16 febbraio 2023 vince lo Stato di diritto
Società | 21 gennaio 2023
16 febbraio 2023. Dopo trenta anni di sconfitte e fallimenti, l’Italia è vincente; ha vinto lo Stato di diritto, ha vinto la Giustizia.
L’Italia ha mostrato che c’è uno Stato pronto a difendere la comunità; c’è lo Stato di diritto che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e della libertà dell’uomo.
La cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro è la dimostrazione più manifesta di questa realtà.
La cattura del boss, che ha posto fine alla sua lunga latitanza, ci induce a riflettere ed a credere che quei trenta anni trascorsi non possono certo definirsi intrisi di sconfitte e fallimenti da parte delle forze dell’ordine e degli organi inquirenti. Sono stati trenta anni pieni di lavoro faticoso, di sacrifici, di lontananza dai propri affetti familiari, perfino di pesanti limitazioni e condizionamenti nella vita sociale, a volte rimettendoci anche la propria esistenza. Decine e decine di uomini e donne delle forze dell’ordine che, insieme alla Procura della Repubblica di Palermo (formata da magistrati inquirenti di alto pregio i cui capi si sono avvicendati nel tempo) hanno speso la propria vita per questa causa: la cattura del boss. In quel lungo periodo tuttavia le forze dell’ordine coordinate dalla Procura della Repubblica, hanno compiuto centinaia di arresti: amici del boss, sodali, fiancheggiatori, parenti, fiduciari; è stata fatta terra bruciata intorno al latitante restringendo il cerchio fino ad arrivare all’obiettivo prefissato. Un plauso dunque alle forze dell’ordine ed alla Procura antimafia che hanno raggiunto l’obiettivo voluto mediante un’operazione altamente scientifica e strategica.
E tutto ciò avveniva mentre Matteo Messina Denaro conduceva la sua latitanza dorata come un comune cittadino della strada, senza che mai alcuno abbia avuto un minimo sospetto sulla sua vera identità. Eppure pare che abbia vissuto la propria vita di latitante nella sua cittadina o altri paesini delle provincie di Trapani ed Agrigento.
Matteo Messina Denaro (detto “u siccu”) si rende irreperibile nell’estate del 1993, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio e quelle, di Roma Firenze e Milano (del 1993/1994) che lui stesso aveva ordinato dopo l’arresto di Totò Riina (15 gennaio 1993).
Nondimeno buona parte dei suoi concittadini aveva la netta sensazione - o forse la certezza - che il boss fosse nascosto nel suo territorio e che godesse della complice copertura dei suoi fiancheggiatori.
Ebbene, al di là delle altre argomentazioni che abbiamo avuto modo di apprendere dalle innumerevoli trasmissioni televisive, invase da giornalisti, intellettuali, sociologi e quant’altro, personalmente credo che la prima concausa che ha consentito al boss di rendersi per tanto tempo irreperibile – in una situazione tutto sommato non del tutto indegna – sia stata la copertura offerta per devozione o per obbligo dai concittadini dei territori da lui frequentati.
E’ quella che il Procuratore Capo di Palermo, Maurizio De Lucia, ha correttamente chiamato “borghesia mafiosa” per indicare non certo agricoltori, contadini, pecorai ecc., quanto quello stato sociale e culturale che sta più in alto e che va ricercato fra i colletti bianchi, professionisti, pubblici dirigenti. Questa borghesia mafiosa è quella che si stringeva intorno al boss creando una sorta di cordone virtuale di protezione che gli garantiva l’incolumità, e l’assistenza quotidiana.
Il boss, per quanto si continua ad apprendere da notizie giornalistiche, viveva una vita lussuosa: vestiva capi griffati di lusso, collezionava costosissimi orologi e ne portava al braccio uno del valore di circa 35.000,00 euro (Franck Muller – platinum rotor). Nei suoi covi sono stati ritrovati denari, numerosi capi di abbigliamento, costosissimi profumi e financo pasticche azzurre e preservativi.
