Convegni e seminari | 21/02/2005

II° Seminario

Gentili Internauti,
incoraggiati dai riscontri favorevoli ricevuti a seguito della trascrizione della registrazione degli interventi effettuati nel 1° Seminario si è deciso di continuare questa esperienza procedendo in eguale maniera con il successivo.
Vale la stessa avvertenza per il precedente e cioè che "il testo non è stato corretto dai relatori per consentire una immediata divulgazione, fermo restando che gli stessi possono, in qualsiasi momento, proporre le eventuali rettifiche".
Anche questa volta un ringraziamento alla dottoressa Raffaella Milia per aver collaborato alla realizzazione della trascrizione.
Cordiali saluti.

IL Segretario
Cesare Casali

Atti 2° Seminario

"L'associazionismo antiracket e la difesa delle imprese".

Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturali Pio La Torre

Invito gli ospiti a prendere posto.
Diamo immediatamente inizio ai lavori di questo secondo seminario promosso dal Centro Pio La Torre, dal Dipartimento di Studi su Politica Diritto e Società dell'Università di Palermo, dal Dipartimento di Scienze Sociali dell'Università di Palermo e dal Dipartimento di Economia, Statistica, Matematica e Sociologia dell'Università di Messina.
Do la parola al Vice Presidente del Centro, Vito lo Monaco.


