Presidenziali Usa 2020, la carica dei quasi ottuagenari

Politica | 26 dicembre 2019
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L’America di Donald Trump attraversa una congiuntura favorevole sul piano economico, finanziario, produttivo, occupazionale ma – poiché “non di solo pane vive l’uomo” – è in paurosa regressione quanto a coesione nazionale, sicurezza sociale, valori, democrazia, politiche di accoglienza ed inclusione, diritti umani, politiche in difesa dell’ambiente. Problemi che non si risolvono né a colpi di tweet né ricattando il mondo – quello che più sconcerta a cominciare dagli alleati europei ed asiatici e non solo dalla rivale Cina – con l’imposizione di dazi e misure protezionistiche antiglobalizzazione. Del resto è lapalissiano come – in ciò accomunato al presidente russo Putin e al premier inglese Johnson - il presidente americano Trump sia il principale nemico dell’Unione Europea e dei principi ispiratori della UE.

Anche sul terreno strategico planetario gli Usa di Trump non sanno più avere un ruolo in tutti i teatri di crisi. Come dimostra il confuso disimpegno sì/disimpegno no in Siria. O, sempre in Siria, l’infamia incancellabile dell’abbandono da parte degli americani al loro destino, cioè alle grinfie del “sultano” turco Erdogan, dei valorosi alleati curdi, i principali artefici della sconfitta dell’Isis. O l’assenza completa degli Usa nella crisi libica. Beninteso, più gli Usa si defilano più è tempestiva la Russia del sempre più cinico e sfrontato Putin a subentrare ed a guadagnare spazio e aree di influenza. Una Russia tornata superpotenza militare globale come ai tempi dell’Urss, anzi ancora di più.

Martedì 3 novembre 2020 gli Stati Uniti eleggeranno il nuovo presidente a conclusione dei quattro anni del primo mandato della nefasta presidenza Trump. E – malgrado l’impeachment, la messa in stato d’accusa, nel quale l’infantile inquilino della Casa Bianca è incappato, malgrado il Russiagate e l’Ucrainagate – è più che probabile che l’imprevedibile twittomane succederà a sé stesso.

Nella regressione – politica, culturale, sociale, relazionale – in cui Trump ha fatto precipitare gli Usa c’è un aspetto collegato alle elezioni presidenziali del prossimo anno che non abbiamo visto adeguatamente analizzato da osservatori e commentatori: la “democrazia americana” si involve in “gerontocrazia” americana. Il prossimo presidente degli Usa, a meno di attese sorprese, sarà un anziano ultrasettantenne prossimo agli ottanta. O addirittura potrebbe essere qualcuno che nel 2024 concluderebbe i quattro anni di mandato ben oltre le ottanta primavere sulle spalle. Con quale lucidità di leadership e con quale padronanza dei processi di decision-making? Con quale sintonia con gli umori del paese? Con quale intuizione e consapevolezza delle spinte giovanili, delle tendenze di modernità sempre più incalzanti in una società come quella contemporanea che viaggia a velocità supersonica sul piano delle idee e su quello tecnologico? Con quale approccio al futuro, a cominciare da quello ambientale, per gli Usa e per il mondo? E’ tutto così paradossale. Possibile che la più potente ed avanzata nazione della terra non riesca a dotarsi di una leadership più giovane, più fresca mentalmente e politicamente? Così – mentre la rivista “Time” incorona “Personaggio dell’anno” la sedicenne attivista ambientale svedese Greta Thunberg, mentre la Finlandia sceglie come primo ministro una giovane donna di 34 anni, la socialdemocratica Sanna Marin, che guida una coalizione formata da partiti con leader tutte donne, quasi tutte della sua stessa fascia di età – gli Usa saranno più che probabilmente guidati da un ottuagenario o quasi.

Non è colpa solo di Trump, chiariamolo. La sua parte di colpa è legata alle sue ambizioni elettorali e al suo ego ipertrofico che l’hanno portato alla Casa Bianca già avanti negli anni. Ha colpe storiche gravissime per il suo modo di intendere le relazioni con gli altri esseri umani e con gli altri paesi. Ma, a parte la sua età sulla quale neppure l’individuo più potente della terra può incidere per una virgola, nulla c’entra con una concomitanza di scelte e candidature che si scontrano con il tempo e l’anagrafe non meno nel campo avverso, quello democratico. Nel partito che ha come simbolo l’elefantino e come colore il blu sono in lizza nelle primarie di partito ben diciotto contendenti. Finché dalle eliminatorie, ossia dalle primarie democratiche, non ne resterà sul terreno che uno solo: colui o colei che, con la nomination in tasca, duellerà con Donald Trump, l’attuale inquilino repubblicano della Casa Bianca.

