Il patto corruttivo
L'analisi | 17 febbraio 2023
Non bisognerebbe mai gioire quando i tribunali emettono un verdetto di colpevolezza. E non (solo) per senso di umanità nei confronti del condannato che, al di là delle sue responsabilità penali viene privato della libertà – il più grande bene che l’uomo possiede – ma perché se c’è stata una condanna vuol dire che un collegio di giudici ha riconosciuto l’esistenza di un crimine secondo quella che chiamiamo la . E dunque, in presenza di fatti criminali c’è sempre qualcuno che ne rimane vittima, persone, istituzioni, perfino la società civile.
Nel caso di cui oggi argomentiamo, non uno, ma due collegi di giudici, hanno deciso conformemente.
Silvana Saguto – Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, magistrato radiato dall’ordine giudiziario – è stata condannata a otto anni, dieci mesi e quindici giorni di reclusione; Gaetano Cappellano Seminara – noto avvocato palermitano e apprezzato amministratore giudiziario, nominato dai Tribunali di mezza Sicilia, è stato condannato a sette anni e sette mesi di reclusione; molti altri soggetti vicini alla Saguto facenti parte di quello che è stato definito il sono stati condannati a pene pesanti: Il marito Lorenzo Caramma, il prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, il prof. Carmelo Provenzano … e tanti altri (amministratori giudiziari, avvocati, il figlio di Silvana Saguto).
Ovviamente, in quest’analisi mi atterrò strettamente al racconto di questa storia giudiziaria così come emerge dal processo penale celebrato dalla seconda sezione penale della Corte di Appello di Caltanissetta le cui motivazioni, esposte, con dovizia di particolari, dai Giudici estensori restituiscono un quadro chiaro e completo delle operazioni compiute da Saguto e Cappellano – e non solo -, che per accrescere il proprio potere economico, abusavano della peculiare autorità derivante dal ruolo che essi ricoprivano, violando, in concorso, i doveri inerenti all’esercizio della funzione pubblica. Cosicché, venne a crearsi una sorta di monopolio in capo all’avvocato Cappellano al quale il Giudice della prevenzione Saguto affidava i più importanti incarichi di amministrazione giudiziaria sostenendo le alte qualità professionali di tale avvocato del quale non si risparmiava di dirne pubblicamente mirabilie. Ed è proprio dallo stretto rapporto, esclusivo e riservato che intercorreva fra Saguto e Cappellano, che traggono origine i fatti delittuosi da loro commessi, anche con disinvoltura. Un rapporto così complice (oggi, alla luce delle motivazioni della sentenza d’appello potremmo dire “correo”), che ha dato forza a quel sodalizio che ha permesso loro di esercitare uno straordinario potere avvalendosi di devoti soggetti entrati a far parte del in cambio di incarichi di amministrazioni giudiziarie che il presidente conferiva loro.
Sono tanti i capi d’imputazione che vengono contestati a Silvana Saguto e Gaetano Cappellano Seminara. Reati che, secondo la Corte di Appello sono stati commessi perché la Saguto – con la complicità di Cappellano – ha gestito la sezione misure di prevenzione – e quindi i sequestri di prevenzione – “illecitamente”, utilizzando criteri clientelari e secondo il proprio “egoistico” tornaconto. Tutto il gioco girava, in gran parte, intorno alla nomina degli amministratori giudiziari – nei procedimenti più notevoli – che erano scelti indiscutibilmente fra professionisti fedelissimi.
E’ ancora la sentenza della Corte di Appello che puntualizza in diverse occasioni come del “sistema” Saguto faceva parte anche il marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma. Si potrebbe senz'altro affermare che tale perverso sistema – attraverso un “patto corruttivo”, era in buona parte studiato per conferire legittimamente a Cappellano gli incarichi più importanti e rimunerati in modo che questi potesse a sua volta nominare Caramma all’interno delle amministrazioni giudiziarie. In buona sostanza, secondo i giudici di appello, Saguto e Cappellano avrebbero messo in atto un rapporto di scambi d’interessi e di “utilità” durato nel tempo. La nomina dell’avvocato Cappellano Seminara, sostengono ancora i giudici estensori, “prescindeva da ogni valutazione circa la convenienza e l’opportunità per la realizzazione dei fini propri della procedura e s’inseriva invece, nell’ambito del rapporto di scambio di utilità intercorso tra il magistrato e il professionista”.