Vito Lo Monaco, Vice Presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

Grazie, saluto tutti.
Questo convegno, come già anticipato dal Presidente Mannino, è organizzato dal Centro Pio La Torre nell'ambito di un ciclo di seminari su: "Istituzioni, trasparenza ed educazione alla legalità nella lotta contro la mafia" promosso d'intesa con l'Università di Palermo e di Messina. Alla sua realizzazione hanno inoltre collaborato i giovani dell'associazione ContrariaMente, le associazioni di categoria dei commercianti, degli artigiani, degli agricoltori, degli industriali e le stesse associazioni antiracket.
Sponsor di questo convegno non è soltanto la Regione siciliana ma un gruppo d'imprese, poche ma significative. Significative perché il tema che oggi tratteremo riguarda proprio la vita, lo sviluppo e la crescita delle imprese oltre che, chiaramente, la vita e la convivenza sociale e civile della nostra isola e del nostro Paese.
Ringrazio, inoltre l'Università di Palermo, il Rettore Giuseppe Silvestri che porterà il suo saluto subito dopo l'introduzione, tutte le autorità, le rappresentanze istituzionali e le Forze dell'Ordine che vedo presenti in modo significativo.
Noi partiamo dall'assunto che senza il concorso congiunto delle grandi organizzazioni sociali ed economiche, dei comitati di base, dei movimenti giovanili, delle scuole, delle Università, delle istituzioni, dei partiti e dei governi locali, regionali e nazionali, la mafia non potrà mai essere sconfitta. Solo i grandi movimenti di massa, nella nostra storia, hanno reso possibili passi avanti in tale direzione e solo quando lo Stato ha saputo saldare la propria azione a quella dei movimenti, abbiamo ottenuto risultati concreti.
Quando si sono sincronizzati movimenti popolari, rappresentanze sociali e politiche, nelle stesse istituzioni sono emerse nuove energie antimafia accompagnate da un più tangibile consenso sociale.
Le più significative scelte antimafia della seconda metà del novecento sono avvenute proprio sulla base di questo spirito. La Prima Commissione d'Inchiesta Parlamentare nasce nei primi anni sessanta in seguito alla strage di Ciaculli, cui segue la istituzione del pool antimafia avviato dal giudice Chinnici e proseguito, dopo il suo omicidio, dai giudici Caponnetto, Falcone e Borsellino. La legge Rognoni-La Torre viene varata nei primi anni ottanta subito dopo gli omicidi La Torre e Dalla Chiesa. Seguono le stragi in cui furono trucidati i giudici Falcone, Borsellino e gli agenti della scorta che tanta commozione suscitarono nella società civile, ma che al contempo determinarono una forte reazione ed un profondo impegno da parte dello Stato che portò alla successiva cattura di Totò Riina. Ma ancora prima, nel secondo dopoguerra, la mafia fu fortemente contrastata, grazie al sacrificio di tanti dirigenti sindacali e politici comunisti, socialisti e cattolici, dalle vittime della strage di Portella della Ginestra e dal grande movimento contadino per la terre che portò alla scomparsa del feudo.
La mafia ha sempre saputo adeguarsi al mutamento della condizione economica e sociale del territorio, mutamento che dalle campagne la spinse ad operare nelle città, ampliando gli orizzonti dei propri affari parassitari e speculativi fino a giungere al grande business della droga e all'internazionalizzazione finanziaria dei tempi più recenti. La mafia da fenomeno locale, da fenomeno regionale è diventa questione nazionale ed internazionale.
Questo breve escursus serve per ricordare a tutti noi che la mafia ha sempre saputo adeguarsi ai tempi perché connessa soprattutto al sistema di potere economico e politico senza il quale non potrebbe esistere. La differenza rispetto al passato è che oggi, diversamente da ieri, tutti i partiti, i rappresentanti del potere economico e istituzionale si dichiarano contrari alla mafia senza più negarne l'esistenza, salvo a far riemergere, come abbiamo visto anche recentemente, il vecchio "sicilianismo", che in alcuni si traduce in un moto d'irritazione provocato non tanto dalla mafia ma dalle inchieste giornalistiche o giudiziarie sulla stessa.
La lotta alla mafia, quindi, come noi sosteniamo e come sostengono tutte le componenti del movimento antimafia del nostro Paese, è una lotta per la sicurezza che è connessa alla lotta per la libertà e alla lotta per lo sviluppo. Senza l'una non c'è l'altro. Se il Mezzogiorno e la Sicilia vorranno diventare la porta del Mediterraneo, della Cina, dell'India per l'Europa, essi dovranno essere liberi dalla mafia e dalla criminalità. Non c'è sviluppo senza sicurezza. Occorre perciò rilanciare una strategia antimafia adeguata al nuovo contesto nazionale e internazionale.
E' sempre stato così, storicamente non c'è solo la mafia ma anche l'antimafia, che probabilmente fa meno notizia, ma questo lo discuteremo nella tavola rotonda a fine seminario oggi pomeriggio. Ciò che mi preme evidenziare in questa premessa è che occorre assumere la questione mafia - o le mafie come dir si voglia per sottolinearne la diversità regionale, nazionale e internazionale - quale questione nazionale, europea e internazionale. Per cui occorrono relative e corrispondenti misure sia quando a Basilea, per fare un esempio, si affrontano i problemi del movimento dei capitali e dei rischi bancari in gran parte connessi anche all'esistenza di questo fenomeno, sia quando nel WTO si discute della libera circolazione delle merci nel mercato globale, una parte delle quali sono appunto controllabili dalle mafie, sia quando in Italia si discute della competitività del "sistema Italia" o dei sistemi regionali.
La mafia, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, la camorra condizionano pesantemente la crescita e la competitività del nostro sistema economico, attraverso un giro di affari calcolato in cento miliardi di euro tra droga, racket, prostituzione, appalti che rappresentano i settori storici d'intervento delle mafie. Solo il racket, secondo lo Svimez che utilizza i dati stimati da Sos Imprese, frutterebbe ventiquattro miliardi di euro annui per centosessanta mila vittime, il dato si riferisce al 2003, con costi complessivi per sessantatre miliardi di euro perché ad essi sono connessi non soltanto l'estorsione diretta ma anche gli effetti negativi indiretti. Quanto incide tutto ciò sul differenziale di rischio del credito erogato dal sistema bancario tra le diverse aree del Mezzogiorno o nei costi dei premi assicurativi? Le analisi economiche in tal senso di Centorrino, Marselli, Vannini e di tanti altri economisti che si sono cimentati nell'approfondimento di questa materia ci dicono che questa ha un costo eccessivo e che quindi andrebbe affrontato per rendere più efficace il sistema economico, per renderlo più competitivo, per renderlo più aperto.
D'altronde, l'insicurezza generale aggravata dal controllo territoriale della mafia non scoraggia gli investimenti e lo sviluppo? Come riconosce la stessa risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura del 2002 l'obiettivo del "pizzo" è economico perché tende a fare acquisire notevoli profitti politico-criminali, poiché orientato al controllo sistematico del territorio che per la mafia rappresenta il vero potere. Tutto ciò fa leva su una presunta convenienza degli imprenditori che avrebbero tranquillità e risparmio nei premi assicurativi, dimenticando che l'insicurezza è stata generata proprio da chi "vende" la sicurezza.
Quanto incide l'inefficienza della Pubblica Amministrazione e la farraginosità delle procedure autorizzative nel sistema di ricatto verso le imprese?
Non c'è dubbio che la mafia costituisce un grosso svantaggio, distorce il mercato, alimenta un prelievo aggiuntivo a quello dello Stato. Quanto agli imprenditori o sono vittime, o sono collusi, o sono organici ma, questo va sottolineato, ci sono anche quelli che si ribellano a questo sistema. Comunque c'è una distorsione depressiva nel processo economico soprattutto dal lato degli investimenti e della tutela dei diritti acquisiti, dei lavoratori, della sicurezza, del lavoro. La violazione delle regole di aggiudicazione degli appalti, dei finanziamenti pubblici, non appartengono, ovviamente, solo alle pratiche di soggetti mafiosi ma anche a soggetti diversi che usano metodi mafiosi.
Sul terreno economico lotta alla mafia significa ripristinare le regole del mercato, della concorrenza, attraverso controlli capillari e specifici. Ecco perché l'antimafia è anche riappropriazione da parte dei cittadini dello Stato. Ovviamente lo Stato non riesce a proteggere la società dalla mafia se la società non si trasforma essa stessa nella linea principale della resistenza antimafia. E' il compito che sul piano culturale, politico, ed economico debbono proporsi tutte le forze sociali, economiche, politiche, culturali e istituzionali.
Le proposte sulle quali ci sarà il più largo consenso dovranno servire anche alle rappresentanze politiche e istituzionali affinchè nella loro piena autonomia rilancino una strategia antimafia che ultimamente abbiamo visto abbassarsi notevolmente.
Il Seminario di oggi è stato preceduto da una lunga serie d'incontri con i giovani dell'associazione "Addio pizzo", dell'associazione "ContrariaMente", con le rappresentanze di categorie, le tre centrali sindacali che parleranno qui ad un'unica voce, i commercianti della Confcommercio e della Confesercenti, gli artigiani della CNA, i dirigenti delle tre organizzazioni agricole CIA, Coldiretti, Confagricoltura, dei sindacati di categoria regionali e provinciali, i dirigenti della Confindustria Sicilia che saranno qui presenti e che interverranno, i rappresentanti della FAI, dell'associazionismo antiracket che hanno avuto l'onere della prima linea di contrasto al fenomeno. Ci siamo incontrati con un numeroso gruppo di avvocati di Palermo per ascoltarne le esperienze e le proposte. Quanto segue, quindi, è un sunto di tutti questi incontri di cui responsabile è solo chi vi sta parlando.
