Dalla Chiesa: la lotta alle mafie comincia dalle scuole

Società | 30 aprile 2020
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Sono passati 38 anni dall’omicidio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, da quella mattina del 30 aprile 1982 quando l’allora segretario del Partito Comunista in Sicilia venne condannato a morte dalla cupola di Cosa nostra per il suo impegno antimafia. Quel delitto costituì l’anticamera dell’accelerazione che si ebbe, in seguito all’assassinio del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, per l’approvazione della legge che porta il nome dell’esponente politico siciliano che la propose insieme alla relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia, di cui fu il primo firmatario. Quello di La Torre non fu l’unico delitto di un esponente delle istituzioni in quegli anni. Due anni prima, il 6 gennaio del 1980, veniva ucciso l’allora presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, per via della sua azione di bonifica all’interno dell’amministrazione regionale. Proprio queste morti per mano mafiosa, e non solo, verranno ricordate in occasione della manifestazione in streaming da remoto organizzata dal Centro Studi Pio La Torre il 30 aprile p.v. In questa circostanza abbiamo voluto sentire il professore Nando dalla Chiesa, coordinatore, tra l’altro, del Dottorato di ricerca in Studi sulla criminalità organizzata presso l’Università Statale di Milano, che le vicende degli omicidi politico-mafiosi le ha vissute da vicino per via della sua storia familiare e in virtù del suo lavoro di ricercatore.


1) Quali sono, secondo lei, gli elementi che legano la figura di Pio La Torre e di Piersanti Mattarella sia nella genesi dei loro delitti sia nell’impatto che questi omicidi hanno avuto a livello istituzionale e della società civile?
Li unisce una idea di politica, prima di tutto. Un modo di fare politica che cerca di sottrarre la politica al dominio della mafia in un periodo in cui, invece, forte delle nuove immense liquidità derivanti dal narcotraffico, Cosa nostra pensava di accrescere la sua autonomia dalla politica. Proprio mentre la mafia siciliana pensa di poter comandare la politica, La Torre e Mattarella alzano la pretesa di autonomia della politica, non solo come livello più alto in sé, ma provano anche a sganciarla dai disegni e dalle strategie mafiose. Sono due direzioni opposte: da una parte vi sono quelli che pretendono di imporre le proprie leggi alla politica, dall’altra quelli che invece immaginano, da quel momento in poi, di autonomizzarla. La Torre e Mattarella sono le due figure della politica siciliana che fanno da riferimento per una trasformazione. Tutti e due anche con delle capacità di mobilitazione piuttosto alte: Mattarella nel mondo cattolico, La Torre che ruota attorno al mondo del PC, ma non solo. Nella lotta alla mafia rappresenta un pezzo del PC, nella lotta contro i missili rappresenta una grande parte della Sicilia. E questo qualche interrogativo ce lo pone: perché riesce a rappresentare tanti siciliani nella battaglia contro i missili, e invece solo una porzione ristretta della Sicilia contro la mafia? Vuol dire che la Sicilia era disposta a sentirsi dire parole di pace e a contrastare l’idea di diventare luogo di scontro di guerre nucleari, però non ha lo stesso slancio nel liberarsi dalla mafia. Perché la mafia sta nella sua storia, mentre la vicenda dei missili non sta nella sua storia, e quindi la aggredisce quasi ontologicamente. La Torre aveva una capacità di mobilitazione che è tipica del vecchio politico di razza, che non ha paura di parlare in una piazza non preparata e sa che può farsi ascoltare per quello che dice.




2) Gli anni ’80 costituiscono anche l’avvio delle prime esperienze di educazione alla cultura della legalità nelle scuole grazie alle politiche educative antimafia promosse da alcune regioni, che hanno delegato ai docenti la responsabilità di formare le nuove generazioni alla cultura antimafia. Quanto la scuola si è dimostrata all’altezza di tale sfida e cosa è cambiato nel corso di questi trent’anni nei “nuovi” giovani cittadini?