La vita del latitante era comunque cambiata: era divenuto un vero e proprio imprenditore che sfrontatamente amministrava le sue attività economiche con la collaborazione di fiduciari ai quali venivano intestate le proprie aziende. Cosicché, nel tempo ha potuto accumulare un grande tesoro costituito da attività aziendali ma anche di beni mobili ed immobili. Le Procure e i Tribunali interessati avranno ancora molto da lavorare per scovare ingenti parti di questo tesoro che ancora non è venuto alla luce.
Adesso l’obiettivo è stato raggiunto, il boss è stato catturato, la gente plaude e stringe le mani ai Carabinieri autori dell’operazione; un’operazione pulita ed altamente scientifica e condotta, con il massimo della prudenza, in un ambiente sovraffollato di medici infermieri, tecnici e pazienti.
Matteo Messina Denaro ha solo avuto il tempo di salire su un elicottero – dopo la passeggiata in un furgone fra le varie caserme per il disbrigo delle pratiche burocratiche – per essere condotto presso il supercarcere di massima sicurezza de’ L’Aquila, dove sarà osservato a vista in regime di 41 bis.
Questo non deve comunque condurci in errore pensando che, con la cattura dell’ultimo mafioso stragista, la mafia sia stata sconfitta. Quella del 16 febbraio 2023 è solo una grande vittoria di una guerra che durerà ancora a lungo. E’ vero però che si chiude una stagione: la stagione delle stragi e di quel che è rimasto di cosa nostra; ma se ne apre un’altra: una nuova lotta alla lotta alla criminalità organizzata, comunque essa verrà chiamata. E sarà tutta un’altra questione in funzione di se e quanto Matteo Messina Denaro deciderà di collaborare con le forze dell’ordine.
Riflettendo da osservatori dei fatti, credo che la vera vittoria dello Stato potrebbe verificarsi solo dopo un pentimento o un ripensamento del boss. Ma a condizione che le sue propalazioni siano veritiere ed attendibili. Dice giustamente Saverio Lodato (scrittore e giornalista, esperto conoscitore della storia della mafia) che lo Stato dovrebbe sapere che Matteo Messina Denaro è la gallina dalle uova d’oro, perché sa tutto e potrebbe rispondere a tutte le domande che il mondo intero potrebbe rivolgergli. Sicuramente potrebbe dirci dov’è l’agenda rossa di Paolo Borsellino; dove sono finiti i documenti che Totò Riina teneva ben custoditi nell’appartamento da lui abitato con la famiglia in via Bernini a Palermo; dove sono finiti i soldi che non sono stati trovati all’indomani degli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano; in quale parte della Sicilia sono finiti i 200 chili di tritolo che sarebbero serviti per fare saltare in aria il Giudice più scortato e più a rischio d’Italia, Nino Di Matteo perché diceva Riina che a quel giudice bisognava fargli fare la fine del tonno.
Noi vogliamo essere ottimisti e pensare che l’ex latitante, magari spinto dalla considerazione del suo precario stato di salute che certamente non gli propone una lunga prospettiva di vita e spinto anche dalla insopportabile vita carceraria resa ancor più dura dal 41 bis (il boss non è abituato alla restrizione in cella; nella sua vita non ha mai provato il carcere, non ha mai scontato un solo giorno di prigionia), voglia mettersi a disposizione collaborando con gli inquirenti e consegnando allo Stato il racconto della sua storia accompagnata dal racconto di tutte le complicità da lui stesso vissute e soprattutto quelle che riguardano la trattativa fra Stato e mafia.
Voglio chiudere solo formulando un auspicio: che l’attuale Governo, pago del risultato testé ottenuto, voglia seriamente occuparsi della riforma della Giustizia prendendo le dovute distanze da quel Ministro che improvvidamente sostiene che non servono le intercettazioni perché i mafiosi non parlano a telefono. E invece la cattura di Matteo Messina Denaro è la dimostrazione più lampante che senza le intercettazioni l’obiettivo non sarebbe stato raggiunto. E mi auguro inoltre che questo Governo faccia di tutto per fare scomparire lo scempio della riforma Cartabia sbocciata dalla penna
di Elio Collovà
L’Italia ha mostrato che c’è uno Stato pronto a difendere la comunità; c’è lo Stato di diritto che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e della libertà dell’uomo.
La cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro è la dimostrazione più manifesta di questa realtà.
La cattura del boss, che ha posto fine alla sua lunga latitanza, ci induce a riflettere ed a credere che quei trenta anni trascorsi non possono certo definirsi intrisi di sconfitte e fallimenti da parte delle forze dell’ordine e degli organi inquirenti. Sono stati trenta anni pieni di lavoro faticoso, di sacrifici, di lontananza dai propri affetti familiari, perfino di pesanti limitazioni e condizionamenti nella vita sociale, a volte rimettendoci anche la propria esistenza. Decine e decine di uomini e donne delle forze dell’ordine che, insieme alla Procura della Repubblica di Palermo (formata da magistrati inquirenti di alto pregio i cui capi si sono avvicendati nel tempo) hanno speso la propria vita per questa causa: la cattura del boss. In quel lungo periodo tuttavia le forze dell’ordine coordinate dalla Procura della Repubblica, hanno compiuto centinaia di arresti: amici del boss, sodali, fiancheggiatori, parenti, fiduciari; è stata fatta terra bruciata intorno al latitante restringendo il cerchio fino ad arrivare all’obiettivo prefissato. Un plauso dunque alle forze dell’ordine ed alla Procura antimafia che hanno raggiunto l’obiettivo voluto mediante un’operazione altamente scientifica e strategica.
E tutto ciò avveniva mentre Matteo Messina Denaro conduceva la sua latitanza dorata come un comune cittadino della strada, senza che mai alcuno abbia avuto un minimo sospetto sulla sua vera identità. Eppure pare che abbia vissuto la propria vita di latitante nella sua cittadina o altri paesini delle provincie di Trapani ed Agrigento.
Matteo Messina Denaro (detto “u siccu”) si rende irreperibile nell’estate del 1993, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio e quelle, di Roma Firenze e Milano (del 1993/1994) che lui stesso aveva ordinato dopo l’arresto di Totò Riina (15 gennaio 1993).
Nondimeno buona parte dei suoi concittadini aveva la netta sensazione - o forse la certezza - che il boss fosse nascosto nel suo territorio e che godesse della complice copertura dei suoi fiancheggiatori.
Ebbene, al di là delle altre argomentazioni che abbiamo avuto modo di apprendere dalle innumerevoli trasmissioni televisive, invase da giornalisti, intellettuali, sociologi e quant’altro, personalmente credo che la prima concausa che ha consentito al boss di rendersi per tanto tempo irreperibile – in una situazione tutto sommato non del tutto indegna – sia stata la copertura offerta per devozione o per obbligo dai concittadini dei territori da lui frequentati.
E’ quella che il Procuratore Capo di Palermo, Maurizio De Lucia, ha correttamente chiamato “borghesia mafiosa” per indicare non certo agricoltori, contadini, pecorai ecc., quanto quello stato sociale e culturale che sta più in alto e che va ricercato fra i colletti bianchi, professionisti, pubblici dirigenti. Questa borghesia mafiosa è quella che si stringeva intorno al boss creando una sorta di cordone virtuale di protezione che gli garantiva l’incolumità, e l’assistenza quotidiana.
Il boss, per quanto si continua ad apprendere da notizie giornalistiche, viveva una vita lussuosa: vestiva capi griffati di lusso, collezionava costosissimi orologi e ne portava al braccio uno del valore di circa 35.000,00 euro (Franck Muller – platinum rotor). Nei suoi covi sono stati ritrovati denari, numerosi capi di abbigliamento, costosissimi profumi e financo pasticche azzurre e preservativi.