Durante la preparazione del seminario abbiamo registrato le reazioni, "sicilianiste" e non, al servizio di Report ed a quelle di Blu notte; ma abbiamo anche approfondito le tematiche del convegno di Confindustria Sicilia e del Sindacato dei Magistrati, dell'assemblea dei giovani al Palasport, alla realizzazione della quale ha contribuito anche il Centro Pio La Torre, dell'assemblea dell'associazione Antiracket aderente alla FAI e per ultimo del convegno di Magistratura Democratica, tenutosi l'altro ieri in questa stessa sala, su "mafia e potere".
Dai giovani abbiamo colto, tra le altre, due proposte concrete e simboliche allo stesso tempo che facciamo nostre e che giriamo al Rettore e alle Università siciliane:
1. l'Università esoneri dal pagamento delle tasse universitarie i figli delle vittime di mafia, delle estorsioni e delle usure che hanno denunciato i loro persecutori;
2. si istituiscano cattedre, master, dottorati di ricerca sulla mafia, con visione interdisciplinare, per fornire alla Pubblica Amministrazione, alla società nel suo complesso, ai privati, quadri tecnici, sociologi, giuristi, storici, capaci di riconoscere e contrastare il fenomeno mafioso.
L'Università può orientare, come ha saputo fare nei momenti più difficili della nostra storia, le energie intellettuali e la ricerca per contribuire a liberare la Sicilia e il Paese dalla mafia. Essa, nella nostra storia, non è stata immune né alla mafia né all'antimafia, per questa ultima basta ricordare il sacrificio del professore Giaccone, un medico legale che fu ligio al codice professionale ed etico e per questo motivo ucciso dalla mafia. Il Centro Pio La Torre con i giovani dell'associazione ContrariaMente avvierà una serie di seminari e incontri nei vari istituti universitari per consentire agli studenti l'approfondimento ed il contestuale rifiuto delle logiche criminali proprie della mafia.
Nel corso di questi mesi ci sono state diverse iniziative promosse dal mondo del lavoro e dell'impresa asimmetriche rispetto al quadro politico il quale sembra mostrare invece scarsa attenzione verso il fenomeno criminoso.
Se non ci fosse stata la cosiddetta emergenza Napoli non saremmo venuti a conoscenza del fatto che già lì, da tempo, c'è gente organizzata in comitati per contrastare la camorra e il "pizzo" imposto dalla stessa, che a Napoli c'è un assessore alla tutela del cittadino e dell'impresa dal racket e dall'usura, esperienze che proponiamo di raccogliere e rilanciare in tutti gli enti locali siciliani estendendone le competenze al controllo e alla trasparenza degli appalti, nei subappalti e nella stessa efficienza amministrativa. Ci è giunta notizia che anche a Bagheria, qualche giorno fa, è stata approvata una delibera della giunta comunale che ha esteso le già preesistenti competenze dell'Ufficio per la gestione dei beni confiscati alla mafia.
Abbiamo registrato importanti prese di posizione da parte del mondo delle cooperative, basta guardare la proposta del codice etico avanzate dalla Lega delle Cooperative per le proprie associate, ma anche quelle relative alla definizione specifica del reato per chi paga il "pizzo". Tutti abbiamo letto la reazione del mondo del lavoro a Siracusa l'altro ieri contro la mafia, ottomila persone in piazza contro la mafia, il racket e gli attentati subiti dal sindacato per la sua azione di sostegno e di contrasto alla mafia. Qualche anno fa ci sono state iniziative simili promosse dal mondo agricolo a cui si sono sommate, necessariamente, le reazioni e le prese di posizioni del mondo artigiano, commerciale e industriale. Non è irrilevante che la Confindustria Sicilia o che la Confcommercio si pronunciano chiaramente in senso antimafia, quando sappiamo tutti che diversi loro soci o qualche loro dirigente è registrato sui libri mastri sequestrati dalla Magistratura nel corso di indagini antiracket. Le ipotesi di accordo che le parti sociali stanno discutendo, riguarderanno un accordo in senso antimafia delle parti sociali, dalla Confindustria ai sindacati alle altre Associazioni d'impresa.
Come fa, quindi, la resistenza antimafia a diventare da locale a nazionale? Proviamo a definire qualche tema. Le denunce sono poche - si dice - ma i procedimenti giudiziari e le condanne sono molte di più, anche se il dato ISTAT rileva un andamento decrescente per la Sicilia e addirittura del 28% a Palermo.
Se avessimo la specializzazione delle indagini accompagnate da tempi giudiziari brevi, non si favorirebbe il clima di fiducia del cittadino, della vittima? E se la vittima fosse considerata alla stregua - proposta che vogliamo avanzare - del "pentito" e fruisse di impunità fiscale o di altri vantaggi per la sua attività economica e per la sua sicurezza, non elimineremmo pretesti per chi ha paura e per chi sostiene che conviene pagare la mafia perché costa, tutto sommato, poco? E se si incoraggiassero le denunce collettive, la costituzione di parte civile delle associazioni e dei comitati antiracket, non si determinerebbe forse un crescente clima di solidarietà e fiducia? E se gli uffici delle Prefetture fossero potenziate e si creassero inoltre sportelli unici per l'assistenza alle vittime con responsabilità politiche certe in ogni settore della Pubblica Amministrazione nazionale e regionale, non avremmo più efficienza e celerità nell'applicazione delle leggi attuali sia nazionali che regionali? Sottolineo quella regionale perché, se sono state avanzate critiche nei confronti della legge nazionale, verso quella regionale - la legge 20 del 1999 - c'è da riflettere molto sull'impegno antimafia dell'attuale Governo regionale: fondi stornati nel 2004, in sei anni, sei responsabili amministrativi diversi per l'attuazione della legge, responsabilità politica trasferita dal Presidente della Regione all'Assessorato alla famiglia scaricando ogni responsabilità sul dirigente amministrativo di turno. Scarsa divulgazione o carente divulgazione dei contenuti della legge, compresa quella di anticipazione delle eventuali provvidenze nazionali ma, in compenso, pagamento di parcelle vistate dall'ordine professionale ad avvocati, ben superiori rispetto a quelle fissate dal giudice.
Inoltre, se il sistema bancario o quello assicurativo valuta la presenza della criminalità organizzata quale fattore di maggiore rischio, con la conseguenza di aumentare i tassi e i premi assicurativi o irrigidire le procedure, piuttosto di incoraggiare le imprese, non finiscono essi stessi per favorire, paradossalmente, la mafia che intendono combattere? La domanda è retorica, naturalmente. Se poi il Governo nazionale invece di aumentare le risorse a disposizione della lotta antimafia fa le bucce pure sulle spese delle intercettazioni telefoniche, come abbiamo sentito in queste ultime ore, o delegittima la Magistratura, non è lecito forse chiedersi se c'è una volontà politica vera di contrasto alla mafia? Se poi anche le forze storicamente più attente al monitoraggio del fenomeno mafioso si distraggono, in qualche momento, il quadro certamente non è incoraggiante. Ma noi abbiamo la presunzione di dimostrare che gli alti e i bassi sono connessi all'evidenza mediatica del fenomeno. Ci hanno segnalato, ad esempio, che in questa bistrattata città di Palermo, dove non esiste alcun comitato antiracket, tuttavia ci sono gruppi che forniscono assistenza legale capaci di fare comminare pene a estortori e usurai, promossi dalla Confesercenti, da SOS Imprese e da altre associazioni. Ci sono stati esempi silenti, senza clamore mediatico, di gruppi di commercianti del centro di Palermo che di fronte all'esattore di turno, si sono riuniti nella stessa strada e tutti insieme hanno deciso di non pagare. Sono ancora lì e continuano la loro attività credo, con grande profitto. Quindi, non tutti pagano, è possibile non pagare, ma occorre denunciare l'estorsione o il tentativo di estorsione o di usura che sono due fenomeni diversi ma purtroppo, molto spesso, connessi.
Per favorire la denuncia e il contrasto alla mafia occorre una forte volontà politica dei governi locali, regionali, nazionali perché si affermi la fiducia nello Stato che è più forte della mafia.
Proponiamo, quindi, miglioramenti della legislazione vigente per creare, talaltro, come per il "pentitismo", protezione, impunità fiscale per il denunciante attorno al quale occorre creare una rete di consenso sociale, culturale, tramite i comitati e le grandi organizzazioni sociali ed economiche. Queste devono scendere in campo pienamente con tutte le loro strutture organizzate capillari, territoriali. Il sostegno alla Magistratura e alle Forze di Polizia nella loro azione di contrasto deve essere concreta e non solo a parole. Il modo più concreto che conosco è quello di costruire un movimento antimafia di massa, autonomo, sul terreno dell'economia, della società e dei valori culturali e civili, affinchè non si esaurisca con l'emozione legata al dramma di turno. Oggi, essere riusciti a mettere insieme rappresentanze sociali, dell'impresa, delle associazioni di categoria, delle istituzioni, delle stesse rappresentanze politiche
lo considero un buon auspicio affinchè tutto non si chiuda alla fine dell'incontro pur proficuo e bello.
Grazie.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Bene, cedo adesso la parola al Magnifico Rettore dell'Università di Palermo, il professore Giuseppe Silvestri.