Con questo gioco la Saguto avrebbe raggiunto quell’obiettivo che la Corte ha definito come lo “spasmodico desiderio di assicurare alla propria famiglia un tenore di vita molto più elevato delle proprie possibilità”.
Le conseguenze che scaturiscono dal giudizio sono tantissime e gli stessi imputati, per primi, ne pagano un alto prezzo: carriere stroncate, confische per equivalente di somme ingenti, probabilmente anche detenzione carceraria nel caso che la Suprema Corte dovesse confermare il verdetto della Corte di Appello di Caltanissetta.
Invero non posso sottrarmi dal restituire testualmente al lettore un passaggio fondamentale della requisitoria dell’ex procuratrice generale di Caltanissetta e ora a Palermo, Lia Sava, dal quale emerge tutta l’amarezza di cui è intriso l’intero processo, al di là degli aspetti tecnici e penali: I giudici di appello, nel valutare le condotte e le molteplici vicende analizzate che emergono dai vari capi d’imputazione, sostengono che gli imputati, nella gestione di questo perverso “sistema”, hanno tirato la corda troppo a lungo non potendo più evitare che il “andasse in crisi”. Il cerchio magico è imploso, è collassato per effetto delle stesse pressioni interne, senza con ciò volere escludere l’esplosione verso l’esterno causata dall’intenso battage mediatico.
Il processo si arricchisce della disanima dei fatti specifici contestati agli imputati come, ad esempio la questione della tesi di laurea del figlio della Saguto, Emanuele, che sarebbe stata redatta dal Professore Carmelo Provenzano, docente dell’università Kore di Enna, in cambio di incarichi giudiziari.
Un fatto che non si può sottacere per la sua gravità – al di là di qualsivoglia responsabilità penale – riguarda l’immane e temerario progetto che la Saguto avrebbe voluto realizzare al fine di allargare il proprio campo d’azione in altri Tribunali, così aumentando il proprio potere; “un bel triangolone”, costituito dai Tribunali di Palermo, Caltanissetta e Trapani che permettesse di gestire la nomina degli amministratori giudiziari (ovviamente persone di propria fiducia) nei procedimenti di prevenzione applicati da quegli uffici giudiziari. Detta irrealizzabile quanto illecita operazione palesa irrefutabilmente lo stato di esaltazione di Silvana Saguto alla continua ricerca di operazioni che potessero garantirle flussi finanziari idonei all’innalzamento del proprio tenore di vita.
Detto ciò, c’è dell’altro che non può essere sottovalutato: è il segno indelebile dell’uso illecito della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, tenuto conto che tale istituzione costituiva incolpevolmente il vero motore operativo, quello che consentiva al di accrescere il proprio potere utilizzando la gestione delle aziende in sequestro.
Gli imputati si sono macchiati di colpe gravissime delle quali dovranno rispondere alla giustizia dopo la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione; ma soprattutto si sono macchiati di una responsabilità morale della quale dovranno rendere conto alla collettività.
C’è una questione che rimane come una ferita perennemente aperta: è il danno che il ha procurato al ; è quella macchia che rimane indelebile nella giustizia italiana che riguarda la perversione con la quale un giudice – che agli occhi della gente si presentava come assoluto garante della legalità e leale al proprio giuramento – gestiva il proprio mandato e lo faceva avendo formato, con i suoi fedeli adepti, quel famigerato di cui tanto si è detto.
Ma noi continuiamo a essere fiduciosi ed a credere nella giustizia e nella magistratura; cosicché questo caso non può che essere considerato come una mela marcia in un paniere di mele buone.
