Il silenzio dei giorni antichi per comprendere come cambia la società

Cultura | 16 luglio 2021
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Il silenzio dei giorni è un’opera prima. La scrittrice è una giornalista siciliana che a maggio è arrivata in libreria con il suo romanzo d’esordio, per Ianieri edizioni. Quelli raccontati da Rosa Maria Di Natale sono giorni antichi, rimasti muti per moltissimi anni. La storia ha i contorni di un caso di cronaca realmente avvenuto in provincia di Catania, negli anni Ottanta. Nel libro il paesino di Giarre diventa Giramonte e Matteo e Saverio hanno le sembianze di Giorgio e Toni, due ragazzi finiti assassinati perché ritenuti diversi, omosessuali. 

Il racconto è una confessione e viene da Peppino Giunta, il fratello minore. Nelle sue parole Saverio è come disegnato, con un tratto delicatissimo di matita. Il tono è dapprima intimo e flebile, pagina dopo pagina comincia però a trovare l’impeto e la forza della narrazione. E ripercorre le strade di ieri, vi si inabissa mentre descrive Giramonte: la piazza è luogo di socialità, presidiato da regole che nessuno dice a voce alta, perciò stesso inviolabili; la cucina è regno unico e indiscusso della madre “sempre intenta a sparecchiare”.

L’istantanea spiega dinamiche ataviche: il tempo fermo della casa consente alle donne di compiere il gesto di nutrire, ma pretende presto che i piatti lascino il posto alle riflessioni che sono appannaggio degli uomini. Michele Giunta è uno di quelli all’antica, un patriarca, violento anche nei gesti oltre che nelle parole, è un padre che Peppino non contraddice, che teme. Il libro ci dirà che è un padrone che Peppino non stima e che forse, in fondo, nemmeno ama.

Attorno ai figli e alla moglie il capo famiglia disegna confini, entro cui li relega, privandoli della libertà e persino del confronto, nell’assolutezza di un monologo che, come tale, non prevede interventi. Scorrono in una notte i ricordi di bambino che, per decenni, il lutto aveva ricacciato in gola. Peppino descrive una comunità patriarcale, dove la virilità è sinonimo di forza e basta ad escludere il resto, spacciandolo per debolezza, come fosse il peggiore dei mali.

Ma nel bel mezzo di quel quadro fisso il lettore scorge qualcosa che crea movimento. È Saverio, un ragazzo curioso che sogna di vedere il mare della Plaja e Catania, la città nera di lava. Per Peppino sono tentazioni e vanno bandite, allontanate, la libertà non esiste, se non come grumo soffocato in gola.



La vita scorre a Giramonte. Il protagonista la riavvolge e fa la prova del racconto che consegna come confidenza al caporedattore, molti anni dopo, al giornale in cui lavora. Echi distanti, ma anche incredibilmente attuali: la carne come privilegio dei maschi, l’esercizio di un potere che fa presto a diventare violenza. Donne come sante, le madri, e donne come puttane, quelle buone per lo sfogo dei padri. E, tutto attorno, il futuro. Quei figli, bloccati all’interno di una bolla, immobilizzati da regole dettate da altri: senza via d’uscita, altrimenti tutto crolla e l’equilibrio si sfascia, come cristallo che si fa in mille pezzi.

Ecco che però i conti possono non tornare e non tornano: sarà proprio Saverio a frantumarle quelle regole, il ragazzo non ci sta e cerca un orizzonte che immagina esistere, che gli basta intuire. Stringe presto una relazione con Matteo ed è a quel punto che la storia si avvia verso la tragedia.

L’ombra dell’omosessualità è una macchia a Giramonte che bisogna cancellare, a costo di coprire la vergogna con la malattia. Saverio e Matteo come Giorgio e Toni, i due ragazzi massacrati a Giarre, nella vita vera che troppo spesso è assai peggio delle più orribili fantasie.


Oggi come ieri l’odio per la diversità, la discriminazione, la segregazione, mietono vittime che la società cosiddetta civile fa fatica a vedere ma che, infine, accetta e archivia, svogliata. Il disegno di legge ZanMisure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” è merce per cui ancora in questi giorni si combatte. Fra i nemici veri e il fuoco amico di quanti si dividono in mille rivoli, assistiamo da mesi a divergenze, molte delle quali, perlopiù ideologiche, sfiancano e rischiano di fare il gioco degli altri. A chi si batte per quella legge bisognerebbe, forse, chiedere perché lo fa. Con tutta probabilità ci risponderebbe che lo fa perché non ci siano più schiavi, marchiati a sangue per scelte intime e assolutamente personali. E perché non ci siano più padroni, di scelte altrui.

Il lavoro di Rosa Maria Di Natale è perciò un romanzo importante, un libro spartano che libera parole e richiama riflessioni, attribuisce responsabilità. Ci dice che il dolore dei morti uccide anche i vivi e che però avvicina, che rende umani, restituisce le lacrime e lava via il pudore, affinché non ci sia più vergogna. 