Professore Giuseppe Silvestri, Rettore Università di Palermo

Vi chiedo scusa per questo arrivo di corsa, ma oggi è una giornata un po' intensa per l'Università di Palermo ed io devo rappresentarla in tante occasioni.
Un saluto, un benvenuto alle numerose autorità presenti, agli ospiti che prenderanno parte a questo secondo incontro del ciclo di seminari su "Istituzioni, trasparenza ed educazione alla legalità".
L'Università di Palermo è fortemente impegnata su questo fronte così com'è impegnata su fronti che indirettamente contribuiscono alla lotta contro la criminalità organizzata, verso la mafia in particolare, affrontando il problema su un terreno che le è più congeniale vale a dire quello della cultura, della formazione, del contributo alla crescita sociale, culturale ed economica del territorio.
Noi, l'ho ribadito più volte, come struttura universitaria costituiamo nella lotta contro la mafia, contro tutte le mafie - le Università siciliane contro la mafia, le Università calabresi contro la 'ndrangheta, le Università campane contro la camorra ecc., ognuno ha in questa triste elencazione le sue peculiarità - quello che per un esercito è la sussistenza, noi siamo i soggetti che forniscono la base per l'affermazione dei valori positivi della società, per difendere il nostro diritto come collettività a darci delle regole, a vederle rispettate, il nostro diritto a crescere in un contesto nazionale e internazionale.
Noi siamo soggetti attivi - noi Università - parlo a nome oltre che dell'Università di Palermo, anche delle altre due Università siciliane di Catania e di Messina nella mia veste pro tempore di Presidente del Comitato Regionale di Coordinamento Universitario. Le Università siciliane vogliono, esigono il loro spazio in questo contesto e sono pronte a contribuire positivamente. Io vengo da una riunione alla Provincia dove si è aperto un tavolo per la costituzione degli atti che formeranno il documento base della Regione per Agenda 2013 e questo tavolo è orientato sulla ricerca e la innovazione tecnologica. Chiaramente, l'Università non poteva essere assente ad un appuntamento di questo genere. Sono andato a questo appuntamento per rappresentare questa istanza dell'Università di Palermo - il tavolo è provinciale - a contribuire con tutte le sue potenzialità alla crescita del nostro tessuto produttivo.
Noi abbiamo un tessuto produttivo fortemente minacciato dal racket delle estorsioni ebbene, contribuire alla crescita al necessario consolidamento economico del territorio, a dare dignità al soggetto operante sul campo mediante un messaggio propositivo derivante dalla percezione che una grossa istituzione come l'Università aiuta, dà supporto non soltanto da un punto di vista tecnologico ma fornendo un apparato che, anche se non coinvolto direttamente, risulta essere fortemente interessato a questa crescita. E' un elemento, per quanto mi riguarda, fondamentale in questo contesto.
L'Università di Palermo è vicina al tessuto produttivo non soltanto perchè abbiamo appena avuto nella Misura III.15 del P.O.R un contributo di circa cinque milioni di euro, più un milione di euro che danno le Università, sei milioni di euro per costituire dei laboratori di supporto alle aziende del territorio - anche se questo sarà importante - ma anche, perché, noi mettiamo a disposizione un apparato di studio, di indagine e di conoscenza. I nostri sociologi e psicologi sono interessati alla costruzione di una immagine positiva della legalità, una immagine positiva del ruolo che la parte sana della società svolge nel nostro processo di difesa, nel nostro processo di crescita. Ecco, io sono qui per testimoniarvi il nostro interesse a tutto questo.
Se adesso sono costretto ad andare via di fretta è perché siamo impegnati su tanti fronti come ad esempio sul fronte della difesa dei diritti delle Università nel momento in cui il Parlamento sta elaborando una legge che passa, lasciatemelo dire, sulla testa delle Università. Io devo andare a portare la testimonianza del nostro impegno, nostro come conferenza dei Rettori. Io, come sapete, faccio parte del direttivo e il direttivo della conferenza dei Rettori si è pronunciato con decisione a favore di interventi specifici per sanare alcune gravi carenze normative che ancora questo disegno di legge non sembra in grado di sanare. Andrò adesso a lavorare anche su questo, e oggi pomeriggio avremo un consiglio di amministrazione nel quale dovremo elaborare numerose misure positive su convenzioni in favore di enti e di strutture che sono nel nostro territorio. Ecco, su questo il nostro Ateneo è fortemente impegnato. So, perché ne avevamo parlato prima con Vito Lo Monaco, che avrebbe fatto un intervento facendoci delle proposte e avanzando delle ipotesi operative. Io, oggi pomeriggio, nelle comunicazioni, porterò al Consiglio di Amministrazione queste proposte, e in particolare, quella che riguarda l'esonero dalle tasse per i giovani che provengono da famiglie coinvolte in processi riguardanti il racket e le estorsioni, e le cui imprese sono in difficoltà. Naturalmente non sta a me decidere, perché io sono solo il Presidente del Consiglio di Amministrazione, ma sono sicuro che il Consiglio ascolterà e valuterà con attenzione questa proposta, così come abbiamo deliberato positivamente, su proposta di un rappresentante degli studenti, l'esenzione dalle tasse e borse di studio per i figli dei dipendenti della Sicilfiat nel momento in cui l'azienda viveva la sua crisi più grave.
Lo stesso si dica per altre iniziative didattiche. Il master ad esempio è un aspetto della didattica mirato ad uno scopo preciso, applicativo di solito. Avere dei soggetti che siano in possesso, nelle amministrazioni, pubbliche di conoscenze relative a questa tipologia di reato particolarmente insidiosa, strisciante che non viene nella stragrande maggioranza dei casi denunciata, ed essere capaci di decodificarne le caratteristiche, sulla base di tutta una serie di elementi e nello stesso tempo essere in grado di dare istruzioni per controbattere, per resistere, per affermare il nostro diritto ad una società sana, una società come le altre, una società nella quale si possa vivere e confrontarsi serenamente in un mercato che non sia viziato o stravolto da logiche perverse, ecco questo è un altro impegno che io intendo portare e posso portare con la convinzione che tanti colleghi che studiano l'evoluzione di questa società e non soltanto nell'Università di Palermo - vedo il collega Centorrino che sicuramente porterà questo contributo anche per l'Università di Messina - raccoglieranno come me questa sfida, che è una sfida propositiva per fare, per dare competenza, per dare capacità reattiva alla nostra società.
Se non resto qui, vi ripeto, non è per disinteresse, perché come vedete, sono fortemente interessato allo sviluppo di questi temi, ma perché altrettanto importanti temi, in questo momento, si stanno dibattendo proprio oggi in questa sede e quindi fra poco sarò costretto a lasciarvi.
Grazie comunque per la vostra attenzione e buon lavoro.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringraziamo il Magnifico Rettore non solo per l'ospitalità ma per il contributo che ha voluto dare alla nostra iniziativa. Siamo convinti che nel prosieguo, anche attraverso il coinvolgimento di questa realtà giovanile che a Palermo si è affermata grazie all'impulso dei giovani dell'associazione "ContrariaMente" - mi riferisco all'iniziativa dei manifesti "antipizzo"- riusciremo a definire, in maniera concordata, una più persistente battaglia politica e culturale.
Dò adesso la parola al professore Mario Centorrino docente di Economia all'Università di Messina.