Io credo che la scuola si sia comportata bene, sia stata al di sopra dell’immagine che il paese ha della scuola. Tanti studiosi dei processi educativi non conoscono l’esperienza del movimento antimafia della scuola italiana. La scuola ha dato al paese più di quanto il paese sappia, più di quanto potesse immaginare. Ha fatto una cosa al di sopra delle aspettative e al di sotto della memoria del paese di oggi. È un dato preoccupante perché vuol dire che non siamo ancora in condizioni di costruirci una memoria pubblica coerente con la qualità della storia da ricordare. Ho visto una scuola molto attenta, molto reattiva, ovviamente con tutte le zavorre che sappiamo. E ciò ha frenato le potenzialità evolutive di questo processo. Tuttavia, fondamentalmente, ha fatto un grande lavoro.



3) Come ormai da tredici anni, anche quest’anno il Centro Pio La Torre ha realizzato l’indagine sulla percezione mafiosa tra i giovani delle scuole secondarie superiori italiane. Un dato che l’indagine ci restituisce è che i giovani discutono di mafia a scuola con i docenti e due su tre hanno partecipato ad attività di educazione antimafia alla scuola elementare, media inferiore e secondaria superiore. Sembra, tuttavia, che solo la metà dei docenti trattino argomenti che facilitano la conoscenza del fenomeno. Ritiene che sia necessario apportare delle integrazioni e/o modifiche allo spazio e alle modalità dedicate a queste attività? Se si, come?

Le formule sono diverse, non tutti hanno praticato lo stesso metodo. Ci sono quelli più creativi, quelli più ripetitivi. Ci sono quelli che ritengono che per fare educazione alla legalità è sufficiente parlare agli studenti di chi è stato ucciso dalla mafia. C’è una tendenza a ripetere, la tendenza a pensare che basti poco per insegnare. Ma non è così. Anche se gli alunni possono chiedere alcune cose, quelle cose vanno attinte da una cultura profonda. Certo, non si può chiedere a tutti di avere un livello di conoscenza particolarmente elevato, però occorre – come emerge anche dalle ricerche condotte- che vi sia un maggior coinvolgimento diretto degli insegnanti. Non bastano soltanto gli ospiti che vengano da fuori. Questi, se sono familiari, possono commuovere con i loro racconti. Questo è importante, ma non basta. Dopo la commozione ci deve essere anche una spinta morale ad agire e la consapevolezza che porta a decidere di agire. Un familiare di vittima raramente può spiegare la mafia perché può raccontare che cosa ha fatto la mafia a lui, ma non la storia della mafia, la sociologia della mafia. Eppure, a volte, viene delegato questo compito.

Credo che siano necessarie invenzioni continue, che nascono anche dal rapporto che si stabilisce con gli alunni. Poi dipende anche dall’età. Fanno cose diverse e gli approcci devono essere differenti. Occorre che ci sia un grado di attenzione elevato. La formazione richiede numeri limitati – e no riempire un auditorium - e delle condizioni di impegno reciproco per evitare il rischio che si punti più sull’avere che sull’essere. Occorre fare una cosa seria. Questo non vuol dire che non è stato serio, ma che si sarebbe potuto fare molto di più.




4) Sempre prendendo spunto dall’indagine prima citata, un dato che si discosta rispetto al passato è quello che denota una maggiore fiducia nell’impegno antimafia dello Stato, accompagnato però da un accresciuto scetticismo sulla sconfitta definitiva delle mafie a causa delle relazioni tra esponenti mafiosi e classi dirigenti in senso lato. E sono sempre queste relazioni ad essere indicate dai giovani come la ragione che consente alle organizzazioni mafiose di esistere e di diffondersi nelle regioni centro-settentrionali…