Quando è stata aperta l’inchiesta, anni addietro, lo sconforto della comunità civile fu pari alla rabbia. Palermo registrava una ferita che sembrava insanabile. I cittadini si sentivano defraudati di quello strumento intelligente (il sequestro e la confisca dei beni mafiosi) ideato da Pio La Torre che finalmente poteva ridare ai cittadini, speranze concrete nella lotta alla criminalità organizzata. La giustizia però ha fatto il suo corso, il processo di appello è stato celebrato ed ha confermato, in massima parte, le decisioni del tribunale (anche con qualche aumento di pena). L’impianto accusatorio, com’è stata sempre nostra convinzione, ha retto perfettamente.
Tuttavia, quanto qui argomentato, non può certamente avere il carattere della definitività. Secondo il principio della presunzione d’innocenza gli imputati sono considerati non colpevoli fino a condanna definitiva, vale a dire, sino all’esito del terzo grado di giudizio.
Dunque, non ci resta che aspettare il giudizio della Suprema Corte di Cassazione.
di Elio Collovà
Nel caso di cui oggi argomentiamo, non uno, ma due collegi di giudici, hanno deciso conformemente.
Silvana Saguto – Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, magistrato radiato dall’ordine giudiziario – è stata condannata a otto anni, dieci mesi e quindici giorni di reclusione; Gaetano Cappellano Seminara – noto avvocato palermitano e apprezzato amministratore giudiziario, nominato dai Tribunali di mezza Sicilia, è stato condannato a sette anni e sette mesi di reclusione; molti altri soggetti vicini alla Saguto facenti parte di quello che è stato definito il
Ovviamente, in quest’analisi mi atterrò strettamente al racconto di questa storia giudiziaria così come emerge dal processo penale celebrato dalla seconda sezione penale della Corte di Appello di Caltanissetta le cui motivazioni, esposte, con dovizia di particolari, dai Giudici estensori restituiscono un quadro chiaro e completo delle operazioni compiute da Saguto e Cappellano – e non solo -, che per accrescere il proprio potere economico, abusavano della peculiare autorità derivante dal ruolo che essi ricoprivano, violando, in concorso, i doveri inerenti all’esercizio della funzione pubblica. Cosicché, venne a crearsi una sorta di monopolio in capo all’avvocato Cappellano al quale il Giudice della prevenzione Saguto affidava i più importanti incarichi di amministrazione giudiziaria sostenendo le alte qualità professionali di tale avvocato del quale non si risparmiava di dirne pubblicamente mirabilie. Ed è proprio dallo stretto rapporto, esclusivo e riservato che intercorreva fra Saguto e Cappellano, che traggono origine i fatti delittuosi da loro commessi, anche con disinvoltura. Un rapporto così complice (oggi, alla luce delle motivazioni della sentenza d’appello potremmo dire “correo”), che ha dato forza a quel sodalizio che ha permesso loro di esercitare uno straordinario potere avvalendosi di devoti soggetti entrati a far parte del
Sono tanti i capi d’imputazione che vengono contestati a Silvana Saguto e Gaetano Cappellano Seminara. Reati che, secondo la Corte di Appello sono stati commessi perché la Saguto – con la complicità di Cappellano – ha gestito la sezione misure di prevenzione – e quindi i sequestri di prevenzione – “illecitamente”, utilizzando criteri clientelari e secondo il proprio “egoistico” tornaconto. Tutto il gioco girava, in gran parte, intorno alla nomina degli amministratori giudiziari – nei procedimenti più notevoli – che erano scelti indiscutibilmente fra professionisti fedelissimi.
E’ ancora la sentenza della Corte di Appello che puntualizza in diverse occasioni come del “sistema” Saguto faceva parte anche il marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma. Si potrebbe senz'altro affermare che tale perverso sistema – attraverso un “patto corruttivo”, era in buona parte studiato per conferire legittimamente a Cappellano gli incarichi più importanti e rimunerati in modo che questi potesse a sua volta nominare Caramma all’interno delle amministrazioni giudiziarie. In buona sostanza, secondo i giudici di appello, Saguto e Cappellano avrebbero messo in atto un rapporto di scambi d’interessi e di “utilità” durato nel tempo. La nomina dell’avvocato Cappellano Seminara, sostengono ancora i giudici estensori, “prescindeva da ogni valutazione circa la convenienza e l’opportunità per la realizzazione dei fini propri della procedura e s’inseriva invece, nell’ambito del rapporto di scambio di utilità intercorso tra il magistrato e il professionista”.