Professore Mario Centorrino

Grazie Onorevole Mannino, grazie dell'invito e di questa possibilità eccezionale di confronto.
Io vorrei partire, in questa breve relazione, da una domanda che poi mi sembra la madre di tutte le domande: "Quale segnale cogliere dall'assenza di partecipazione all'incontro sui temi della lotta ai reati mafiosi contro l'economia, organizzato nelle scorse settimane a Palermo, dall'Associazione Nazionale Magistrati e da Sicindustria? E' un'assenza significativa, simbolica potremmo dire, che si somma al lungo elenco di imprenditori che vediamo citati nei vari libri mastri che l'azione della Magistratura e l'azione delle Forze dell'Ordine, sempre encomiabile, via via scoprono. Libri mastri che contengono piccoli e grandi nomi di grandi e piccoli operatori, che si somma ad un terzo elemento che emerge dai sondaggi, dalle inchieste, inchieste che quando vengono condotte sulle motivazioni degli imprenditori, sulle contrarietà che incontrano gli imprenditori nella loro azione, mettono sempre in rilievo, come prima risposta, non la criminalità come sarebbe logico aspettarsi ma altre variabili per esempio la burocrazia. Che cosa significa? Come si può interpretare questa specie di disaffezione delle vittime rispetto al processo che le rende vittime? A mio parere, una risposta potrebbe essere una sorta di ipotesi di lavoro su cui ragionare vale a dire che, probabilmente, oggi all'impegno delle Forze dell'Ordine, dei magistrati, a quello che io chiamo l'associazionismo di prima generazione dovrebbero necessariamente affiancarsi mobilitazioni di soggetti istituzionali, rappresentanti di interessi, attraverso l'adozione di codici etici, il rispetto dei quali vincola le singole imprese all'adesione alle stesse e ne costituisce, altresì, una sorta di marchio di qualità o comunque criterio premiale per il profilo fiscale o all'interno di graduatorie per la concessione d'incentivi. Chiamiamolo con uno slogan "il bollino blu" della legalità da fare assegnare, ad esempio ad una authority indipendente che costituisca una sorta di elemento premiale per l'aggiudicazione d'incarichi e di commesse. Ma prima di cimentarsi sulle azioni pratiche, sulle policy, proviamo un attimo a ricostruire, se possibile, le ragioni che rendono in questo momento più acuta la disaffezione degli imprenditori verso il problema, le vittime che quasi si arrendono al loro stato.
Vito Lo Monaco nella sua relazione ha quantificato bene il giro d'affari delle estorsioni, reato che si traduce anche, com'è noto, in un controllo del territorio, delle sue traiettorie di crescita, perfino della dinamica dimensionale delle imprese e che ormai non costituisce più una sorta di devianza residuale, ma una sorta di tassa-ombra generalizzata, in tutte le aree a penetrazione mafiosa. Le imprese sembrano impossibilitate ad evaderla - a differenza di altre tipologie di imposte - però la possono sempre traslare sui consumatori. Ma tutto questo è ben conosciuto e credo non meriti particolare approfondimento. Credo, invece, che meno conosciuto sia lo studio dell'estorsione quale primo segmento di una filiera criminale più ampia e che va sempre più consolidandosi.
Per fronteggiare un'estorsione si finisce molto spesso, lo ricordava Vito, col ricorrere al cosiddetto credito parallelo, ancor più se il preannunzio minaccioso dell'estorsione spesso si concretizza in anonimi attentati, inducendo le banche a razionare il credito verso l'azienda presa di mira, per paura di un sopraggiunto innalzamento del grado di rischio. Non sto parlando di un'ipotesi, sto parlando di un elemento che è stato validato da ricerche nelle aree a penetrazione mafiosa dove più alto è il numero di estorsioni denunziate, numero di estorsioni che è sempre una sorta di numero approssimativo perché le estorsioni sono un reato occulto. In queste aree si riscontra che sono più alti i tassi d'interesse. Questo vuol dire che le banche, evidentemente, ritengono che ci sia un grado di rischio maggiore in quelle aree e si premuniscono alzando i tassi d'interesse.
Poco conosciute, e quindi utilizzate, sono le facilitazioni nell'adempimento del carico tributario legali pur ottenibili. Sicché dall'indebitamento per usura all'appropriazione da parte della criminalità organizzata dell'azienda in questione il passo è breve. Stiamo parlando di un'accumulazione di capitali illegale a ciclo completo, quindi, quella basata sulle estorsioni, ivi incluso probabilmente un accurato riciclaggio di proventi illeciti con appropriato reinvestimento degli utili.
Questo modello di accumulazione illegale, qui sommariamente ricostruito alimenta un fiorente mercato del lavoro assai più vitale rispetto a quello delle statistiche ufficiali e finanzia il mantenimento dei componenti delle varie cosche, se carcerati, oltre ovviamente le conseguenti spese giudiziarie e una "polizza assicurativa" per la famiglia. Si "paga" così il sacrificio di detenzioni che comunque permettono la libertà di altri componenti e quindi il permanere della filiera. Il modello configura un nucleo forte di economia che, prima confinato in un'area grigia, va lentamente ma inesorabilmente costituendo addirittura in questi anni asse portante di sussistenza in vari quartieri urbani. Poco si coglie ancora la sua sovrapposizione alla politica dei sussidi. E' ragionevole pensare che oggi l'economia illegale supplisce i tagli che la ridimensionano e ridisegna ruoli, gerarchie sociali, stili di vita all'interno dei quartieri urbani cui prima si accennava.
Torniamo allora alla domanda iniziale. Perché gli imprenditori sono disaffezionati rispetto alle denunzie? Io credo che non ci sia soltanto paura, asettico calcolo costi- benefici, mancanza di fiducia nelle istituzioni a demotivare partecipazione e protagonismo nella lotta contro il racket. C'è piuttosto una consapevolezza diffusa che, malgrado l'indubbio impegno della Magistratura e delle Forze dell'Ordine, la denunzia auspicata intaccherebbe solo il primo segmento della filiera, una filiera così facilmente riproducibile, senza, essere ostacolata dalla mancanza dei segmenti primari. Se la filiera, con le denunzie, non si può interrompere, perché allora non rassegnarsi a pagare silenziosamente un prezzo che peraltro è calmierato, si può pianificare nei bilanci, come abbiamo visto si può anche traslare sui consumatori, mettendosi al riparo della potenziale vendetta degli associati e approfittando della convenienza del cosiddetto "contratto di protezione". Su questo vorrei spendere un minuto. L'estorsione mafiosa si caratterizza per la minaccia strisciante, cioè non esplicitata né con le parole, né necessariamente con atti intimidatori ma, alimentata dall'appartenenza di chi la compie, nota alla vittima o opportunamente pubblicizzata, ad un'organizzazione ritenuta capace di azioni violente. Ma nulla esclude che l'imprenditore, invece di attendere l'inevitabile richiesta di denaro da parte del mafioso preferisca, anche per evitare possibili danni provenienti dalle stesse organizzazioni criminali o dalla criminalità comune, rivolgersi preventivamente ai soggetti che operano sul territorio, stringendo un accordo che gli assicuri la protezione dietro pagamento di un corrispettivo. In un caso del genere, che peraltro è frequente nella casistica criminologica, come probabilmente ci dirà il dottore De Lucia, per il solo fatto di pagare il "pizzo" l'imprenditore non diviene partecipe o concorrente esterno dell'associazione mafiosa, piuttosto si adegua alla legge imposta dall'associazione; in altre parole, subisce l'assoggettamento omertoso, senza supportare l'attività della consorteria in forme diverse dal pagamento della protezione e senza ottenere particolari vantaggi se non quello di sottrarsi all'inevitabile azione dannosa proveniente dal gruppo criminale. Sto citando un'Ordinanza del Tribunale di Messina a proposito di un caso recente "Messina Ambiente" dove, appunto, gli imprenditori che hanno ritenuto di doversi giovare del "contratto di protezione" mafiosa, così come l'ho definito, non sono stati imputati del reato di associazione mafiosa. Di fronte a questo, chiediamoci perché un imprenditore non potrebbe ritenere il "contratto di protezione" mafiosa assai più "conveniente" rispetto che la denunzia.
Questo "modello" appare oggi diffuso e pervasivo, peraltro poco esplorato, in qualche modo "coperto" nell'attenzione da un "modello" più tradizionale. Invece nel
"modello" più sofisticato c'è anche l'imposizione di manodopera, l'adesione a cartelli di distribuzione di merce, la disponibilità comunque di offrire i servizi che il soggetto criminale ritiene necessari. In sostanza, si entra in una "rete", addirittura superando zone grigie o linee di divaricazione.
Quale considerazione generale possiamo ricavare da questa sommaria annotazione per un'analisi di più ampio respiro che, forse, attende ancora di essere intrapresa?
Io penso che si renda assolutamente necessaria una rilettura del rapporto tra mafia e società nel suo complesso (economia, politica, istituzioni) e questo alla luce di alcuni recenti segnali:
1. la scoperta di rapporti tra mafia e politica finalizzati ad un "governo" comune, non più quindi a forme di reciproche deleghe;
2. l'assuefazione alla convivenza con la mafia testimoniata dal "fastidio" con il quale si accolgono richiami di livello "nazionale" alla presenza della mafia (mentre a livello locale questi richiami appaiono, talvolta, ripetitiva liturgia);
3. l'assenza di partecipazione a manifestazioni significative.
A me sembra che dopo una lunga stagione di doppio-Stato, doppia-economia, allargarsi o restringersi di zone grigie, oggi ci troviamo di fronte ad una vera e propria offerta politica mafiosa che è in grado di sostituire altre offerte politiche deboli, che risponde ad un bisogno di politica intesa come mediazione e regolazione, che permette una sopravvivenza economica in aree non toccate dalle dinamiche di crisi, ma neanche da processi di sviluppo o innovazioni, se non in modo marginale. Questa offerta politica mafiosa coinvolge operatori economici, finanzia un suo mercato del lavoro, determina scelte importanti senza invischiarsi in assistenza e clientelismo. L'eliminazione di delitti eccellenti non solo la legittima ma ne distoglie oltremodo attenzione. Dentro l'offerta politica mafiosa finiscono col convergere pezzi di politica, parti di istituzioni, perfino quote del sistema produttivo, con tre obiettivi:
1. si determina un modello economico che in assenza di sviluppo si sostituisce all'economia "assistita" oggi messa in crisi dai tagli fiscali;
2. non si alimentano tensioni nel mercato del lavoro ufficiale;
3. si garantiscono settori protetti e rendite parassitarie: emblematica in questo senso è la penetrazione mafiosa in due settori "nuovi", amplissimi, l'"economia dei rifiuti" e l'"economia della sanità".
Appunto, questo inserimento permette di superare forme tradizionali di compartecipazione. L'offerta politica mafiosa nel suo complesso è come se non permettesse più di distinguere l'origine mafiosa o meno dei soggetti che la incarnano.
Contro questa nuova configurazione del potere mafioso, io credo sono possibili policy a breve periodo, codici di autoregolamentazione, ma anche probabilmente un nuovo sussulto etico che scuota l'intera società.
Occorre rendersi conto che la mafia non è prodotto organico e non intenzionale dell'azione egoistica di più soggetti. Ne è un prodotto dell'attività intenzionale di questi stessi soggetti. Oggi, la mafia è, piuttosto, l'espressione di una consapevole azione collettiva da parte di soggetti razionali che, paradossalmente, attraverso la mafia è come se tendessero ad accrescere l'efficienza del sistema. Questo mi sembra un'ulteriore ragione per combatterla in tutte le sue manifestazioni.
Un'ultima annotazione con riferimento alle proposte di Vito Lo Monaco per le Università. Decisamente interessante e senz'altro da approvare, secondo quanto diceva il Magnifico Rettore Silvestri, la proposta delle borse di studio, attenzione però sui corsi. Le Università siciliane oggi fanno corsi, Magnifico, fanno corsi sulla mafia. Hanno un grande impegno di studio e un grande impegno di ricerca, hanno un grande impegno di presenza in tutto il territorio nazionale. Nelle Università siciliane si scrivono libri e sono libri apprezzati e citati. Nelle Università siciliane, continuamente si fanno corsi con la partecipazione dei magistrati. Non sempre le Università siciliane ricevono dagli Organi istituzionali preposti il giusto riconoscimento per queste attività e questo lo vorrei dire a chiare lettere pretendendo che le Università siciliane vengano considerate Università dove si studia e si fa ricerca al pari di tutte le altre Università nazionali.