E allora vediamo di orientarci in questa pletora di pretendenti democratici. Tanti “piccoli indiani” che già le prossime settimane, con i risultati delle primarie democratiche nei primi stati in cui avranno luogo, cominceranno ad essere spazzati via con percentuali di consenso insignificanti. E di conseguenza con l’abbandono della corsa e l’appoggio – per quel poco che contano – a chi resiste di più nella lunga, defatigante maratona delle primarie di partito che approda alla nomination di sfidante del presidente uscente.

E’ bene avviare l’analisi dalle precedenti elezioni presidenziali del 2016 che hanno portato alla Casa Bianca Donald Trump. Ricordando che allora nel partito dell’elefantino i contendenti inizialmente erano tre. Poi ridottisi a due, la Clinton e Bernie Sanders. Segno d’una complessiva tenuta politico-organizzativa del fronte democratico. Tenuta a tre anni da allora andata in frantumi.

Negli Stati Uniti per essere eletti alla Casa Bianca bisogna avere almeno 35 anni d’età. All’atto dell’insediamento, che avviene a gennaio dell’anno che segue a quello elettorale, Trump aveva 70 anni. Nella giornata dell’insediamento, nel mese di gennaio del 2009, il suo predecessore Barack Obama di anni ne aveva 47. Bush figlio, nel 2001, 54. Clinton, nel 1993, 46. Bush padre, nel 1989, 64. Andando a ritroso solo Ronald Reagan si avvicinava con i suoi 69 anni all’età di Trump. Anche Eisenhower nel 1953 era ultrasessantenne (62 anni). Mentre John F. Kennedy nel mese di gennaio del 1961 aveva appena 43 anni e, nel 1933, Franklin Delano Roosevelt era ancora più giovane, quarantaduenne. Il più giovane presidente eletto nella storia degli Stati Uniti. E’ stato calcolato che all’atto dell’insediamento l’età media dei quarantaquattro predecessori di Donald Trump, da George Washington in poi, era di 55 anni.

Concentriamoci ora sull’anno elettorale 2020. Il campo repubblicano è tutto nella persona di Trump che, in quanto presidente in carica, a meno di sua espressa rinuncia, ha tutto il diritto di ripresentarsi potendo restare in carica per due mandati consecutivi se rieletto. Nel campo democratico vediamo di conoscere meglio la pletora degli aspiranti presidenti. A cominciare dall’ex sindaco di New York dal 2002 al 2013 Michael Bloomberg, una volta repubblicano, ora democratico, ultimo a decidersi a scendere in lizza. Al momento nei sondaggi è in coda con bassissime percentuali di preferenze tra i democratici. Ma dispone di un patrimonio personale immenso, di 53 miliardi di dollari – che fa impallidire gli “appena” 3 miliardi di dollari di patrimonio di Trump – e se decidesse di giocare il tutto per tutto mettendo sul piatto della bilancia ingenti risorse finanziarie per la sua campagna potrebbe presto risalire nei sondaggi e poi nelle percentuali di voto delle primarie dei “blu”. Nelle elezioni moderne ancora più che nel passato purtroppo le disponibilità finanziarie dei candidati contano sempre di più per gestire costosissime campagne elettorali, massicce campagne pubblicitarie, meeting, raduni, manifestazioni. Insomma politica ed elezione sono diventati sempre più “roba da ricchi”. Altro contendente: Joe Biden, senatore del Delaware, ex vicepresidente negli otto anni della presidenza Obama. Poi il sempiterno Bernie Sanders, ormai quasi patetico nella sua ostinazione ideologico-elettorale, senatore del Vermont. Ed ancora: Michael Bennet, senatore del Colorado; Cory Booker, senatore del New Jersey; Steve Bullock, governatore del Montana; Pete Buttigieg, sindaco di South Bend (Indiana); Julian Castro, ex sindaco di Houston (Texas); John Delaney, ex deputato del Maryland; Tulsi Gabbard, trentottenne deputata delle Hawai; Kamala Harris, senatrice della California; Amy Klobukar, senatrice del Minnesota; Deval Patrick, ex governatore del Massachussets; Joe Sestack, ex deputato della Pensylvania. Chiudono il lungo elenco Tom Steyer, hedge fund manager ossia gestore di fondi di investimento, miliardario, filantropo, ambientalista; Elisabeth Warren, senatrice del Massachussets; Marianne Williamson, scrittrice; Andrew Yang, imprenditore.