Con questo gioco la Saguto avrebbe raggiunto quell’obiettivo che la Corte ha definito come lo “spasmodico desiderio di assicurare alla propria famiglia un tenore di vita molto più elevato delle proprie possibilità”.
Le conseguenze che scaturiscono dal giudizio sono tantissime e gli stessi imputati, per primi, ne pagano un alto prezzo: carriere stroncate, confische per equivalente di somme ingenti, probabilmente anche detenzione carceraria nel caso che la Suprema Corte dovesse confermare il verdetto della Corte di Appello di Caltanissetta.
Invero non posso sottrarmi dal restituire testualmente al lettore un passaggio fondamentale della requisitoria dell’ex procuratrice generale di Caltanissetta e ora a Palermo, Lia Sava, dal quale emerge tutta l’amarezza di cui è intriso l’intero processo, al di là degli aspetti tecnici e penali:
Il processo si arricchisce della disanima dei fatti specifici contestati agli imputati come, ad esempio la questione della tesi di laurea del figlio della Saguto, Emanuele, che sarebbe stata redatta dal Professore Carmelo Provenzano, docente dell’università Kore di Enna, in cambio di incarichi giudiziari.
Un fatto che non si può sottacere per la sua gravità – al di là di qualsivoglia responsabilità penale – riguarda l’immane e temerario progetto che la Saguto avrebbe voluto realizzare al fine di allargare il proprio campo d’azione in altri Tribunali, così aumentando il proprio potere; “un bel triangolone”, costituito dai Tribunali di Palermo, Caltanissetta e Trapani che permettesse di gestire la nomina degli amministratori giudiziari (ovviamente persone di propria fiducia) nei procedimenti di prevenzione applicati da quegli uffici giudiziari. Detta irrealizzabile quanto illecita operazione palesa irrefutabilmente lo stato di esaltazione di Silvana Saguto alla continua ricerca di operazioni che potessero garantirle flussi finanziari idonei all’innalzamento del proprio tenore di vita.
Detto ciò, c’è dell’altro che non può essere sottovalutato: è il segno indelebile dell’uso illecito della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, tenuto conto che tale istituzione costituiva incolpevolmente il vero motore operativo, quello che consentiva al
Gli imputati si sono macchiati di colpe gravissime delle quali dovranno rispondere alla giustizia dopo la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione; ma soprattutto si sono macchiati di una responsabilità morale della quale dovranno rendere conto alla collettività.
C’è una questione che rimane come una ferita perennemente aperta: è il danno che il
Ma noi continuiamo a essere fiduciosi ed a credere nella giustizia e nella magistratura; cosicché questo caso non può che essere considerato come una mela marcia in un paniere di mele buone.
Quando è stata aperta l’inchiesta, anni addietro, lo sconforto della comunità civile fu pari alla rabbia. Palermo registrava una ferita che sembrava insanabile. I cittadini si sentivano defraudati di quello strumento intelligente (il sequestro e la confisca dei beni mafiosi) ideato da Pio La Torre che finalmente poteva ridare ai cittadini, speranze concrete nella lotta alla criminalità organizzata. La giustizia però ha fatto il suo corso, il processo di appello è stato celebrato ed ha confermato, in massima parte, le decisioni del tribunale (anche con qualche aumento di pena). L’impianto accusatorio, com’è stata sempre nostra convinzione, ha retto perfettamente.
Tuttavia, quanto qui argomentato, non può certamente avere il carattere della definitività. Secondo il principio della presunzione d’innocenza gli imputati sono considerati non colpevoli fino a condanna definitiva, vale a dire, sino all’esito del terzo grado di giudizio.
Dunque, non ci resta che aspettare il giudizio della Suprema Corte di Cassazione.
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