto.
Da trent'anni, dopo che si "buttò" latitante, lo cercavano. Lo hanno preso nel gennaio scorso. L'input da un pizzino trovato lnella gamba vuota di una sedia a casa della sorella. Nel pizzino c'erano le date di cure oncologiche, di interventi chirurgici. Il sospetto che fosse lui il protagonista è divenuto certezza la mattina del 16 gennaio scorso quando i carabinieri lo hanno bloccato alla clinica "La Maddalena" a Palermo dove si recato per un ciclo di chemioterapia.
Solo allora si è avuta la certezza che il boss, l'imprendibile capo mafia, era caduto nella rete. Allora si scoprì che erano mesi che era in cura. In quellGiuseppea clinica aveva anche allacciato amicizie con altri pazienti, soprattutto donne, per non smentire la fama di play boy che si portava appresso sin da ragazzo. Le donne gli sono sempre piaciute, così come gli abiti firmati, gli orologi di marca, le auto di lusso e gli immancabili occhiali ray ban. Proprio con indosso gli occhiali utilizzati dai piloti americani è raffigurato in un grande dipinto appeso nel salotto dell'abitazione dei suoi familiari.
Si dice che ha trascorso una latitanza "dorata" e forse è vero, almeno vedendo le immagini diffuse dopo il suo arresto. Immagini che lo vedono per le strade di Campobello di Mazara, all'interno di un supermercato mentre parla con una donna. Quest'ultima figlia e moglie di due mafiosi si dice si stata l'ultima sua amante. E poi nel suo ultimo nascondiglio sono stati trovati Dvd di diversi film, molti libri e i giornaletti di Diabolik. Alle pareti la locandina del film "Il padrino" raffigurante Al Pacino.
Una latitanza completamente diversa da quella del suo padrino Totò Riina e dal suo ultima capo Bernardo Provenzano. Matteo Messina Denaro è stato forse il protagonista della trasformazione della mafia. Mentre Provenzano viveva come un povero contadino in un casolare di campagna mangiando ricotta e cicoria, lui frequentava gli uffici finanziari portando Cosa nostra nel Terzo Millennio. La latitanza di 'U Siccu è stata diversa anche da quella del suo padrino. Quest'ultimo, Totò U' Curtu, aveva scelto una elegante villetta in una zona periferica di Palermo ma con tutti i confort, compresa una piscina per far gioire i quattro figli, ma faceva vita ritirata: casa, summit per deliberare stragi ed omicidi e nient'altro. I due, figlioccio e padrino, sono stati legatissimi. Tra loro quasi un cordone ombelicale che li stringeva. Il padrino di lui si fidava. Tant'é che lo spedì a Roma per uccidere Giovanni Falcone nella Capitale. Gli diede mandato pieno, così come gli diede il via libera per organizzare l'attentato contro Maurizio Costanzo. E lui ripagò la fiducia che gli era stata data senza mai fare cenno ad una minima rimostranza. Partecipò senza che sopracciglia si muovesse a tutte le stragi del '92 e del '93.
Si dice che avrebbe detto che con gli omicidi che ha commesso si potrebbe riempire un intero cimitero. Una frase gettata nell'aria forse per fare "rumore" e non per altro.
Differenti, invece, sono state le parole che suo padrino gli ha rivolto, indirettamente dal carcere di Opera dove si trovava detenuto. Contro l'allora latitante di Castelvetrano usa parole dure. Gli rimprovera di pensare solo agli affari e di infischiarsene dei problemi del suo capo. Si aspettava, forse, un atteggiamento diverso dal figlioccio latitante che fedele fino ad allora lo era sempre stato.
"A me dispiace dirlo questo… questo signor Messina (Matteo Messina Denaro ndr) – sbottava Riina – questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa…”.
Il capo dei capi si rammaricava dell’assenza del padre di Matteo, Francesco Messina Denaro: “… ora se ci fosse suo padre buonanima, perché suo padre un bravo cristiano 'U zu Ciccio era di Castelvetrano… capo mandamento di Castelvetrano… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero.. era un cristiano perfetto…”. Era stato don Ciccio ad affidare il figlio alle “cure” di Riina: “.. questo qua questo figlio lo ha dato a me per farne quello che dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia tutto in una volta si è messo a fare luce in tutti i posti… fanno altre persone ed a noi ci tengono in galera, sempre in galera però quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare”.
Nei suoi 252 giorni di carcere, Matteo Messina Denaro, è stato interrogato diurse volte dai magistrati. Ha debuttato dicendo "Io non mi farò mai pentito". E aggiungendo "non voglio fare il superuomo e nemmeno l'arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia".
Non è stato zitto il boss con i magistrati, anzi ha detto molto. Ha detto quello che voleva dire, o quello che voleva mandare a dire.
