Il virus mafioso che uccide le aziende al Nord

19 luglio 2021
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Tre studiosi dell’Università Bocconi di Milano, Antonio Marra, Donato Masciandaro e Nicola Pecchiari, hanno analizzato un campione di 1.840 imprese lombarde collegate con diverse modalità al crimine organizzato, utilizzando i dati dell’Agenzia informazioni e Sicurezza interna (Aisi), e hanno fatto una scoperta sorprendente: le aziende a partecipazione criminale e mafiosa, contrariamente a quello che abitualmente si pensa, corrono più rischi di fallire rispetto alle altre presenti sul mercato perché presentano in genere una redditività più bassa, un debito più alto e una minore liquidità.


Legandosi a capitali mafiosi le imprese legali vanno incontro a maggiori possibilità di fallimenti, insolvenze o liquidazioni. La ricerca veicola, dunque, un messaggio preciso: cari imprenditori, al di là di ogni considerazione morale o legale, non cercate connessioni con le mafie perché esse non sono in grado di risolvere i problemi di crisi delle vostre aziende, anzi possono solo peggiorarne le performance.


Si badi bene: la ricerca non vuole affatto sminuire l’allarme sull’incidenza dei capitali mafiosi nell’economia italiana e in particolare in Lombardia. Non è affatto una ricerca "negazionista". Anzi, al contrario, essa squaderna davanti a noi uno scenario inquietante: nella regione più ricca e produttiva d’Italia, un’azienda su dieci ha un legame diretto o indiretto con il crimine organizzato. Dunque, le mafie incidono in maniera notevole sull’economia della parte più avanzata del Paese (dove si produce il 25% del Pil nazionale) ma ciò non determina un miglioramento della produttività delle imprese coinvolte.


Il rapporto con l’ economia è un tratto identitario dei fenomeni criminali di tipo mafioso. Non esiste mafia, non si dà mafia, se non in legame con il denaro, con il mercato e con la ricchezza altrui. Cambia nel tempo il peso ricoperto, cambiano i settori coinvolti, ma non l’interesse precipuo dei mafiosi alla ricchezza, a chi la produce, a chi la commercializza, a chi l’accumula e a chi la reinveste.


Ma quali sono le differenze rispetto al passato? La prima consiste nell’entità del coinvolgimento mafioso nell’economia grazie ai grandi guadagni accumulati con il traffico delle droghe. Ciò dà alle mafie un potere economico e finanziario mai ricoperto in queste proporzioni nella storia precedente. Il secondo elemento consiste nel fatto che prima questo ruolo economico le mafie lo svolgevano quasi esclusivamente nei luoghi del loro insediamento storico. C’è stato un percorso durato diversi decenni che ha portato le mafie meridionali a non essere respinte ma ben accolte nell’economia delle regioni più sviluppate d’Italia.


Il primo a parlare, invece, di una netta distinzione tra la mafia di un tempo e quella contemporanea è stato Pino Arlacchi con il suo libro La mafia imprenditrice . Alla mafia del passato, più intermediatrice e più parassitaria, veniva contrapposta la capacità imprenditoriale del presente. Secondo Arlacchi, i mafiosi sarebbero degli innovatori perché avrebbero trasferito il metodo mafioso nell’organizzazione aziendale. Utilizzando tre specifiche situazioni di vantaggio competitivo che altre imprese di mercato non possono avere. E cioè: lo scoraggiamento della concorrenza con l’uso della violenza; la compressione salariale e la flessibilità totale della manodopera attraverso l’intimidazione dei sindacati; la disponibilità ingente di risorse finanziarie che evitano di ricorrere al circuito bancario, abbassando il costo del denaro. Lo studio di Arlacchi, che per primo ha posto un’attenzione così specifica al ruolo economico delle mafie, si esponeva però ad una critica di fondo: se queste tre condizioni erano così cogenti, come mai i mafiosi non si sono ancora impossessati di tutta l’economia italiana?


La ricerca dei tre economisti della Bocconi mette radicalmente in discussione l’automatismo tra il peso della violenza e il controllo totale dei mercati. Anzi, dimostra che essere dei criminali non vuol dire automaticamente essere dei buoni organizzatori aziendali o manager efficienti di imprese legali.


Forse, al di là di tante distinzioni, la vera novità dei mafiosi nella storia dell’economia italiana consiste nel fatto che essi si presentano come "imprenditori di due mondi", quello illegale e quello legale. Sono costretti a fare investimenti nei settori legali per ragioni di occultamento della ricchezza, di prestigio sociale, o per sfruttare buone opportunità che si presentano di volta in volta, ma essi non lasciano mai il mondo illegale. Né possono investire i guadagni solo nel campo illegale perché ciò implicherebbe un allargamento della loro quota di mercato e, dunque, una guerra permanente con gli altri operatori. Insomma, siamo di fronte a qualcosa di inedito nell’economia dei nostri tempi: dei criminali investono permanentemente sui mercati legali senza lasciare mai quelli illegali, perché in fondo sanno che sul mercato legale l’uso della violenza da sola non sarebbe sufficiente per il successo. Nessun altro imprenditore può contemporaneamente essere presente sui due mercati per così tanto tempo, legando in maniera strutturale due mondi apparentemente inconciliabili.


Lo studio della Bocconi ci aiuta a demistificare luoghi comuni ed esagerazioni sulle qualità manageriali dei mafiosi e in genere dei criminali. Ma la domanda che i ricercatori lasciano in sospeso (soprattutto in un periodo storico che vedrà massicci investimenti europei grazie al programma Next Generation) è la seguente: perché degli imprenditori ricorrono con tanta normalità a dei criminali per finanziare le loro imprese? Perché una parte dell’economia settentrionale tratta i mafiosi come dei normali operatori di mercato con cui rapportarsi senza problemi? Facendo così anche un calcolo sbagliato sul piano economico, prima che sul piano morale e civile. (La Repubblica)

 di Isaia Sales

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