Il ritorno di Trump
nell’America oltranzista
Come volevasi dimostrare e come in tanti temevamo. Donald Trump vince le elezioni, succede a Biden, diventa il 47° presidente degli Stati Uniti e ritorna alla Casa Bianca. La persona meno adatta a ricoprire quel ruolo non solo non lascia ma dopo quattro anni raddoppia. Malgrado il suo approccio sempre divisivo, malgrado la sua retorica violenta, malgrado l’assalto a Capitol Hill, sede del Parlamento americano, da parte dei suoi seguaci il 6 gennaio 2021, malgrado processi e inchieste, malgrado l’inaffidabilità, l’inattendibilità, l’ego ipertrofico, il narcisismo patologico, la disinvoltura con cui spara giudizi e considerazioni.
Ormai dappertutto nel mondo etica e politica sono due rette parallele che non si incontrano.
Una vittoria netta. I repubblicani conquistano anche Camera dei Rappresentanti e Senato. Si consolida l’“indemocrazia” trumpiana negli Usa. O forse dovremmo scrivere più correttamente l’“indemocrazia” di Trump e Musk, visto che un altro soggetto che esce spesso fuori le righe, Elon Musk, l’uomo più arciricco del pianeta, è stato il principale grande elettore di Trump. Un sodalizio tra politica oltranzista da una parte e miliardi a catasta, nuove tecnologie e Intelligenza Artificiale dall’altra che dovrebbe farci riflettere sul futuro della democrazia. E non solo negli Stati Uniti.
Credevamo di esserci liberati quattro anni fa di Trump e di trattare con i responsabili della cosa pubblica e degli Stati. Una voce gracchiante, un gesticolare delle mani inconfondibile. Un elefante in una cristalleria nello scenario internazionale. Prepariamoci, anzi riprepariamoci, a pressanti richieste agli alleati europei di aumentare il loro budget per la Nato, a sparate pirotecniche sempre più incendiarie in un mondo in fiamme come quello di questi ultimi anni. Sostiene che risolverà nel giro di poche settimane la guerra russo-ucraina. Tutti coloro che parlano di soluzione rapida di questo conflitto hanno in mente solo la cessione di una parte di territorio dell’Ucraina alla Russia di Putin, stato aggressore. Vedremo.
Avanza la polarizzazione
Aumenterà la competizione strategico-militare oltre che economica con la Cina. Dazi non solo sui prodotti cinesi ma anche sulle esportazioni europee in Usa. Del resto Trump in campagna elettorale ha detto testualmente che “l’Europa ci deruba”. Non considera alleati gli europei ma piuttosto una specie di fastidioso scendiletto. Dopo Putin, Trump è il peggiore nemico dell’Unione europea.
Sul piano interno gli Stati Uniti del XXI secolo sono un mosaico frammentatissimo di identità. Estremisti, neonazisti, isolazionisti, iperconservatori in Trump vedono un riferimento. Un paese sempre più spaccato. Gli Stati Uniti diverranno sempre più Stati Disuniti. Continuerà la polarizzazione con forti pulsioni di estrema destra da una parte e di estrema sinistra dall’altra. Naturalmente le due visioni sconoscono le parole dialogo, discussione, composizione. Due mondi sideralmente distanti. Continuerà la narrativa trumpiana della negazione di responsabilità tra emissioni di Co2 e disastri climatico-ambientali così come il conseguente disimpegno Usa da ogni accordo anche di minimo impegno per clima e ambiente. Quanto agli immigrati negli Usa – clandestini o non clandestini che siano – sarà dura. Tempo di nuovo di muri e di promesse di ricacciate indietro oltre i confini del Messico. Più in generale, non sarà un futuro radioso quello che si profila per i diritti umani in America. Il paese si rinchiude sempre più in se stesso. Con contraddizioni sconcertanti. Diventa sempre più violentemente ostile all’aborto ma vede morire ragazzi e bambini a centinaia l’anno in sparatorie figlie della diffusione di armi in tutte le case. Armi persino regalate ai bambini per le loro feste di compleanno.