Professore Giuseppe Silvestri, Rettore Università di Palermo

Professore Centorrino non posso che sottoscrivere quello che hai detto ma, naturalmente, la mia proposta operativa era molto più circoscritta, cioè studiamo questo fenomeno particolare, non intendevo minimamente dire che era l'unico.
Non sono io il destinatario della tua, diciamo, appassionata richiesta di attenzione perché so bene il lavoro che si fa nelle nostre Università, ci tengo a precisarlo. Sono ben lieto che tu lo abbia detto se poteva esserci qualche dubbio. Da parte mia era soltanto una proposta ulteriore di approfondimento su una tematica molto specifica che viene evidenziata nell' argomento di oggi.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Bene, ringraziamo il professore Centorrino, di cui conosciamo l'appassionato impegno, e do adesso la parola al dottore Maurizio De Lucia, Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo.

 


Maurizio De Lucia, Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo

Grazie, io devo innanzitutto ringraziare, e ringraziare perché sono stato invitato a questo convegno ma anche perché questo intervento mi dà subito l'occasione di rivolgere un pensiero alla Polizia di Stato, ai Carabinieri, alla Guardia di Finanza, un pensiero che mi viene dopo la notizia della morte in servizio di due appartenenti alla Polizia di Stato questa mattina. E' accaduto lontano da qui, ma in qualche modo ci coinvolge.
Questo è un seminario importante dove discuteremo di cose importanti, ma quello che non dobbiamo mai dimenticare è che in prima linea contro l'illegalità ci sono soprattutto loro, poliziotti, carabinieri e finanzieri in divisa, tutti i giorni e tutte le notti.
Detto questo, che sentivo davvero di dire, il mio intervento naturalmente è un intervento che muove da esperienze mie personali e dell'Ufficio che rappresento, dunque, non vi è nessuna pretesa di completezza e di scientificità è il portato proprio di esperienze, possiamo dire oramai decennali, nel contrasto alla criminalità organizzata in generale e, in particolare, al fenomeno estorsivo. Le due cose però sono intimamente connesse tra loro soprattutto nella realtà palermitana.
Nella realtà palermitana non si può parlare di racket e quindi di contrasto al racket se non si tiene conto che il racket è una delle forme di manifestazione dell'organizzazione criminale Cosa Nostra questa è, secondo me, una delle ragioni principali per le quali le associazioni antiracket fino a questo momento a Palermo hanno fallito. Hanno fallito perché, mentre nel resto d'Italia il fenomeno estorsivo è un fenomeno che viene da fuori e che cerca di coinvolgere gli imprenditori, i commercianti, a Palermo è diverso. A Palermo c'è un fenomeno mafioso radicato anche storicamente sul territorio. In relazione a questo fenomeno è paradossalmente il commerciante che vuole iniziare una nuova attività che si deve misurare con il fenomeno mafioso stesso. Sì! deve domandare il permesso, nel senso che se a Verona qualcuno vuole iniziare un'attività estorsiva è l'estortore ad avvicinarsi al commerciante che magari è sulla piazza da anni o da decenni e gli chiede il "pizzo". E' qualche cosa che da fuori entra nella realtà economica del territorio. A Palermo se un commerciante decide d'intraprendere un'attività, è lui che si deve avvicinare all'organizzazione criminale che governa quel territorio e trovare un accordo con questa organizzazione. Questo avviene con riferimento al commercio al dettaglio, al piccolo commercio, in maniera sistematica quantomeno in tutti i quartieri periferici di Palermo; abbiamo ragione di ritenere anche in diversi quartieri centrali della città. Possiamo dire che a questo meccanismo sfuggono soltanto le imprese della grande distribuzione per due motivi: intanto perchè hanno un sistema di sicurezza esterno tale da rendere difficile e poco conveniente all'organizzazione mafiosa agganciarli e chiedergli il "pizzo" e poi, perché vengono da fuori. In questo caso siamo in presenza di dirigenti che non hanno conoscenze locali, che sono destinati a restare in città due tre anni e ad andarsene. Questo rende molto difficile quell'approccio soft che la mafia usa per avvicinare il commerciante al quale deve chiedere il "pizzo". Non vi sfuggono, invece, i più importanti esercizi commerciali quando questi abbiano la loro radice nella città di Palermo, questo perché gli imprenditori sanno con chi si devono misurare e soprattutto i mafiosi conoscono i canali attraverso i quali avvicinare questi soggetti. Non vi sfuggono neppure le imprese che agiscono nel settore degli appalti, soprattutto degli appalti pubblici, ma per esse il fenomeno assume delle connotazioni molto diverse. Non c'è, sulla base di quello che è il portato delle nostre indagini, un rapporto di esclusiva sottomissione e subordinazione dell'imprenditore che partecipa ad un sistema di appalti all'organizzazione mafiosa alla quale versa il "pizzo" generalmente nella misura del 3% rispetto al lavoro. Qui c'è un rapporto che è anche di convenienza per l'imprenditore che ha il rapporto con la mafia, perché la mafia gli garantisce non soltanto la cosiddetta "protezione" ma gli garantisce dei "servizi" ulteriori e importanti, in particolare, la possibilità di pianificare i propri lavori. La mafia si fa garante di un sistema di turnazione nella gestione degli appalti che consente a ciascun imprenditore di ricevere, quando sarà il momento, il suo appalto senza correre i rischi che gli vengono da un mercato aperto alla libera concorrenza. E' un beneficio grosso che l'organizzazione imprenditoriale trae dal rapporto con la mafia in cui il vero danneggiato non è tanto l'imprenditore quanto il sistema in sé, perché è chiaro che quel 3% che la mafia andrà a riscuotere sarà poi recuperato dall'imprenditore che paga, attraverso l'aumento dei prezzi o attraverso meccanismi di revisione prezzi o attraverso meccanismi che, comunque, come le frodi alle forniture, consentono di lucrare dall'appaltante pubblico il denaro che poi la mafia stessa incasserà. Un dato però è certo e non può essere messo in discussione, che le estorsioni sono una delle attività principali dell'organizzazione mafiosa e in particolare dell'organizzazione Cosa Nostra e che attraverso le estorsioni l'organizzazione ottiene benefici per se stessa: da un lato ottiene considerevoli profitti con diverse modalità di realizzazione sul piano operativo, dall'altro ottiene un sistematico controllo del territorio sul quale l'organizzazione stessa agisce, sostanzialmente sostituendosi allo Stato nella riscossione delle "tasse" e nell'assicurare i corrispettivi servizi di protezione e riuscendo, in questo modo, ad ottenere "consenso" dalle sue vittime.
Nel tempo, le regole e le strategie di intervento della mafia, in relazione alla realizzazione di questo tipo di delitto, sono mutate secondo una logica di flessibilità che è caratteristica dell'organizzazione Cosa Nostra e che già in passato ne ha consentito la sopravvivenza e la "resurrezione" rispetto a crisi anche gravi che l'avevano colpita. Penso al periodo intorno agli anni sessanta, ad esempio, o alla grande crisi di fine anni settanta che poi portò al triunvirato e successivamente all'istituzione della Commissione. In tutti questi casi l'organizzazione non ha mai cessato di esistere ma ha sempre conservato le sue strutture soprattutto sul piano "culturale", modificandosi all'occorrenza secondo criteri elastici. Se in passato l'organizzazione mafiosa, militarmente molto forte, e con considerevoli entrate che provenivano soprattutto dal traffico di stupefacenti, selezionava le sue vittime, in tema di estorsione, scegliendo solamente tra gli esercizi commerciali di maggiore rilevanza economica ed imponendo agli stessi, tangenti estorsive di importo molto elevato, almeno dal 1993 questa strategia è mutata e permane tuttora, nel senso che, alle grosse richieste di "pizzo" si sono sostituite le riscossioni cosiddette a tappeto per singole zone della città, che vedono coinvolte tutte le attività economiche, anche le minori, sia pure con contributi minimi in termini economici. Questa scelta consente all'organizzazione mafiosa di realizzare una serie di vantaggi, ed è dettata sostanzialmente da due fattori: in primo luogo, in questo modo, il controllo del territorio e la presenza sullo stesso dell'organizzazione criminale diviene manifesta a tutti, senza la necessità di dover ricorrere a dimostrazioni eclatanti quali gli omicidi, che inevitabilmente portano ad una maggiore attenzione da parte dello Stato. Un omicidio fa notizia, dieci danneggiamenti delle vetrine di dieci negozi della stessa strada no e questo le organizzazioni mafiose lo hanno compreso prima di chiunque altro. E' soprattutto per tale ragione che all'atto violento esse tendono a ricorrere solo se questo costituisce l'extrema ratio. Abbiamo esempi di commercianti che si sono rifiutati di pagare e sono stati lasciati in pace, diversa sarebbe stata la reazione se questi commercianti oltre a rifiutarsi di pagare avessero anche pubblicizzato il loro no al pagamento del "pizzo". Questo sarebbe stato un rischio non accettabile, ci dicono i collaboratori di giustizia, per l'organizzazione mafiosa, e a questo rischio l'organizzazione mafiosa avrebbe dovuto rispondere in forma violenta. L'altra ragione della scelta del cosiddetto meccanismo di estorsione a tappeto, pulviscolare di pressione estorsiva è che questa riduce il rischio che si profila quando si effettuano
richieste per centinaia di milioni a pochi grossi imprenditori. Perché queste richieste possono comunque determinare qualcuna delle vittime a rompere il muro dell'omertà, superando il peso che la minaccia comporta, con conseguente individuazione ed arresto dei responsabili e con la reale possibilità da parte dello Stato di apprestare misure di protezione di carattere "militare", nei confronti del denunciante. Trattandosi di una singola persona o famiglia che denuncia il rischio è possibile, ed è possibile approntare misure di sicurezza sul territorio tali da garantirne l'incolumità.
Rimane fermo, comunque, che da un lato la vita della vittima e della sua famiglia subisce un mutamento radicale, ed in peggio, sul piano della libertà di movimento e di tutela della privacy oltre che su quello psicologico e dall'altro lato, l'attività economica rischia di essere definitivamente compromessa.
Come l'organizzazione criminale realizza il meccanismo perverso della riscossione estorsiva? Intanto, abbiamo detto, per quanto è possibile si evitano attentati clamorosi che, appunto, abitualmente si attuano attraverso la collocazione di bombe che fanno esplodere i negozi del commerciante recalcitrante. Si è scelto un meccanismo diverso che consiste nell'utilizzare i giovani a disposizione dell'organizzazione, per porre in essere una serie di danneggiamenti minimi (il caso classico oramai noto anche alla cronaca è quello dell'apposizione di colla tipo attak nelle serrature dei negozi) che, comunque, per il commerciante, proprio perché è un commerciante palermitano che conosce le dinamiche dell'organizzazione mafiosa, hanno un significato assolutamente univoco. Il significato dell'attak è pari al significato delle bombe per chi è abituato a vivere in questa città.
Un altro profilo rilevante, che ha una defluenza diretta sul tipo di controllo che l'organizzazione mafiosa esercita sul territorio e che consente alla stessa addirittura di ricavare consenso dal suo stesso delitto, riguarda il volto con il quale la mafia fa pervenire il primo messaggio, si presenta all'estorto. Cosa accade: arriva una telefonata anonima, arriva qualcosa del genere e con una richiesta di denaro congrua (venticinque mila euro, cinquanta mila euro) al commerciante che ha appena iniziato la sua attività. Il commerciante non denuncia perché sa che andrebbe incontro ad una rappresaglia dell'organizzazione mafiosa, ma la stessa organizzazione mafiosa gli offre la possibilità dello sconto. Viene indicato il "cercasi un amico" che è un messaggio che noi abbiamo trovato su lettere anonime fatte arrivare ai commercianti, che abbiamo intercettato in conversazioni telefoniche. "Cercati un amico" vuol dire che è lo stesso commerciante a dovere individuare nel quartiere quel personaggio mafioso, vicino l'organizzazione mafiosa che si incaricherà della questione, che addiverrà ad una trattativa con l'organizzazione mafiosa e ad un fortissimo sconto rispetto alla prima richiesta dell'organizzazione stessa. Questo comporterà che il commerciante non soltanto pagherà, ma entrerà in un rapporto perverso con l'organizzazione mafiosa attraverso questo soggetto. Alcuni collaboratori lo definiscono la "scarica", perché questo soggetto diventa l'amico del commerciante vittima, diventa il "volto buono" dell'organizzazione al quale rivolgersi se c'è un problema. Se c'è stato un periodo in cui gli introiti sono stati minori e quindi c'è una certa difficoltà a pagare il "pizzo" o se c'è stato un lutto in famiglia in questo caso l'organizzazione, spesso, rinuncia o ritarda la richiesta del "pizzo" per quel dato periodo. Si innesca quindi un meccanismo flessibile rispetto al quale il commerciante stesso, la vittima, ha davanti a sé non un carnefice ma quello che egli pensa essere un "volto amico". E' questa una delle linee pericolosissime attraverso le quali poi si innesca quella filiera illegale, alla quale faceva riferimento anche il professore Centorrino, che è una via diversa da quella del ricorso al credito nero, e quindi al meccanismo usuraio, ma che arriva allo stesso risultato: l'amico sarà quello che poi chiederà di assumere il picciotto che è appena uscito di galera e che ha bisogno di dimostrare di avere un lavoro per potere usufruire di tutti i benefici che la legge consente a chi è uscito di galera. Sarà un lavoro apparente ma lui risulterà impiegato, e sarà un favore che il commerciante ha fatto alla mafia. Questo picciotto potrà "crescere" e un giorno si presenterà al commerciante dicendogli che non sarà più da considerarsi dipendente, ma socio di fatto dell'imprenditore che era pulito, e quel negozio, quelle attività commerciali che erano pulite cominciano a diventare grigie. Arriverà il momento in cui quel picciotto sarà il proprietario del negozio e il padrone di un tempo, se vorrà rimanere, dovrà diventare egli dipendente di quel picciotto frattanto diventato uomo d'onore. E la mafia avrà conseguito un altro risultato enorme, cioè quello di essersi impossessata di una parte di economia legale e di uno strumento formidabile di riciclaggio. Entrare in un'azienda sana vuol dire impadronirsi delle sue scritture contabili, vuol dire impadronirsi dei suoi rapporti leciti, vuol dire poter trasformare quanto viene dalle attività illecite in attività lecite. Il vero problema, quindi, non è soltanto resistere al "pizzo" per non pagare la pretesa di primo livello dell'organizzazione mafiosa, ma è resistere al "pizzo" per riuscire a tenere sana un'economia che sempre più è a rischio quando il fenomeno estorsivo è così forte com'è purtroppo in Sicilia di questi tempi.