La vita del latitante era comunque cambiata: era divenuto un vero e proprio imprenditore che sfrontatamente amministrava le sue attività economiche con la collaborazione di fiduciari ai quali venivano intestate le proprie aziende. Cosicché, nel tempo ha potuto accumulare un grande tesoro costituito da attività aziendali ma anche di beni mobili ed immobili. Le Procure e i Tribunali interessati avranno ancora molto da lavorare per scovare ingenti parti di questo tesoro che ancora non è venuto alla luce.
Adesso l’obiettivo è stato raggiunto, il boss è stato catturato, la gente plaude e stringe le mani ai Carabinieri autori dell’operazione; un’operazione pulita ed altamente scientifica e condotta, con il massimo della prudenza, in un ambiente sovraffollato di medici infermieri, tecnici e pazienti.
Matteo Messina Denaro ha solo avuto il tempo di salire su un elicottero – dopo la passeggiata in un furgone fra le varie caserme per il disbrigo delle pratiche burocratiche – per essere condotto presso il supercarcere di massima sicurezza de’ L’Aquila, dove sarà osservato a vista in regime di 41 bis.
Questo non deve comunque condurci in errore pensando che, con la cattura dell’ultimo mafioso stragista, la mafia sia stata sconfitta. Quella del 16 febbraio 2023 è solo una grande vittoria di una guerra che durerà ancora a lungo. E’ vero però che si chiude una stagione: la stagione delle stragi e di quel che è rimasto di cosa nostra; ma se ne apre un’altra: una nuova lotta alla lotta alla criminalità organizzata, comunque essa verrà chiamata. E sarà tutta un’altra questione in funzione di se e quanto Matteo Messina Denaro deciderà di collaborare con le forze dell’ordine.
Riflettendo da osservatori dei fatti, credo che la vera vittoria dello Stato potrebbe verificarsi solo dopo un pentimento o un ripensamento del boss. Ma a condizione che le sue propalazioni siano veritiere ed attendibili. Dice giustamente Saverio Lodato (scrittore e giornalista, esperto conoscitore della storia della mafia) che lo Stato dovrebbe sapere che Matteo Messina Denaro è la gallina dalle uova d’oro, perché sa tutto e potrebbe rispondere a tutte le domande che il mondo intero potrebbe rivolgergli. Sicuramente potrebbe dirci dov’è l’agenda rossa di Paolo Borsellino; dove sono finiti i documenti che Totò Riina teneva ben custoditi nell’appartamento da lui abitato con la famiglia in via Bernini a Palermo; dove sono finiti i soldi che non sono stati trovati all’indomani degli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano; in quale parte della Sicilia sono finiti i 200 chili di tritolo che sarebbero serviti per fare saltare in aria il Giudice più scortato e più a rischio d’Italia, Nino Di Matteo perché diceva Riina che a quel giudice bisognava fargli fare la fine del tonno.
Noi vogliamo essere ottimisti e pensare che l’ex latitante, magari spinto dalla considerazione del suo precario stato di salute che certamente non gli propone una lunga prospettiva di vita e spinto anche dalla insopportabile vita carceraria resa ancor più dura dal 41 bis (il boss non è abituato alla restrizione in cella; nella sua vita non ha mai provato il carcere, non ha mai scontato un solo giorno di prigionia), voglia mettersi a disposizione collaborando con gli inquirenti e consegnando allo Stato il racconto della sua storia accompagnata dal racconto di tutte le complicità da lui stesso vissute e soprattutto quelle che riguardano la trattativa fra Stato e mafia.
Voglio chiudere solo formulando un auspicio: che l’attuale Governo, pago del risultato testé ottenuto, voglia seriamente occuparsi della riforma della Giustizia prendendo le dovute distanze da quel Ministro che improvvidamente sostiene che non servono le intercettazioni perché i mafiosi non parlano a telefono. E invece la cattura di Matteo Messina Denaro è la dimostrazione più lampante che senza le intercettazioni l’obiettivo non sarebbe stato raggiunto. E mi auguro inoltre che questo Governo faccia di tutto per fare scomparire lo scempio della riforma Cartabia sbocciata dalla penna
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