Basta ai blasfemi rituali della mafia

Società | 15 marzo 2015
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Mafia: in Sicilia, in passato, associazione segreta che non osserva la legge: si è creduto dall' arabo mahias , "spacconeria"; forse meglio, col fiorentino maffia, "miseria", da un nome personale femminile antonomastico, Maffia, per il quale si rimanda alla voce matto». Non so se le cose stiano ancora, a livello filologico, così come le proponeva nel 1961 Dante Oliveri nel suo Dizionario etimologico italiano , edito da Ceschina.
Sta di fatto che è certamente smentito quell' inciso "in passato" perché, come una serpe dalle mille vite, la mafia «associazione segreta che non osserva la legge» continua a vivere, pur mutando la pelle a più riprese, perdendo un po' di carne e assumendo nuove specie (le recenti vicende capitoline ne sono un esempio).
Naturalmente alla ricerca e all' analisi di questo fenomeno si sono consacrati da tempo magistrati, scrittori, sociologi, psicologi, filosofi, politici, ecclesiastici con esiti differenti. È indubbio, comunque, che alla radice si può individuare una trilogia di componenti che ogni organizzazione criminale detesta e calpesta: il diritto, la giustizia, la legalità. È con questa terna lessicale che s' intitola una mini-raccolta di saggi (non per nulla la collana è denominata per assonanza "Saggine"), destinata a incarnare tipologie diverse di osservatori e persino attori all' interno di questo orizzonte oscuro e spesso striato di sangue (Cortile dei Gentili, Diritto Giustizia Legalità , a cura di Antonino Raspanti, Donzelli, Roma, pagg. 92, € 17,00).. Dico "attori" nel senso positivo del termine perché si tratta di tre magistrati che nella lotta a viso aperto alla pluralità polimorfa delle mafie hanno dedicato e dedicano il loro impegno personale e professionale: parliamo di Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica a Roma, Michele Prestipino, procuratore aggiunto a Roma, e Giusto Sciacchitano, procuratore nazionale antimafia.
Ma, accanto a loro, nel dialogo si accostano tre "osservatori" di grande acutezza e notorietà: c' è, infatti, un filosofo di rilievo internazionale come Rémi Brague che interloquisce con un importante giurista, François Terré, e con una delle più competenti studiose della realtà mafiosa, Alessandra Dino. Il confronto corale di queste voci avviene all' interno di un particolare spazio simbolico che è quello del Cortile dei Gentili , un' esperienza voluta da papa Benedetto XVI e sostenuta dal dicastero vaticano della cultura. Come forse è già noto, con questa denominazione ci si riferisce a uno spazio libero del tempio di Gerusalemme al quale potevano accedere anche i pagani, le gentes, i "gentili", considerati atei dagli Ebrei di allora. Era, quindi, un iniziale orizzonte di dialogo, sia pure minimale, al di fuori dell' autoreferenzialità del Tempio e del Palazzo, nel "cortile" appunto, a cielo aperto ove tutti sono spalla a spalla e ciascuno desidera incrociare ( dià -) il proprio lógos in un "dialogo" con quello dell' altro.
In realtà questi interventi - che a prima vista sembrano appartenere a uno stereotipo etico-giuridico dibattuto all' infinito tanto da rischiare di uscire dagli occhi, come è accaduto per la diatriba sul nesso tra etica ed economia - hanno una sorta di filo rosso molto originale e persino curioso. Si tratta dell' esame della contiguità tra sacro e criminale, un fenomeno registrato già dai profeti biblici che lo condannavano con veemenza. Lapidaria è, al riguardo, una frase che Isaia mette in bocca a Dio: «Non posso sopportare delitto e solennità» (1,13). E il discorso divino è molto articolato giungendo al punto di denunciare come farsa sgradevole la ritualità del criminale, la sua preghiera ipocrita, le sue false devozioni, perché ben altro è il culto che Dio si attende: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia» (1,16-17).
La religiosità dei mafiosi ignora questo che è il cuore della vera fede e, senza imbarazzo - come ricorda Prestipino, che del tema è un grande esperto (potremmo dire " in corpore vili ") - si giunge al paradosso per cui «un killer di Cosa Nostra, ogni volta che gli ordinavano di commettere un omicidio, prima si recava in Chiesa e pregava s. Rosalia perché lo proteggesse e perché l' azione andasse a buon fine e, dopo averla commessa, tornava dalla santa per ringraziarla del buon esito dell' azione». Queste degenerazioni blasfeme e idolatriche si sono trasformate in un vero e proprio culto perverso tra i "narcos" del Messico con la venerazione della " Santa Muerte ", modellato sulla popolare Vergine di Guadalupe. Da noi le esemplificazioni sono più immediate, come attestano i "pizzini" religiosi (sic!) di Bernardo Provenzano offerti in queste pagine o come si scopre attraverso gli altarini, i vari santini, persino le Bibbie e i testi spirituali ritrovati nei covi o nei bunker dei mafiosi.
In realtà si tratta di una deformazione religiosa in cui la Chiesa deve ora porsi - e lo fa anche sotto lo stimolo delle staffilate di Giovanni Paolo II o di papa Francesco e delle testimonianze di figure come don Pino Puglisi - in antitesi assoluta a questa che è in realtà irreligiosità e ipocrisia blasfema, divenendo una costante spina nel fianco di ogni forma mafiosa. Questa scelta può essere anche una catarsi per certe connivenze del passato quando alcuni vescovi in anni di guida pastorale di una diocesi non osavano pronunciare mai la parola "mafia" o "'ndrangheta" o "camorra", oppure quando parroci, come ricorda Alessandra Dino nel suo saggio, ai funerali di un capo-mafia non esitavano ad appellare alla «giustizia divina, la sola che non sbaglia e alla quale nessuno può sottrarsi e raccontare il falso, mentre quella terrena può commettere grandi errori». Come sottolinea Pignatone, la religiosità mafiosa sfrutta «il legame esistente tra la Chiesa e larghi strati delle popolazioni dell' Italia meridionale» adottandolo come «sovrastruttura permanente attraverso cui camuffare la reale essenza dell' organizzazione» basata sulla violenza, l' ingiustizia, l' illegalità, ossia sull' esatto opposto della triade da cui siamo partiti e che dà il titolo alla raccolta.
È, perciò, significativo che ad alto livello e in collaborazione con lo Stato italiano - attraverso appunto il Cortile dei Gentili - la Chiesa cattolica apra un dibattito sulle mafie, perché si proceda insieme, credenti e non credenti, nella liberazione dai tentacoli di un abbraccio che non è liturgico e fraterno, ma criminale e mortale. È ciò che sottolineano con forza sia il procuratore Sciacchitano, sia il vescovo di Acireale Antonino Raspanti nella sua intensa e acuta "presentazione" che cita con forza una battuta della Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini: «Non ogni uomo è uomo.
Uno perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto genere umano, ma quello soltanto del perseguitato», dell' ucciso, dell' affamato, della vittima.(Il Sole 24 Ore)
 di Gianfranco Ravasi.

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