Un orizzonte sociale per la lotta alla mafia
L'analisi | 19 agosto 2024
Il dibattito inaugurato dal nuovo presidente del Centro Pio La Torre, Emilio Miceli, è una boccata d’aria fresca come ha già scritto fra gli altri Attilio Bolzoni. Sulla storia e sull’attualità della lotta alla criminalità organizzata abbiamo infatti visto conflitti ferocissimi quanto sterili: incapaci cioè da un lato di riconoscere un “campo” al di là delle legittime differenze di vedute, e improduttivi di effetti in quanto hanno determinato, unitamente ad altri fatti di cui discutiamo, una generale disaffezione delle persone rispetto al “discorso antimafia”. Questo mentre il discorso istituzionale antimafia si faceva via via più conformista: “Uniamoci contro la mafia!”, “Non dividiamoci!”.
Mi chiedo quando e quale movimento antimafia ha iniziato a pensarla così, atteso che sostanzialmente tutti gli esempi di persone che ne sono poi divenute i riferimenti sono esempi di persone certamente, almeno in vita, “divisive”, per usare un termine in voga nel dibattito pubblico.
Il discorso mainstream evolveva in questo senso, permettendo una confusione che è il presupposto che la creazione di quel “professionismo dell’antimafia”: categoria prefigurata con grandissima lucidità da Sciascia, pur sbagliando, all’epoca, i bersagli.
Certo, ad esempio, le vicende Montante e Saguto, nella loro diversità, ci raccontano anche di un contesto a cui anche le nostre organizzazioni sono appartenute che era, ed è ancora, troppo distratto o forse - il che sarebbe ancora più grave - troppo fuori dalle cose che succedono per poterle verificare.
Quelle storie le abbiamo pagate tutti e tutte noi, al di là delle responsabilità, in termini di comprensibile diffidenza della società civile a fidarsi di chi si propone come campione della legalità, di chi utilizza la categoria “dell’antimafia” per chiedere deroghe sulle abituali categorie della politica.
D’altronde, lo scrive benissimo Umberto Santino anche nel recente contributo su questo sito, non può esistere una lotta antimafia che non sia anche lotta sociale: aver appiattito la dimensione del contrasto alla criminalità alla dimensione dell’ordine pubblico infatti non è certo una colpa che si può attribuire ai magistrati, ma deve essere addebitata a quella politica che nel migliore dei casi non si è assunta le proprie responsabilità, quando non è stata complice di quel mascariamento che vuole la lotta alla mafia in qualche modo risolta nella vittoria contro la cosa nostra stragista.
Per esempio chiunque guardi con un minimo di onestà alla città di Palermo non può non vedere come la perdita di terreno di Cosa nostra nel controllo del territorio non abbia corrisposto ad una altrettanto importante costruzione di un’etica pubblica, civile, dei comportamenti. E questo non solo e non tanto da parte delle categorie sociali in condizioni di svantaggio, quanto da quella classe dirigente, quella borghesia mafiosa, che oggi ha sembianze forse diverse ma non minore nocività.
Potremmo dire che la città, per tanti versi, ha nostalgia di quando c’era una mafia più forte che, in qualche modo, poteva proporsi come un welfare oggi certamente in difficoltà non meno di quello statale, che risulta anch’esso sempre più escludente.
La lotta alla mafia pertanto è lotta sociale, e l’arretramento della sinistra organizzata da certi luoghi e dal rapporto con certe categorie sociali è la ragione originaria di una distanza colmabile solo guardando al problema mafia nella sua complessità.
La lotta allo sfruttamento - e quindi il coinvolgimento in un discorso politico di chi riteniamo sfruttato o sfruttata - e la lotta al caporalato - e quindi la contestazione del sistema legale che sostanzialmente lo determina - sono le premesse perché la lotta antimafia sia efficace. Per questo in Arci direi che le più importanti iniziative antimafia sono, spesso, quelle che non usano questo termine: lo sono gli sportelli sociali, lo è, ad esempio, il monitoraggio della situazione dei lavoratori in ambito agricolo nel Trapanese, portato avanti ad esempio con grandissimi sforzi in maniera indipendente da un gruppo di formidabili compagne. Lo sono i centri di aggregazione, che propongono ai ragazzi e alle ragazze dei luoghi in cui ritrovarsi autorganizzati, in cui affrontare tutti e tutte insieme i propri bisogni.
Lo sono naturalmente le attività che svolgiamo, grazie ad esempio allo straordinario lavoro di Arci Catania, per denunciare l’incuria e la mala gestio nella gestione dei beni confiscati.
