Un fiore per ricordare l'eccidio di Portella della Ginestra

Società | 23 maggio 2020
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Ricordare le vittime delle stragi di Capaci e Via D'Amelio lì dove la ribellione alla tirannia della mafia è iniziata, tra le rocce pizzute e solenni di Portella della Ginestra, intorno a quel sasso di Barbato dove il 1 maggio del 1947, 11 lavoratori furono uccisi e 27 persone ferite per aver chiesto diritti negati dal latifondismo. È l'iniziativa dell'associazione “Portella della Ginestra”, presieduta da Serafino Petta, sopravvissuto alla strage. Alle 20 di oggi Petta deporrà un mazzo di fiori in memoria delle vittime delle stragi di Capaci e Via D'Amelio e leggerà i loro nomi. Poi, alle 21, lungo il memoriale di Portella, l'accensione per la prima volta di un impianto di illuminazione straordinaria. Un gesto per ricordare quella ferita inferta alla Sicilia il 23 maggio del 1992, quando in un cratere profondo 3 metri e largo 13 creato da quella che venne definita “tecnica libanese”, la mafia uccise Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, insieme agli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo.

 “Abbiamo scelto di ricordare le vittime delle stragi di Capaci e Via D'Amelio a Portella della Ginestra perché siamo debitori nei confronti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e perché le stragi politico – mafiose nascono a Portella”. Così Francesco Petrotta, autore di diversi libri sul banditismo e la prima strage di Stato. “C'è un filo rosso che lega Portella a Capaci – prosegue lo studioso – a Piana degli Albanesi c'era allora un movimento antimafia fortissimo che voleva cacciare i mafiosi dalle campagne”. Battaglie intraprese qualche anno dopo anche da Pio La Torre con lo slogan “La terra a tutti” e che gli costarono un anno di carcere per aver chiesto la confisca delle terre incolte e l'assegnazione in parti uguali a tutti i contadini che ne avessero bisogno. “Lo Stato, sia nel 1914, che nel 1921 e nel '47 non parteggiava col movimento antimafia – continua Petrotta – anzi, l'allora comandante dei Carabinieri di Piana, Lucio Portera, nel giorno in cui sparavano alla folla di lavoratori era a banchettare coi mafiosi. Durante il processo di Viterbo la mafia aiuterà Portera a fuggire negli Usa”. Nello specifico, l'incontro del 1 maggio si era tenuto nella masseria del capomafia Giuseppe Riolo, come ricostruito anche dallo scrittore Giuseppe Casarubbea nel suo '“Fra Diavolo” e il governo nero': “Se le forze dell'ordine abbassano la guardia – scrive Casarubbea - i mafiosi sono mobilitati e precostituiscono alibi incontrovertibili”. 

A sparare sulla folla a Portella è il bandito Giuliano “uomo d'onore a disposizione della mafia di Piana degli Albanesi – sottolinea Petrotta – che esegue gli ordini di cosa nostra, come rivelato da Pisciotta, Buscetta e altri pentiti, e come emerso da documenti dei servizi segreti americani. Purtroppo gli atti del processo istruttorio su Portella con gli interrogatori a Pisciotta sono introvabili”. Altre verità parziali e negate che legano in un filo rosso quell'altipiano alla strage di Capaci e che oggi saranno ricordate, nel nome delle vittime.

 di Antonella Lombardi

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