E che sia forte noi lo desumiamo da tutta una serie di indicatori fra i quali l'ultimo, purtroppo, sono le denunce che i commercianti fanno. Queste denunce a Palermo sono addirittura in controtendenza, ne scende il numero. Io però mi chiedo quando mai è salito, perché la nostra esperienza professionale ci consente di contare il numero degli imprenditori che hanno denunciato i propri estortori sulle punte delle dita di una mano. Allora gli indici dai quali noi desumiamo la presenza del fenomeno, sono dati da altri dati:
1. dal numero dei danneggiamenti, di quei piccoli danneggiamenti che si verificano nei vari quartieri. Abbiamo provato, ad esempio, a chiedere alla Polizia di analizzare quante nuove serrature venivano apposte ai lucchetti, agli ingressi di negozi su una stessa strada ed abbiamo scoperto che in alcune zone c'era il cambio totale delle serrature dei lucchetti nello stesso giorno, il ché consente di desumere che la richiesta di "pizzo" in quella strada era avvenuta se non il giorno prima, pochi giorni prima per tutti;
2. un altro indicatore è quello, ma su questo ho molte riserve, delle denunce anonime, perché queste indicano genericamente chi riscuote il "pizzo" senza consentire agli investigatori di potere sviluppare appropriate indagini su quel caso.
E poi la denuncia anonima, di cui pure si è parlato di questi tempi, è uno strumento che francamente mi lascia fortissimamente perplesso. Mi lascia fortissimamente perplesso perché non ha nessun diritto di cittadinanza nel nostro sistema giuridico e, devo dire, neppure nel nostro sistema sociale. Abbiamo scelto, con la modifica dell'art. 111 della Costituzione di porre al massimo livello della nostra gerarchia delle fonti giuridiche il principio per cui ciascuno ha il diritto di difendersi in un pubblico dibattimento dal suo accusatore conoscendone l'identità. Non vi è alcun dubbio che questo principio vale per tutti e vale anche per i mafiosi. Noi possiamo processare cento persone col convincimento che queste cento persone sono mafiose, novantanove lo saranno, è possibile per mille ragioni che il centesimo non lo sia. A tutti non possono non essere garantiti gli stessi diritti. La denuncia non può essere anonima, la denuncia deve essere pubblica. Può essere collettiva, e questa è la soluzione migliore, nel senso che siano in tanti ad indicare per nome e cognome il proprio estortore, fornendo al contempo le proprie generalità, perché anche quell'estortore ha il diritto di difendersi. Il problema è che questo ha dei costi, ma sono costi che la collettività ha già accettato, sul piano teorico, di sopportare. Bisogna rendere la copertura di questi costi effettiva. Il tipo di processo che noi abbiamo scelto è un processo profondamente democratico che tuttavia ha tutta una serie di disfunzioni che devono essere migliorate. Comporta tutta una serie di costi che devono essere affrontati soprattutto sotto il profilo della tutela delle vittime dei reati, ed in particolare naturalmente delle vittime delle estorsioni. Ma scorciatoie, da questo punto di vista, io non ritengo possano essere possibili. Di fatto le due più rilevanti fonti di accertamento dell'esistenza delle notizie di reato in tema di estorsioni sono date dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dalle attività d'intercettazione di conversazioni operata dalla Polizia Giudiziaria in indagini ad ampio spettro che hanno come fondamento il delitto di cui all'art. 416 bis c.p.
Sono due fonti esterne alle vittime del reato, e sono due fonti tutte e due in questo momento a rischio perché, di fatto, il numero delle collaborazioni con la giustizia è diminuito e perché costantemente sui giornali sono riportate dichiarazioni e polemiche relative ai costi delle intercettazioni.
Non c'è alcun dubbio che le intercettazioni costano però, anche qui, è un problema di scelta che la società deve fare. Ridurre il costo delle intercettazioni vuol dire, certamente, ridurre il numero dei processi in tema di estorsione ma non vuol dire, naturalmente, ridurre le estorsioni. Ripeto, il problema cessa di essere un problema semplicemente giudiziario e diventa un problema politico su quanto si vuole investire in relazione a questo fenomeno tenendo però sempre ben presente che se la legalità ha un costo, l'illegalità certamente ha un costo maggiore.
L'atteggiamento della vittima del reato in relazione al delitto di estorsione può essere molto variegato. Nessuna questione, ovviamente, si pone nel caso della spontanea dichiarazione di denuncia dell'estorsione, semmai si pone qui un problema di tutela del denunciante. Problemi invece ve ne sono dove la prova dell'estorsione sia stata acquisita aliunde, attraverso gli strumenti che ho sopra indicato. In tali casi bisogna chiedersi perché la vittima non ha denunciato.
In ambito di delitti di criminalità organizzata, non può non ritenersi che la paura di ritorsioni giochi un ruolo rilevante. Ma proprio le modalità con le quali si atteggia il reato di estorsione posto in essere da organizzazioni criminali, modalità operative sofisticate come quelle poste in essere da Cosa Nostra che ho in precedenza indicato, comportano di dover valutare un altro profilo: quello della connivenza più o meno forzosa con i propri estortori da parte delle vittime, connivenza che impone di non denunciare l'estorsione, anche perché si tratterebbe di denunciare l'amico che ha fatto ottenere lo sconto anche molto rilevante sul "pizzo" richiesto. La connivenza che impone non solo di non denunciare, ma anche, in un secondo momento, ad estorsione scoperta, attraverso le altre prove acquisite, di negare comunque l'esistenza del delitto.
E' questo il motivo per il quale è preferibile posporre l'audizione della persona offesa che non ha denunciato l'estorsione ad un momento successivo a quello nel quale interviene la misura cautelare che disvela l'esistenza dell'estorsione stessa. L'esame anticipato della persona offesa, con i suoi estortori ancora in libertà, comporterebbe infatti in un elevatissimo numero di casi, la negazione dell'estorsione. Il che comporterebbe a sua volta l'acquisizione di un elemento non rispondente al vero, favorevole all'estortore, e la molto probabile incriminazione della vittima per favoreggiamento, con il risultato che la vittima verrebbe in questo caso vessata sia dallo Stato che dalla criminalità organizzata.
Peraltro, siccome in Italia comunque vige il principio costituzionale per il quale l'azione penale è obbligatoria, la scelta di contestare il delitto di favoreggiamento, nei casi in cui siamo di fronte ad una negazione di realtà evidenti, è una scelta obbligata dal parte del Pubblico Ministero, obbligata ed ineludibile. Risponde secondo me anche ad esigenze di carattere etico, ma sono subordinate. Esigenze di carattere etico perché su cento commercianti che non denunciano ve ne è uno che denuncia. A tutti non si può applicare lo stesso trattamento. Quello che denuncia non può trovarsi gli altri che hanno scelto un atteggiamento diverso collocati al suo livello. Ma ripeto, questa è una valutazione di ordine etico che addirittura prescinde da quella giuridica. L'azione penale è obbligatoria in presenza di un quadro nel quale è del tutto evidente che il commerciante ha pagato il "pizzo" ma nega di averlo fatto. In questi casi non si può non procedere alla sua incriminazione per il delitto di favoreggiamento. E si tratta di un'applicazione dovuta non, come qualcuno pure ha detto, di un uso poliziesco del diritto penale. Non è uso poliziesco del diritto penale perché intanto il risultato non è affatto intimidatorio, dico purtroppo per il commerciante incriminato, poiché comunque nella maggior parte dei casi egli continua a negare di avere pagato, subisce la condanna e chiude la sua vicenda tornando nel suo circuito, potendo dire ai mafiosi che gli si ripresenteranno davanti al negozio, io mi sono comportato, sostanzialmente, da mafioso, rinunciando anche alle possibili scappatoie che la legge gli dà, come quella di ritrattare il falso e di dire il vero fino a quando la sentenza di primo grado non è divenuta esecutiva.
Allora, se questa è più o meno la realtà che noi conosciamo bisogna porsi il problema di quello che è possibile fare. Innanzitutto, uno strumento che va usato a mio avviso con molta delicatezza e soltanto in casi particolarmente delicati, è quello della possibilità di applicare al commerciante che collabora la legge sui collaboratori di giustizia. Questa legge è divenuta, dal punto di vista dei testimoni di giustizia, più efficace con le più recenti modifiche ma rimane uno strumento, a mio avviso, nella generalità dei casi, inadeguato per contrastare il fenomeno del racket. Perché? Perchè quello che la legge non può non prevedere in questi casi è di prendere il commerciante toglierlo dal suo tessuto sociale e ricollocarlo in un'altra parte del territorio nazionale. Il commerciante però non vive soltanto di un interesse proprio a se stesso e alla sua famiglia, vive dell'interesse all'impresa. Il commerciante è un mercante, come tale togliergli l'impresa, anche se, sì, poi gli si danno possibilità d'impiantarne altre in altre parti del territorio, togliergli tutta la serie di relazioni commerciali, personali, che aveva istallato in quel territorio vuol dire, in qualche misura, ucciderlo. Per questo motivo, a mio giudizio, è uno strumento che si può e si deve attuare soltanto in casi estremi.
Strumento di maggiore efficacia, anzi probabilmente lo strumento in questo momento più utile è proprio quello che viene offerto del Fondo di Solidarietà per le Vittime dell'Estorsione. Si tratta di dare la possibilità al commerciante che ha denunciato e che per ritorsione ha avuto distrutto il proprio negozio, di ristrutturare quel negozio, grazie all'intervento dello Stato, in tempi brevi e davanti ai mafiosi. Vuol dire garantire il commerciante nella prosecuzione della sua attività economica, vuol dire dimostrare, non soltanto al mafioso ma a tutto il quartiere che lo Stato può essere presente e può vanificare l'azione illegale della criminalità organizzata.
Molte altre iniziative si possono attuare. A me non appassiona affatto ad esempio l'idea di utilizzare la teleconferenza nei dibattimenti per fatti di estorsione. Risolviamo il problema del dibattimento ma non risolviamo il problema del commerciante che ha denunciato, sarà assente quel giorno in aula ma ovviamente dal giorno dopo se non anche il giorno prima troverà gli amici del mafioso a passeggiare fuori dal suo negozio. Mi interessano, invece, taluni piccoli aggiustamenti della legislazione nel suo complesso che potrebbero aiutare nella giusta direzione. Penso ad esempio alla possibilità di utilizzare i mezzi utilizzati dagli estortori per le loro azioni da parte della Polizia Giudiziaria. Già oggi in tema di contrasto al contrabbando ed al traffico di stupefacenti ciò è previsto. Ebbene, per le estorsioni poter dare la moto che è stata utilizzata fino a ieri dall'estortore per fare il suo "giro" per accogliere il "pizzo", ai poliziotti che la usano dal giorno dopo, consentirebbe non solo di fornire di nuovi mezzi, spesso molto costosi, le Forze di Polizia a costo zero, ma avrebbe soprattutto un forte valore simbolico per i tanti ragazzi che hanno quasi un principio di emulazione nei confronti del mafioso che era un poveraccio e che si presenta con la moto da dodici mila euro, il giorno dopo rappresenta la possibilità di dire quella moto ora ce l'ha lo Stato e la usa nell'interesse dello Stato. Ripeto sono piccole cose che non possono risolvere il problema, ma sono passi avanti, secondo me, nella giusta direzione anche sotto il profilo simbolico.
Il tema del racket, il tema della lotta alla criminalità organizzata è e rimane un tema complesso che non può essere affrontato in una dimensione esclusivamente repressivo-penale, i problemi, è chiaro, rimangono molti e bisogna parlarne.
Questo convegno e i molti che, devo dire, in questo periodo ci sono stati non possono che essere visti in maniera positiva. Di certo l'estortore di oggi non gode più dell'impunità assoluta della quale era certo fino a dieci anni fa. Di certo il commerciante sua vittima, oggi ha possibilità maggiori di ieri di dirgli "no" e di chiedere la protezione delle leggi. Molto però rimane da fare sia sul piano legislativo che della solidarietà dei commercianti fra loro e dei commercianti con tutti gli apparati pubblici in qualche modo interessati al ripristino della legalità in zone della Repubblica in cui la legalità è purtroppo sistematicamente violata.
Grazie.