Nel suo interrogatorio è stato preciso. Ha negato, come deve fare un uomo d'onore, l'esistenza della mafia. Ha detto e non detto, ha girato le frasi a suo piacimento. Ai magistrati, che lo hanno verbalizzato, dice: "Ci saranno cose in cui non rispondo, cose in cui rispondo e spiegherò il motivo per cui rispondo e cose che spiegherò il motivo per cui non voglio rispondere".
Un uomo d'onore non risponde ai giudici, ai magistrati, un uomo d'onore non parla. E allora lui a chi vuole rispondere? Un uomo d'onore non può rispondere nemmeno ad un altro uomo d'onore se non gli viene presentato come uomo d'onore con la classica frase "siamo la stessa cosa".
Ci sono stati collaboratori di giustizia i quali hanno dichiarato che sono stati in cella per anni con uomini d'onore, ma non essendo stati presentati "ufficialmente" tra di loro non potevano parlare di affari o fatti mafiosi. Matteo Messina Denaro è una contraddizione.
Alla domanda se lui è un uomo d'onore precisa: "Sono un uomo d'onore, nel senso di altri, cioè non affiliato a Cosa nostra, ma ho un codice d'onore". Il boss aggiunge: "Magari ci facevo qualche affare ma non sapevo che era Cosa nostra". Alla domanda se ha fatto stragi oppure omicidi nega nella maniera più assoluta. Confessa, invece, di avere avuto rapporti con Bernardo Provenzano. Prima dice che lo ha visto e conosciuto solo dalla televisaione, ma quando il pubblico ministero gli chiede se ha mai scritto al boss di Corleone dichiara: "Si lettere, perché quando si fa un certo tipo di vita, poi arrivato ad un dato momento ci dobbiamo incontrare, perché io latitante accusato di mafia, lui latitante accusato di mafia, dove si va? Io chiedevo favori a lui e lui chiedeva favori a me". Quasi a voler dire che essendo entrambi calunniati si alleano, ma non perché mafiosi ma perché perseguitati.
Davanti al giudice Alfredo Montalto il boss ha ammesso la sua partecipazione nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo. Lo ha ammesso ma lo ha ridimensionato. Ha scaricato tutto su Giovanni Brusca (oggi uomo libero). "Fu lui - ha detto Messina Denaro - a dare quell'ordine ripugnante. Lei mi insegna - rivolgendosi al giudice - che un sequestro di persona ha una sua finalità, che esclude sempre l'uccisione dell'ostaggio, perché un sequestro a che serve? Ad uno scambio: tu mi dai questo ed io ti do l'ostaggio; il sequestro non è mai finalizzato all'uccisione. Sequestrano questo bambino, quindi io sono come mandante, mandante del sequestro, sequestrano questo bambino e lui, Giovanni Brusca, non dice che c'ero io. Ad un tratto lui resta solo in questa situazione, passa del tempo, un anno, due anni, dice si trova davanti al televisore ed il telegiornale dà la notizia di...che lui era stato condannato all'ergastolo per l'uccisione dell'esattore Ignazio Salvo, ci siamo? A quel punto Brusca fuori di sé per la condanna all'ergastolo per l'omicidio Salvo decreta la morte del bambino. Ma allora, a tutta coscienza, se io devo andare in quel processo, che è ormai in Cassazione, devo andare per sequestro di persona. Quindi a me perché mi mettete - non voi, il sistema - come mandante per l'omicidio, quando lui dice che non ci siamo visti più?. Decise tutto lui, per l'ira dell'ergastolo che prese ed io mi sento appioppare un omicidio, invece secondo me mi devono appioppare il sequestro di persona; non lo faccio per una questione di 30 anni o l'ergastolo, ma per una questione di principio. E poi a tutti....cioè loro lo hanno ammazzato, lo hanno sciolto nell'acido e alla fine quello a pagare sono io? Cioè, ma ingiustizie quante ne devo subire?":
Matteo Messina Denaro cade forse in contraddizione?. Dice di non essere uomo d'onore, confessa di avere partecipato al sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo (deciso da Cosa nostra) ma si chiama fuori dall'uccisione del bambino, scaricandolo a 'U Verru di San Giuseppe Jato.
Si dice che questo suo modo di dire e non dire, di confessare e ritrattare, sia stato un segnale ben preciso lanciato a chi deve sapere. Certo è che al contrario del suo padrino Totò Riina che al procurato Giancarlo Caselli, il giorno del suo arresto disse: "Possiamo parlare solo del clima, del tempo e di nient'altro", il boss di Castelvetrano ha detto forse molto e non detto ancora di più.
E ai magistrati che tentavano di instradarlo su un percorso che lo avrebbe portato, forse a parlare di servizi segreti e di apparati deviati dello Stato, ha detto: "Io certe cose non le dico perché altrimenti uscite da qua e andate ad arrestare persone. Io sono, sono stato e sarò uomo d'onore. Io certe cose non le faccio, io sono un criminale onesto".
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