Se l'odissea comincia nella propria patria...
Alcuni scrittori latinoamericani meritano una corsa in libreria, quando c'è in giro un loro nuovo romanzo. Hanno studiato e amato i grandi di quelle latitudini, le lezioni dei Vargas Llosa, dei Rulfo, dei Cortazar, dei Garcia Marquez, ma guardano oltre, in modo nuovo, che non significa innocuo o rassicurante. Di questo manipolo fanno parte Juan Gabriel Vasquez (“Il rumore delle cose che cadono, Ponte alle Grazie, o “Le reputazioni”, Feltrinelli), Andres Neuman (“Il viaggiatore del secolo”, Ponte alle Grazie, O “Le cose che non facciamo”, Sur), Rodrigo Hasbùn (“Andarsene, Sur”), Alejandro Zambria (“I miei documenti”, Sellerio), Paz Soldàn (“Rio fugitivo”, Fazi) e Santiago Gamboa. Colombiano ma cosmopolita, colto e pop, Gamboa – che ha vissuto a lungo in Italia – è stato rilanciato dalle edizioni e/o, dopo la poca fortuna delle sue prime traduzioni presso Guanda.
Dopo il caleidoscopico “Morte di un biografo” e lo struggente “Preghiere Notturne”, il suo ultimo volume, “Una casa a Bogotà” (204 pagine, 17 euro), con traduzione affidata all'ispanista Raul Schenardi, è il viaggio intimissimo dell'autore – probabilmente nascosto, o no, nel filologo protagonista, che compera per sé e per l'amata zia che l'ha cresciuto, una confortevole casa a tre piani a Chapinero, il quartiere dell'infanzia a Bogotà – la fine di un'odissea di un uomo che ha molto viaggiato e che continua la propria odissea in patria, tra memoria e radici, tra il ricordo dei genitori perduti e quell’area rarefatta di Bogotà.
Ogni camera della nuova abitazione è l'occasione per rievocare aneddoti, figure, per riscoprire gli angoli della sua città, la capitale colombiana, in particolare grazie ad Abudio, il fedele autista. Tra le pieghe della nostalgia, delle tante storie e delle decine di mondi – droga, sesso, mistero, politica e salotti – che costituiscono Bogotà, tra qualche verità difficile da accettare e un segreto sepolto in un baule, c'è spazio abbondante per una continua riflessione su scrittura e lettura, e non è un caso che la casa del filologo accolga decine di migliaia di libri. Come spesso accade in Gamboa leggibilità e qualità coesistono, senza che nemmeno per un attimo venga meno l'una o l'altra. Le vette dei due precedenti romanzi, però, stavolta non si toccano. Sarà colpa dell'autofiction, “Morte di un biografo” e “Preghiere notturne” ne erano meno infetti. Chi finirà “Una casa a Bogotà” e nutre qualche dubbio su Gamboa se li procuri.
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