Giuffrè, la grande strategia di Cosa nostra sulle stragi e sul "tavolino" degli appalti
Società | 27 febbraio 2024
Le stragi mafiose del 1992 e del 1993 vennero compiute al termine di un sondaggio che Cosa nostra fece interpellando politici, imprenditori e massoni. Una iniziativa che sarebbe stata voluta e promossa da Bernardo Provenzano. A raccontare questo retroscena, ma non solo, è stato il pentito Antonino Giuffrè.
L'ex boss di Caccamo, soprannominato "manuzza", ha anche aggiunto che dietro le stragi ci sarebbero stati poteri forti e occulti e anche "talpe" della mafia.
Giuffrè sostiene che delle indagini condotte dal Ros, Reparto operativo speciale, su mafia e appalti i boss vennero a conoscenza da subito "grazie - ha detto - a informatori che erano in contatto con Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Tra questi - ha aggiunto - si vociferava, quindi è da prendere con le pinze, dell'allora procuratore della Repubblica (Pietro Giammanco, ndr). Ricordo di avere sentito dire: meno male che ci abbiamo u dutturi Giammanco".
L'ex boss di Caccamo rivela anche, in maniera più precisa, la strategia di Cosa nostra. Rivela l'esistenza di "una articolata strategia preventiva attuata, di prassi, nel caso di azioni violente ai danni di personalità politiche o istituzionali" e tira in ballo il rapporto tra Cosa nostra e il mondo imprenditoriale come una delle principali cause che determinarono la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Bernardo Provenzano - sempre secondo quanto sostenuto da Giuffrè - avrebbe fatto un sondaggio tra politici, imprenditori e massoni "per cogliere lo stato d'animo e i possibili riverberi dell'uccisione dei due giudici".
Sia Falcone che Borsellino sarebbero stati interessati, con le loro indagini, a scoperchiare un certo modo di fare affari con gli appalti. "Un settore importante - ha continuato l'ex boss di Caccamo - e le indagini dei due giudici avrebbero potuto procurare effetti devastanti per gli interessi di Cosa nostra e degli altri protagonisti dell'economia che ruotano attorno agli appalti". Protagonisti che, sempre secondo il pentito "si identificano non solo in soggetti appartenenti al mondo dell'imprenditoria e della mafia, ma anche a quello della politica, sia a destra che a sinistra".
Alla base di tutto vi sarebbero stati "i guadagni". "Quando queste componenti vanno in fibrillazione - ha aggiunto l'ex boss - la cosa si fa pericolosa come una pentola a pressione che rischia di scoppiare se non si spegne il fuoco".
Interessi tra imprenditoria e Cosa nostra che il pentito fa risalire nel periodo tra il 1984 e il 1985, anni in cui sarebbe stata avviata quella che definisce una complessa ed articolata sinergia tra queste tre componenti al fine di far convergere gli interessi comuni.
In quel periodo fu Angelo Siino (anche lui poi passato nella schiera dei collaboratori di giustizia), uomo di fiducia di Totò Riina, ad orchestrare i vari interessati coinvolti creando un sistema, all'interno del quale la mafia assicurava alle imprese la possibilità di lavorare con una certa tranquillità e di contro partecipava alle attività volte a garantire la preordinata spartizione dei lavori tra le imprese prescelte. In quel periodo non ci sarebbero stati lavori pubblici che non fossero preparati a tavolino. Anche le imprese che giungevano da fuori Sicilia erano chiamate a mettere "le carte in regola". "Venivano con le idee chiare - ha precisato Giuffrè - conoscevano già quali erano i loro diritti e quali erano i loro doveri, già sapevano che dovevano presentarsi al responsabile locale, pagare quelle certe somme o comunque essere pronti a pagare, nessuno poteva sottrarsi, pena la morte".
Tale situazione sarebbe stata interamente gestita da Siino fino al 1987. In quell'anno Giuffrè partecipò a una riunione, presente Balduccio Di Maggio, dove Totò Riina si lamentò dell'operato di Siino, gestito da Balduccio di Maggio e dal "figlioccio" Giovanni Brusca. "In quella circostanza Riina trattò malissimo Di Maggio - ha spiegato Giuffrè - e tale sfuriata ebbe origine da una precedente contrapposizione tra Brusca e Provenzano". Iniziò da allora l'estromissione di Angelo Siino, almeno dagli appalti che superavano i cinque miliardi di lire "i quali dal 1990, 1991, venivano curati da un secondo tavolino che venne gestito prima da un fiduciario di Brusca e poi da Pino Lipari voluto da Bernardo Provenzano".
Giuffrè ha sottolineato anche l'importante ruolo dei politici: "In particolare dei vari assessori ai Lavori Pubblici, sia a livello regionale che comunale, a seconda del tipo e dell'importo degli appalti. Per garantire la preordinata spartizione dei lavori si predisponevano i bandi di gara in modo da garantire il risultato voluto. Un ingranaggio perfetto con il quale chiunque tentasse di interferire magistratura o forze di polizia diveniva scomodo e veniva fermato in tutti i modi, leciti ed illeciti, fino alle azioni estreme".
Il pentito ha spiegato anche il modo con il quale venivano decretate le "azioni estreme per salvaguardare gli affari".
"La necessità era quella di verificare - dice - il grado di approvazione e di creare una zona di ostilità e discredito attorno alla vittima designata, come era stato fatto in passato per Scaglione, Costa e Terranova. Come fanno le belve feroci che studiano la tattica ben precisa e poi attaccano, mirando semplicemente ad un obiettivo, mirando ad un animale di quel branco e poi se lo sbranano".