Trump ha 78 anni, è nato il 14 giugno 1946. Il più anziano presidente che sia mai stato eletto da Giorgio Washington in poi. Sulla sua instabilità emotiva, sulle sue proverbiali sfuriate gli psicoterapeuti avrebbero potuto cominciare a lavorare fin da quando era giovane. Figuriamoci ora che sarà un presidente ottuagenario. Ci siamo mai chiesti perché decine di suoi stretti collaboratori nella prima amministrazione Trump (2016-2020) – spazientiti – si sono dimessi, hanno sbattuto la porta e se ne sono andati? C’è qualcosa di patologico nel modo in cui “The Donald” tratta e considera tutti gli altri che non sono “The Donald”. Per non parlare del suo approccio con l’universo femminile. Una sottovalutazione netta emerge dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti. Una misoginia impressionante. E comunque il declino americano non è fatto solo di un costante, inarrestabile peggioramento delle condizioni di vita e dei servizi nel paese.
Il declino degli Stati Uniti
Non è fatto solo dell’incapacità di arginare la deriva sociale (basti pensare ai milioni e milioni di senzatetto che dormono sui marciapiedi delle metropoli e alle milioni di vite recise ogni anno dalle droghe, in particolare dalla micidiale droga sintetica “Fentanyl”, lo stupefacente che riduce gli individui come zombie). Il declino non è fatto solo dell’incapacità di contare ed incidere, ad esempio nella crisi mediorientale di imporre a Netanyahu tregue e soluzioni che non siano solo radere al suolo intere città. Biden non c’è riuscito. Il declino americano è fatto anche della incapacità di rinnovare la leadership, da questa riconferma della gerontocrazia che dal 2016 porta alla Casa Bianca ottantenni gaffeur.
Troppo fragile l’alternativa a Trump. Non parliamo neppure di una riconferma di Biden – impensabile – ma è stato chiaro dal primo istante che Kamala Harris fosse inadeguata. Non scaldava i cuori e non ha dato neppure lontanamente la sensazione di aprire nuovi orizzonti al sogno americano. Come avrebbe sicuramente potuto fare, ad esempio, Michelle Obama. Tutti i vicepresidenti sono nei loro quattro anni nulla più di un ruotino di scorta. A meno di eventi traumatici che nel corso del mandato presidenziale li portano automaticamente a sedere alla scrivania dello Studio Ovale della Casa Bianca. Come nel 1945 la morte di Roosevelt che aprì le porte al suo vice Truman, come nel 1963 l’assassinio di Kennedy che fa diventare presidente il suo vice Johnson, come nel 1974 il vicepresidente Gerald Ford che diventa presidente a seguito delle dimissioni a cui Nixon è costretto dallo scandalo Watergate. Kamala Harris nel corso dei quattro anni di vice di Biden è stata come le temperature di certe città negli elenchi del servizio meteorologico quando ancora vedevamo la tv in bianco e nero: “Non pervenuta”. Come la campagna elettorale ha confermato, le mancavano il carisma, l’energia, la capacità di fare capire di essere lei la comandante in capo. In campagna elettorale il suo approccio tutto sorrisi, risate e abbracci sapeva più di show televisivo che di linguaggio del corpo di un politico. E per di più di un politico chiamato a quella tremenda responsabilità nel paese più potente del globo. Non sapremo mai se - stupendoci tutti - sarebbe stata una presidente meno evanescente di quanto lasciasse prevedere. Ne dubitiamo. Tutti abbiamo visto in lei “il male minore”. D’altro canto rispetto a Trump persino personaggi inaffidabili come quelli magistralmente interpretati da Vittorio Gassman in film come “I soliti ignoti” o “Il sorpasso” o da Cristian De Sica sarebbero “un male minore”.
E allora spazio a un quasi ottuagenario irascibile. Durissima da digerire ma è andata così. E chissà se dalla data di insediamento nel mese di gennaio del 2025 sarà “America first” o “Make America Great Again” – rispettivamente slogan della prima campagna elettorale di Trump e della seconda – o se piuttosto sarà, come in una triste parabola, sempre più “Bye bye America”.
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