Francesco Paolo Pipitone vittima innocente di mafia
Succede che diverse convergenze – utilmente coincidenti – si armonizzano per dare vita ad una Manifestazione, oltre che di interesse, di notevole utilità per consegnare a dei giovani un esempio di impegno, dedizione, attitudine alla libertà. Insomma una storia di ordinario eroismo per affermare, in ogni tempo e contesto, il senso più alto dell’umanità.
Francesco Paolo Pipitone, un agricoltore del paese di Altofonte, tristemente noto per il dominio di una famiglia mafiosa tra le più potenti e violente del dopoguerra – i Brusca – prova a sfuggire alle spire della rassegnazione al sottosviluppo lavorando, oltre che per migliorare il suo bagaglio culturale e in questo modo anche la sua piccola azienda agricola, per organizzare gli agricoltori e dare loro strumenti necessari per sostenere il loro lavoro, come una piccola Banca vicina al territorio che, evidentemente, dava fastidio ai mafiosi da sempre fautori dell’individualismo e della disgregazione sociale.
Pipitone muore per difendere questa Banca – con il gesto che il suo temperamento generoso gli ha suggerito, ossia opponendosi ad una rapina – non la prima – eseguita da malviventi autorizzati dai boss locali.
Qui si ferma la verità giudiziaria, anche se la lettura della carte processuali lasciano intendere una verità storica ben più significativa, quella di un uomo, di un organizzatore sociale incompatibile o, quanto meno, ostacolo di un sistema di gestione socio-economica del territorio.
Ricordiamo che è estremamente significativo il fatto provato che i Brusca si opporranno alla realizzazione della strada a scorrimento veloce Palermo – Sciacca - non a caso realizzata con enorme ritardo e solo in una stagione di rinnovata mobilitazione del movimento antimafia.
La resistenza dei boss alla realizzazione di questa importante opera pubblica era data dal fatto che questa arteria, ancorché non del tutto adeguata per qualità ingegneristiche, comunque attraversando le valli Jatine, poteva rompere l’isolamento “dorato” di quello che è stato il regno incontrastato della potente cosca mafiosa dei Brusca di San Giuseppe Jato, con i loro sodali di San Cipirello, Monreale, Altofonte, Piana degli Albanesi, Santa Cristina Gela, Camporeale, Roccamena fin alle porte di Corleone, roccaforte dei dominatori della cosa nostra siciliana, e verso la direttrice del palermitano, con i numerosi paesi situati in direzione dell’agrigentino e quella del trapanese con Borgetto, Partinico, Giardinello e Montelepre.
E, infatti, caratteristica ricorrente degli assassinii di mafia il fatto che, pur in presenza di un casus belli specifico, esistono, di norma, delle motivazioni più generali che consigliano i boss ad intervenire direttamente per eliminare - o ad autorizzarne e consentirne l’eliminazione - di un ostacolo che, ancorché di modeste dimensioni, può rappresentare una sorta di sasso tra gli ingranaggi i cui effetti possono essere, almeno in prospettiva, imprevedibili.
In questo contesto cade la vittima innocente di mafia Francesco Paolo Pipitone che – va detto senza volere muovere critiche a nessuno – vive una lunga stagione di oblio, in parte determinata dalle oggettive difficoltà delle indagini in un complesso quadro investigativo, ma, probabilmente, anche dal fatto di essere semplicemente un uomo che ha ascoltato – probabilmente senza conoscerlo – l’invito sommesso di Padre Puglisi – altra vittima innocente in terra di mafia – “…e se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto”.
Solo la determinazione di chi ha seguito nel tempo la triste vicenda – a partire dalla famiglia – e importanti risultanze processuali accumulatesi nel tempo, hanno consegnato al ricordo dei suoi cari, come alla storia migliore della Sicilia, quella dei suoi figli che si sono immolati per liberare i loro territori dal giogo mafioso.
Eroi involontari – come Francesco Paolo Pipitone –che desideravano solo una vita migliore per la sua famiglia e per tutti quelli che condividevano – e condividono ancora - una terra meravigliosa, ma che l’egoismo e la prepotenza di alcuni sanno rendere dura e amara.
Ai ragazzi palermitani il messaggio edificante di fare di tutto per non essere parte di una storia di rassegnazione ai poteri criminali, ma di perseguire il riscatto della propria terra per un futuro di giusto benessere nella libertà, sulle orme di Francesco Poalo Pipitone, di Pino Puglisi e di altri martiri – più o meno noti – ma tutti meritevoli di uguale riconoscimento morale.
Anche ai ragazzi aquilani un esempio dalla Terra di Sicilia, proprio in questi giorni in cui ricordano, con tutto il Paese, la tragedia del terremoto del 2009 che ha distrutto la loro città e mietuto tante vittime innocenti che – appare sempre più chiaro –potevano essere salvate se la corruzione dilagante a tutti i livelli non avesse creato i presupposti per una distruzione generalizzata, certamente andata ben oltre la drammatica fatalità di un evento naturale.
Ma a proposito di criminalità mafiosa e politico-affaristica, i ragazzi dell’Aquila – come altri di altre parti d’Italia incontrati in Sicilia nei viaggi responsabili di Solidaria – non a caso definiti “tra il dovere della memoria e l’impegno per un’antimafia sociale” – possono su quanto capitato nella loro città, successivamente al sisma, quando lo sfruttamento criminale - a tutti i livelli - di una improvvida ricostruzione, ha abusato e calpestato perfino della tragedia di una Comunità dolente.
Quindi, ancora per loro – come per i tanti amici e amiche di tutte le parti d’Italia guidati da Solidaria in Sicilia nei luoghi della devastazione mafiosa che c’era e resiste ancora, ma anche del riscatto, mai domo in tutta l’Isola – l’invito ad essere vigili ed artefici del proprio presente esprimendo un protagonismo attivo nel loro territorio.
Questo viaggio - con l’incontro con realtà e testimoni di una lunga stagione di lotta, mai conclusa, ma anche con altri giovani di questo nostro tempo – vuole recuperare l’idea del viaggiatore che guarda l’apparenza delle situazioni, ma senza trascurare quanto sta sempre dietro ogni frontale, spesso occultato dalle nebbie degli stereotipi, dei luoghi comuni interessati, dei lustrini vuoti.
Guardare senza mai rinunciare a comprendere e ad esercitare una capacità critica che se ben alimentata può servire ben oltre il viaggio perché ci troviamo sempre di fronte a storie di vita vissute in cui non si sono messi solo i passi e gli occhi, ma l’intelligenza, la sensibilità - e perché no – i sentimenti.
Il viaggio come modo di sperimentare il proprio essere persona nel gruppo, ma anche la capacità di aprirsi ad altri compagni di strada, anche occasionali, per scoprire - da Palermo all’Aquila, da Lampedusa a Milano e anche molto oltre - un sentire comune, come un comune destino che può essere di libertà nella dignità, solo se lo si vuole.
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