Mi piace però dire due parole più dirette, sulle questioni all’ordine del giorno ben poste dalle tante riflessioni che stano animando questa discussione:
° Sulla vicenda delle stragi, credo sia necessario affermare che il problema non sono gli approfondimenti sulla vicenda “Mafia e appalti”. Parte della famiglia Borsellino ha detto di credere molto in questo filone e questo è certamente un fatto che deve avere un peso; ma che non può portare, come è accaduto, la presidente della Commissione Antimafia, Chiara Colosimo, non solo a strumentalizzare la loro posizione assumendola come propria, ma addirittura ad escludere ogni ulteriore approfondimento di piste differenti. La scelta di limitare il lavoro della Commissione antimafia è totalmente da ascrivere alla decisione dell’attuale maggioranza politica, e nasconde con tutta evidenza come l’attuale destra di governo - lo dimostra l’orribile polemica sulla strage di Bologna - non abbia fatto i conti con la propria storia e non voglia farlo, con un’arroganza che dobbiamo denunciare, anche rispetto alle tante evidenze di presenze neofasciste in alcuni degli scenari delle stragi degli anni ’90 e non solo.
° Il processo in atto a Caltanissetta, sempre sulla vicenda Mafia e appalti, è forse l’ultimo tentativo possibile di utilizzare lo strumento dell’azione penale per andare a fondo alle ulteriori responsabilità del periodo stragista. È davvero penoso, però, vedere avvalersi della facoltà di non rispondere esponenti della magistratura finora riconosciuti come riferimenti storici nel contrasto alla criminalità organizzata: al di là dei casi specifici, davanti alla difficoltà di contribuire alla verità nell’ambito di un processo che vede indagati per reati gravissimi, sarebbe forse meglio ribaltare completamente la prospettiva e escludere ogni responsabilità penale per quei soggetti i quali si rendessero disponibili a dare un contributo significativo all’accertamento dei fatti. È una provocazione, ma dobbiamo credo definitivamente abituarci all’idea di combattere perché i tanti elementi noti di quel periodo, e quelli che si aggiungeranno, siano strumento di battaglia culturale, politica: pensare che a questa distanza dai fatti ci possa essere giustizia, intesa come condanne dei responsabili in sede penale, è di per sé assurdo essendo passati più di trent’anni.
° La normativa sui beni confiscati e sulla confisca delle aziende è un patrimonio di tutte e tutti, non vuol dire che non si possa e debba discutere con urgenza di come portarne avanti meglio i principi: il complesso del patrimonio confiscato alle mafie oggi è, infatti, simbolo controverso di un sistema che lascia troppi beni all’incuria. I problemi sono tanti, dai tempi alla mancanza di risorse adeguate, alle disfunzionalità degli enti locali ma anche dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati: su questo non si può far finta di non vedere e i nostri enti devono essere in prima fila a pretendere un migliore e più efficiente utilizzo del patrimonio e gestione delle aziende.
In ultimo mi piace considerare come ci siano delle ragioni comprensibilissime che ci hanno condotto alla nostra condizione attuale: possiamo, ad esempio, denunciare come gravissima, alla luce delle evidenze processuali sul tema dei rapporti con la criminalità organizzata ma anche della presenza di importanti referenti locali (pensiamo al Senatore D’Alì) nel suo partito, l’intitolazione dell’aeroporto di Milano, ma ciò non toglie il ruolo che Forza Italia e Berlusconi hanno avuto riconosciuto nel nostro sistema democratico e nei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, specialmente in quelli di larghe intese.
Questo peso dei tanti compromessi fatti nel tempo dalle forze progressiste, che siano giustificati o meno, mi pare un tema significativo e la giusta prospettiva: perché frequentando i giovani e le giovani che si mobilitano, coi pochi strumenti che gli mettiamo a disposizione, per capire come oggi si debba e si possa contrastare la criminalità organizzata e far luce sul contesto politico dei primi anni ’90, quello che mi sento di dire è che non possiamo pensare siano loro a prendersi il fardello dei tanti compromessi, errori, sottovalutazioni e mancanze degli ultimi decenni della nostra parte politica.
Se oggi Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri tornano a essere decisivi nel quadro politico, per dirla in parole povere, è il risultato di una sconfitta culturale e politica che ha radici lontane: venirne fuori significa trovare una buona idea di comunicazione per animare una campagna social, ma trovare vie nuove per rendere di nuovo, come probabilmente è stato e non è più, la questione del contrasto alla mafie un terreno di conflitto vivo, attivo, condiviso con chi oggi in Sicilia vive una condizione di oppressione, che sia un lavoratore o una lavoratrice straniera, una studentessa costretta all’emigrazione, che sia un malato costretto a curarsi lontano da casa.
Perché la lotta antimafia non è una lotta isolata ma, ce lo insegna fra gli altri La Torre, una lotta per il miglioramento delle condizioni di vita delle persone.
Il conformismo di cui dicevo all’inizio di questa riflessione ci ha condotto sulla strada sbagliata.
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