Diciotto in cosa, dicevamo. Troppi indubbiamente e troppo poco filtro nelle candidature. Cinque le donne. Due i non politici di professione, la Williamson e Yang.

Al momento tra i democratici i più accreditati per sfidare Trump sono nell’ordine Joe Biden, ben saldo in testa nei sondaggi, Bernie Sanders, Elisabeth Warren e, piuttosto distanziato ma in rimonta, Pete Buttigieg. E poi, ribadiamo, c’è l’incognita Michael Bloomberg.

Restiamo sul tema della nostra analisi: l’anagrafe. Se rivince a novembre – come in tanti pronosticano – Donald Trump si accingerà al secondo mandato a 74 anni e lo chiuderà a 78 anni nel 2024. Poniamo che si verifichi un colpo di scena e vinca il duello con Trump il candidato venuto fuori dalle primarie democratiche. Se fosse Joe Biden sarebbe eletto presidente il 3 novembre 2020 pochi giorni prima di mangiare la torta con 77 candeline e concluderebbe il suo primo mandato a 81 anni. Biden è di tre anni più anziano di Trump. Se fosse – eventualità ancora più improbabile – Bernie Sanders sarebbe eletto a 79 anni e chiuderebbe il suo mandato a 83 anni. Se fosse Bloomberg sarebbe eletto a 78 anni e concluderebbe il suo mandato ad 82 anni. Se fosse la Warren – ex docente universitaria specializzata in diritto fallimentare, consigliere speciale per la protezione dei consumatori e (quasi “freudianamente”) componente del Comitato speciale sull’invecchiamento – per quanto nasconda bene i suoi anni con un aspetto giovanile e non dimostri affatto la sua età, sarebbe eletta a 71 anni e completerebbe il mandato quadriennale a 75 anni. A quanto pare - è notizia di questi giorni – l’ex presidente democratico Obama dietro le quinte starebbe appoggiando la Warren. Solo per avere qualche termine di confronto con donne di peso nella storia dei loro paesi, in Israele Golda Meir nel 1969 era stata eletta primo ministro a 70 anni, la Gandhi in India primo ministro nel suo secondo mandato nel 1980 a 63 anni, un anno prima la Thatcher a Londra a 53 anni, la cancelliere Angela Merkel a Berlino nel 2005 a 51 anni.

Il risalente Buttigieg ho solo 37 anni, è nato il 19 gennaio 1982. Buttigieg è omosessuale dichiarato e nel 2015 è convolato a nozze con il compagno Chasten Glezman. Quanto invece alla situazione familiare della cinquina dei candidati più accreditati, più carichi di anni ed etero, sono tutti risposati: due matrimoni Bloomberg, due Sanders, tre Trump, due Elisabeth Warren, due Biden.

Per concludere, realisticamente quale scenario elettorale si profila nel 2020? Il Senato – dove può contare sulla maggioranza dalla sua parte – “salverà” Trump dall’impeachment. Il presidente dall’improponibile acconciatura e dal capello pel di carota-arancione potrà tranquillamente ricandidarsi per il suo secondo mandato e – complice il macchinoso sistema elettorale statunitense in cui si può essere eletto presidente anche con un numero di voti inferiore a quelli dell’avversario purché ci si affermi in determinati stati-chiave – sarà riconfermato alla Casa Bianca. I diciotto “piccoli indiani” democratici, che abbiamo visto accapigliarsi tra loro in affollati dibattiti televisivi destinati ai candidati del loro partito, vedranno a loro volta sfumare uno dopo l’altro le aspettative nelle primarie nei singoli stati. Ammaineranno bandiera. Ed assisteranno in conclusione alla sconfitta del sopravvissuto o della sopravvissuta tra di loro nello scontro finale con Trump. Assisteranno cioè alla riconsegna dello scettro ad uno dei più imprevedibili e preoccupanti presidenti della storia degli Stati Uniti. Trump, che lo era già all’atto della prima elezione, “rafforzerà” il suo primato di presidente più anziano di sempre tra i 45 presidenti Usa.

Tutto questo succederà a meno di clamorosi riposizionamenti in campo democratico e travolgenti successi elettorali nelle primarie dei “blu”, tali da fare emergere tra i diciotto “piccoli indiani” un outsider - magari non compreso tra i quattro ultrasettantenni su cui ci siamo soffermati - che sconfigga Trump il prossimo novembre. Ma c’è davvero poco da sperarci.

Comunque si accettano scommesse sullo scenario appena delineato. Quello che è certo è che la democrazia americana è invecchiata. Più di quanto pensiamo.

 di Pino Scorciapino

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