Il Nord è permeabile. Spesso si è detto che la mafia non è un virus, perché questo vorrebbe dire che attacca un corpo sano. Non è così. Come ci è stato insegnato in questi mesi, il virus colpisce di più gli organismi già debilitati, quelli che hanno delle patologie. Quindi non è scorretto parlare di virus. È scorretto pensare che se si parla di virus si voglia immaginare che ad essere attaccato è un corpo sano. Nel caso di un corpo sociale, il virus colpisce un corpo sociale vecchio non da un punto di vista anagrafico, ma della sua fede in certi valori, della sua capacità di avere una vitalità propria, di confrontarsi anche con i suoi avversari senza cedere alle lusinghe, alle pressioni. Questi corpi sono debilitati, o sono compromessi. Sono dei corpi che arrivano nella sala di terapia intensiva e possono anche cedere. Il corpo sociale del Nord come è? È un corpo sociale giovane, combattivo, privo di patologie, o è invece un corpo che presenta diverse patologie? Direi tutte e due. Noi stiamo cercando di valorizzare la parte combattiva e priva di patologie, ma se pensiamo alla corruzione, all’evasione fiscale, parliamo di due patologie che rendono un corpo sufficientemente debilitato, sufficientemente compromesso per poter essere attaccato dal virus della mafia. Si è detto tanto di questa metafora del virus, senza comprendere da un punto di vista medico qual è la relazione tra virus e corpo attaccato. Ora l’abbiamo imparata. La mafia è un virus. C’è un principio attivo che entra in un corpo compromesso. Il principio attivo è l’uso della violenza, del metodo mafioso che dimostra di essere redditizio, remunerativo, per ottenere il profitto, il potere. Questo metodo aiuta, quindi appare attrattivo e vi si fa anche ricorso. È vero, dunque, che c’è il concorso di colpa del Nord, ma non è vero che la mafia non è un virus perché quando entra si diffonde.


5) Le mafie hanno da sempre colto le opportunità del momento per accedere a nuovi mercati e fare nuovi investimenti. Vi è, dunque, il rischio concreto che le organizzazioni mafiose provino a partecipare alla ripresa post-epidemia facendo leva sulle sacche di popolazione indigente, che questa crisi sanitario-economico-sociale ha reso ancora più disagiate, e sulle piccole e medie imprese in difficoltà di liquidità. Qualche giorno fa, dalle pagine del Fatto Quotidiano, ha lanciato la proposta di una serie di misure per ostacolare le infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici. Come è possibile impedire il tentativo delle mafie di allargare il loro bacino di consenso nel contesto delle crisi attuale che stiamo vivendo?


Non c’è una ricetta. C’è la competenza e la determinazione, il buon senso di un governo che voglia guidare questo tema. Non ci possono essere gli incompetenti. Occorre lavorare sulle competenze vere, sui coraggi e sulle determinazioni vere che l’Italia è in grado di mettere a disposizione e di cui ha bisogno. Come ha bisogno di talenti imprenditoriali che siano capaci di inventare in questo momento, di stringere i denti, di costruire anche le condizioni di concorrenza internazionale, noi abbiamo bisogno di dare fiato a coloro che hanno necessità di liquidità. Il governo deve mantenere velocemente tutte le parole che ha dato, verificare se le disponibilità sono state effettivamente rese accessibili. Non può nascondersi dietro alcun intoppo burocratico. Dopodiché, le banche devono essere coinvolte in questa rinascita del paese. Hanno la possibilità di sottrarre all’usura migliaia e migliaia di piccoli imprenditori che hanno difficoltà economiche. Lo facciano. E poi ci sono gli investimenti pubblici. La mia proposta è quella di sorvegliarne lo svolgimento attraverso gruppi di lavoro che controllino le aree del Nord, del Centro, del Sud. Accentrare tutto in un’unica soluzione, secondo me, non aiuta. Perché bisogna conoscere i territori, i soggetti.

Bisogna anche sapere fissare dei paletti molto chiari. Secondo me, chi ha la sede in un paradiso fiscale non può partecipare ai lavori pubblici dello Stato, perché se si organizza per togliere soldi allo Stato, non può pensare a contribuire a prendersi le risorse dello Stato. Ma soprattutto non possiamo pensare di avere delle società che entrano in questi lavori pubblici se non hanno un’esperienza lunga in questo settore. Devono avere esperienza consolidata e devono avere manodopera da anni. Fissare regole di questo tipo ci consente anche di evitare tanta burocrazia. Per questo penso a delle capacità di controllo e di fissare delle regole che il Governo fa proprie con un decreto. D’altra parte Expo, contrariamente alle aspettative, ha offerto alla ‘Ndrangheta un film diverso da quello che si immaginava, perché tutta la città si è mobilitata: sindaco, consiglio comunale, prefettura. Bisogna fare così.

 di Alida Federico

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