Il Covid in Europa vuol dire 60 milioni di disoccupati

Economia | 25 maggio 2020
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Sessanta milioni di disoccupati, intere categorie in ginocchio. Alcuni settori meno colpiti, per altri comparti con lavoratori meno tutelati ed istruiti sarà una catastrofe. Scenario tracciato da uno studio sugli impatti economici ed occupazionali della pandemia di coronavirus. In parte man mano già sperimentati, confermati nei fatti.

“McKinsey Global Institute” è una storica società di consulenza manageriale multinazionale con sede principale a New York, fondata nel lontano 1926. Un mese fa ha pubblicato un paper dal titolo ”Safeguarding Europe’s livelihoods: Mitigating the employment impact of COVID-19”. Lo studio riguarda l’Europa e si riferisce non solo alla previsione di quanti posti di lavoro falcerà il coronavirus ma anche di quali categorie di lavoratori saranno travolte più di altre. E i risultati delle proiezioni sono da brivido.


Il coronavirus mette a rischio poco meno di sessanta milioni di posti di lavoro (59 milioni per la precisione). Quasi l’80 per cento di questi posti a rischio vede impegnati lavoratori senza titolo di studio universitario. Coloro che usciranno peggio da questa tremenda congiuntura negativa saranno gli occupato senza laurea, dipendenti e professionisti con contratti a singhiozzo, meno tutele e bassi guadagni. Il coronavirus tra i tanti suoi deleteri effetti avrà anche quello di allargare il già immorale divario che negli ultimi decenni è stato sempre in crescita tra ricchi e poveri. I settori nei quali è più facile operare con lo smartworking saranno meno danneggiati rispetto a quelli caratterizzati da attività che prevedono una certa prossimità fisica tra individui, con i colleghi o con il pubblico in generale, come ristoranti o fabbriche. In ogni caso, al netto di queste differenze, i gruppi più vulnerabili sono quelli formati da persone più giovani e con un più basso livello di istruzione.

In Italia i risultati del paper del “McKinsey” sono stati diffusi in particolare da “Business Insider” in un articolo del 21 aprile di Marco Cimminella intitolato “Tra licenziamenti e minori guadagni, le professioni più a rischio in Europa per il Covid-19. E quelle che si salvano” e il 23 aprile da “Il Sole 24 Ore” in un articolo di Enrico Marro dal titolo “Scenari coronavirus in Europa. A rischio 1 posto di lavoro su 4 (59 milioni). Ecco i settori più colpiti”.

Secondo i ricercatori del “McKinsey” subiranno misure di licenziamento, congedi non pagati, taglio delle ore lavorate e degli stipendi soprattutto i lavoratori impegnati nei settori vendite e customer service (ossia i reparti di una azienda destinati all’assistenza alla cientela), retail (ossia vendita al dettaglio), ristorazione e turistico-alberghiero, costruzioni, servizi alla comunità, arte ed intrattenimento. Le più colpite saranno le persone senza studi e titoli universitari. Chi è senza laurea e dottorato rischia il doppio rispetto a chi ha completato il percorso accademico. Sono messi male anche i già pochi ragazzi e ragazze al lavoro tra i 15 ed i 24 anni, che hanno più probabilità di essere licenziati rispetto agli altri gruppi d’età dai 25 anni in su.

Il 50 per cento di tutti i lavori a rischio in Europa ricade nei settori customer service e vendite, ristorazione, costruzioni. “Meno condizionati – osserva lo studio – saranno i professionisti dei comparti sanità, scienza, tecnologia, ingegneria, matematica, istruzione, business, professioni legali”.

Nello studio si è fatto ricorso a precisi criteri per valutare figure e comparti che subiranno il maggior impatto negativo a causa della pandemia. La prossimità fisica richiesta in alcuni mestieri e l’effetto sulla domanda di prodotti e servizi innescato dalla pandemia permettono di ripartire comparti e lavoratori in più gruppi.

Quelli ad alto rischio sono quasi 55 milioni e la maggior parte lavora a contatto con il pubblico, come gli addetti alle vendite nel retail, gli attori, i cuochi. Le professioni con rischio intermedio includono 14,7 milioni di persone che lavorano con altri colleghi ma non interagiscono con il pubblico, come operatori di macchine e lavoratori nelle costruzioni.

“Le professioni con minor rischio – precisa “Business Insider Italia” - contano oltre 160 milioni di occupati. Sono coloro che non lavorano necessariamente vicino ad altre persone (contabili, architetti, giornalisti), quelli che forniscono servizi sanitari (medici, manager sanitari, conducenti di ambulanze) o altri servizi essenziali (polizia, istruzione, trasporto pubblico, produzione di cibo)”.

Le occupazioni più colpite dalla crisi saranno quelle nei settori ristorazione e attività ricettiva, arte e intrattenimento, costruzioni, vendita al dettaglio.


Soffermiamoci ora sul rapporto titolo di studio posseduto/attività lavorativa svolta. Nello studio si evidenzia che i settori che saranno più danneggiati dalla chiusura economica sono quelli che contano il maggior numero di lavoratori senza studi universitari. Il retail e i settori alberghiero e della ristorazione contano rispettivamente 14,6 milioni ed 8,4 milioni di lavoratori a rischio. Solo il 17 per cento e il 14 per cento dei dipendenti in questi comparti possiede un titolo accademico. Al contrario, il 52 per cento dei dipendenti nel settore dei servizi in Europa ha una laurea e il comparto è quello che registra meno posti a rischio: 1,6 milioni.

Abbiamo precisato in premessa che terreno d’analisi dello studio del “McKinsey” è l’Europa (a 28, compresa dunque in questo caso anche la Gran Bretagna). E’ ovvio che da paese a paese numeri e medie varieranno sensibilmente dove con più macerie che resteranno sul campo dove con meno macerie. Così come è importante rilevare che notevoli sono le differenze tra i vari paesi quanto a percentuale di laureati.

Queste due considerazioni, in ogni caso, non inducono a nessun ottimismo sulle conseguenze per l’economia italiana. Perché dalla crisi economica globale iniziata nel 2008 l’Italia dopo la Grecia è stata la nazione che ha avuto maggiori difficoltà a riprendersi e quella con le più stentate percentuali di recupero. Perché nel settore della ristorazione e del turismo – tra i più colpiti – in Italia si impiegano più occupati che in altri paesi, sia in percentuale che in numero assoluto. E perché nel nostro paese i laureati, ossia secondo lo studio i più resilienti all’effetto tsunami del CoVid-19, costituiscono una fetta del mondo lavorativo ben più ridotta rispetto a Germania, Francia, Gran Bretagna, paesi scandinavi e del Nord Europa. Noi competiamo con Bulgaria e Romania quanto a percentuali di laureati presenti nel mondo del lavoro. Colpevole debolezza strutturale che ci lascia il fianco scoperto. Sulla quale l’implacabile coronavirus non mancherà di infierire.

 di Pino Scorciapino

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