Il libro sarà presentato mercoledì 21 luglio alle ore 18,30 nella piazzetta Bagnasco a Palermo. Sarà presente l’autrice accompagnata dalla giornalista Elvira Terranova e dallo scrittore Fabrizio Escheri. L’evento è organizzato dalla Libreria Mondadori Point di via Mariano Stabile.


La lingua è una questione politica

Il 2021 per certi versi è anno di raccolta, sembra il frutto benedetto di una semina avvelenata che la pandemia ha imposto senza preavviso. E così a marzo esce anche Lingua e Essere, di Kübra Gümüşay, per Fandango Libri. La giornalista tedesca, di origini turche, è tradotta in Italia da Lavinia Azzone. Duecento pagine ricchissime, traboccanti di citazioni e di note.

Come per un gioco di specchi, mentre Di Natale inquadra il silenzio dei giorni, al centro di questo volumetto c’è la parola: “Che cosa è venuto prima, la nostra lingua o la nostra percezione?”. Su questa domanda l’intero testo si avvita e da subito raccoglie storie, spunti, voci, da ogni parte del mondo. “Perché la lingua modifica la nostra percezione.
Dal momento che conosco la parola, percepisco ciò che essa denomina”: l’esempio perfetto è la lingua dei Thaayorre, un popolo del Nord dell’Australia. Non ci sono termini per indicare destra e sinistra, al loro posto quella gente usa i punti cardinali. L’autrice si domanda allora cosa accadrebbe se parlassimo una lingua simile al Kuuk Thaayorre “che continuamente ci ricorda che non siamo che un puntolino su una mappa gigantesca”. Avremmo un rigurgito di consapevolezza e un prevedibile recupero di umiltà.

Con grande modernità il saggio di Gümüşay coglie il punto e si avventura su terreni impervi e battuti da troppo, come quelli di una lingua usata per spacciare il maschile per neutro. Con Luise F. Pusch, cofondatrice della linguistica femminile, si chiede (e ci chiede): “Se non si intendono né i maschi né le femmine, perché allora non decidere di usare semplicemente la forma femminile? Se a indicare la professione fosse la parola professoressa, sarebbe comunque possibile affermare che si intendono tutti coloro che insegnano?”. Con l’esperimento viene fuori, cristallino, ciò che la giornalista intende quando si riferisce all’insufficienza del maschile generico.

Il saggio ha il pregio di definire una priorità: dobbiamo occuparci dell’architettura della lingua che deve registrare la nostra realtà, per capire chi siamo, per vedere di volta in volta chi sono gli altri. Limiti e consapevolezza, umiltà e stimolo: quella della lingua è una questione politica, delimita il mondo, lo circoscrive, lo comprime, ma può anche distenderlo all’infinito.

La storia della musicista Onejiru è di quelle esemplari: “Il tedesco che ha imparato dopo essere emigrata è la lingua della libertà. In essa ha scoperto la sessualità e ha imparato a conoscersi come donna, in essa è diventata adulta”. Diversamene, nelle lingue madri c’è la bimba che ha sempre tredici anni.

Ma la lingua è anche dolore. Lo è ad esempio quella dei clandestini, come i curdi. Bejan Matur, poetessa curda-alevita di origine turca, lo racconta in uno scatto, magnificamente: “La donna aprì ancora una volta la mia cabina telefonica e disse ‘State parlando una lingua vietata, Interrompo il collegamento’, mi vennero le lacrime agli occhi”.

Dell’opera composita di Kübra Gümüşay il lettore non potrà che apprezzare la sincerità e insieme il rigore. “L’agenda delle destre”, in particolare, è capitolo potente e lucido. In poche battute la giornalista smaschera una strategia che fa della comunicazione un’arma di manipolazione di massa. Potere, restaurazione e polarizzazione del dibattito sono concetti sui quali dovremmo riflettere, certamente di più e con maggiore attenzione. “Chi odia pensa di avere il diritto di odiare. E noi reagiamo alle loro provocazioni, ci confrontiamo con persone sempre più radicali e in questo modo le individuiamo come nostri interlocutori”. Ne va delle nostre libertà, della tenuta democratica del nostro mondo, autorizzando il dialogo alle loro condizioni finiamo, insomma, per legittimarli, “eleviamo razzismo, sessismo, antisemitismo e omofobia a legittimi punti di vista sul mondo, a opinioni”.

La dritta sembra banale ma è di quelle dirompenti: smettiamola di permettere alle destre di dettare la lingua. Solo così impediremo che i loro concetti vengano assorbiti nel discorso politico generale. Non dovrà più accadere che chi salva in mare sia chiamato buonista e che debba giustificarsi dinanzi a chi invece si rifiuta di aiutare. (Tratto dal post “Lgbtq+, un romanzo e un saggio per comprendere come cambia la società” 11 luglio 2021- Alley Oop Il sole 24 ore)

Maria Concetta Tringali





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