Il complesso rapporto della mafia con il mondo imprenditoriale - ha sottolineato ancora l'ex boss - riguardava soprattutto le imprese del nord che avevano necessità di evitare che potesse essere "disturbato" da intuizioni o acquisizioni di magistrati impegnati".
di Giuseppe Martorana
L'ex boss di Caccamo, soprannominato "manuzza", ha anche aggiunto che dietro le stragi ci sarebbero stati poteri forti e occulti e anche "talpe" della mafia.
Giuffrè sostiene che delle indagini condotte dal Ros, Reparto operativo speciale, su mafia e appalti i boss vennero a conoscenza da subito "grazie - ha detto - a informatori che erano in contatto con Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Tra questi - ha aggiunto - si vociferava, quindi è da prendere con le pinze, dell'allora procuratore della Repubblica (Pietro Giammanco, ndr). Ricordo di avere sentito dire: meno male che ci abbiamo u dutturi Giammanco".
L'ex boss di Caccamo rivela anche, in maniera più precisa, la strategia di Cosa nostra. Rivela l'esistenza di "una articolata strategia preventiva attuata, di prassi, nel caso di azioni violente ai danni di personalità politiche o istituzionali" e tira in ballo il rapporto tra Cosa nostra e il mondo imprenditoriale come una delle principali cause che determinarono la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Bernardo Provenzano - sempre secondo quanto sostenuto da Giuffrè - avrebbe fatto un sondaggio tra politici, imprenditori e massoni "per cogliere lo stato d'animo e i possibili riverberi dell'uccisione dei due giudici".
Sia Falcone che Borsellino sarebbero stati interessati, con le loro indagini, a scoperchiare un certo modo di fare affari con gli appalti. "Un settore importante - ha continuato l'ex boss di Caccamo - e le indagini dei due giudici avrebbero potuto procurare effetti devastanti per gli interessi di Cosa nostra e degli altri protagonisti dell'economia che ruotano attorno agli appalti". Protagonisti che, sempre secondo il pentito "si identificano non solo in soggetti appartenenti al mondo dell'imprenditoria e della mafia, ma anche a quello della politica, sia a destra che a sinistra".
Alla base di tutto vi sarebbero stati "i guadagni". "Quando queste componenti vanno in fibrillazione - ha aggiunto l'ex boss - la cosa si fa pericolosa come una pentola a pressione che rischia di scoppiare se non si spegne il fuoco".
Interessi tra imprenditoria e Cosa nostra che il pentito fa risalire nel periodo tra il 1984 e il 1985, anni in cui sarebbe stata avviata quella che definisce una complessa ed articolata sinergia tra queste tre componenti al fine di far convergere gli interessi comuni.
In quel periodo fu Angelo Siino (anche lui poi passato nella schiera dei collaboratori di giustizia), uomo di fiducia di Totò Riina, ad orchestrare i vari interessati coinvolti creando un sistema, all'interno del quale la mafia assicurava alle imprese la possibilità di lavorare con una certa tranquillità e di contro partecipava alle attività volte a garantire la preordinata spartizione dei lavori tra le imprese prescelte. In quel periodo non ci sarebbero stati lavori pubblici che non fossero preparati a tavolino. Anche le imprese che giungevano da fuori Sicilia erano chiamate a mettere "le carte in regola". "Venivano con le idee chiare - ha precisato Giuffrè - conoscevano già quali erano i loro diritti e quali erano i loro doveri, già sapevano che dovevano presentarsi al responsabile locale, pagare quelle certe somme o comunque essere pronti a pagare, nessuno poteva sottrarsi, pena la morte".
Tale situazione sarebbe stata interamente gestita da Siino fino al 1987. In quell'anno Giuffrè partecipò a una riunione, presente Balduccio Di Maggio, dove Totò Riina si lamentò dell'operato di Siino, gestito da Balduccio di Maggio e dal "figlioccio" Giovanni Brusca. "In quella circostanza Riina trattò malissimo Di Maggio - ha spiegato Giuffrè - e tale sfuriata ebbe origine da una precedente contrapposizione tra Brusca e Provenzano". Iniziò da allora l'estromissione di Angelo Siino, almeno dagli appalti che superavano i cinque miliardi di lire "i quali dal 1990, 1991, venivano curati da un secondo tavolino che venne gestito prima da un fiduciario di Brusca e poi da Pino Lipari voluto da Bernardo Provenzano".
Giuffrè ha sottolineato anche l'importante ruolo dei politici: "In particolare dei vari assessori ai Lavori Pubblici, sia a livello regionale che comunale, a seconda del tipo e dell'importo degli appalti. Per garantire la preordinata spartizione dei lavori si predisponevano i bandi di gara in modo da garantire il risultato voluto. Un ingranaggio perfetto con il quale chiunque tentasse di interferire magistratura o forze di polizia diveniva scomodo e veniva fermato in tutti i modi, leciti ed illeciti, fino alle azioni estreme".
Il pentito ha spiegato anche il modo con il quale venivano decretate le "azioni estreme per salvaguardare gli affari".
"La necessità era quella di verificare - dice - il grado di approvazione e di creare una zona di ostilità e discredito attorno alla vittima designata, come era stato fatto in passato per Scaglione, Costa e Terranova. Come fanno le belve feroci che studiano la tattica ben precisa e poi attaccano, mirando semplicemente ad un obiettivo, mirando ad un animale di quel branco e poi se lo sbranano".
Il complesso rapporto della mafia con il mondo imprenditoriale - ha sottolineato ancora l'ex boss - riguardava soprattutto le imprese del nord che avevano necessità di evitare che potesse essere "disturbato" da intuizioni o acquisizioni di magistrati impegnati".
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