Vito Lo Monaco, Vice Presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

Grazie dottore De Lucia, la parola adesso a Mario Filippello in rappresentanza degli artigiani e del presidente della CNA Sicilia Giuseppe Montalbano che, purtroppo, colpito dall'influenza non ha potuto raggiungerci.


Mario Filippello, Segretario Regionale CNA

Quando il Centro Pio La Torre cominciò questo percorso volto, per la prima volta, a coinvolgere le Associazioni d'Impresa e il mondo sindacale in un ragionamento finalizzato ad approfondire, in una discussione vera, alcuni temi essenziali per la nostra realtà, noi riuscimmo a coinvolgere quasi tutte le province della nostra regione su un tema che, debbo precisare, non è un tema di tradizionale impegno delle Associazioni d'Impresa anzi, qui è stato detto soprattutto da Mario Centorrino nel suo intervento, è un tema rispetto a cui si è spesso preferito tacere, non discutere, non approfondire. Se lo abbiamo fatto è perché è maturata anche nel mondo delle imprese una nuova consapevolezza che è legata alla ineluttabile necessità di contrastare in economia il fenomeno mafioso. Negli ultimi tempi vi sono state diverse discussioni riguardo il fenomeno mafioso la giustizia e soprattutto sulla sicurezza del cittadino, sulla sicurezza dell'operatore economico, sulla sicurezza della società in genere. Una discussione che non nego ha avuto anche aspetti strumentali da alcune parti che, però, risponde ad un bisogno reale e concreto del cittadino e della stessa impresa. E' una discussione che va oltre le regioni di tradizionale insediamento criminale e mafioso come la Sicilia, la Campania, la Puglia. E' una discussione che riguarda tutto il Paese. Il fatto criminoso avvenuto a Verona questa notte, che il dottore De Lucia opportunamente ha ricordato, è un dato con cui, purtroppo, dobbiamo confrontarci assai spesso.
Abbiamo intrapreso questo percorso di confronto e di collaborazione col Centro Pio La Torre anche perché siamo tra coloro che ritengono che nella nostra terra non ci siano solo aspetti negativi, anzi noi abbiamo valutato l'iniziativa di Confindustria come un importante segnale positivo avvenuto in Sicilia. E, ci hanno un po' stupito le polemiche sul numero dei partecipanti che sì, evidenziavano un limite dell'iniziativa stessa, però riteniamo importantissimo che per la prima volta le Associazioni d'Impresa discutono ed affrontano un tema in termini anche di iniziative e di proposte da mettere in campo.
Accanto alla nuova e positiva presa di coscienza degli imprenditori che non è soltanto il risultato del lavoro delle associazioni antiracket che nel corso degli anni si sono spese in molte parti della nostra regione, si deve purtroppo registrare il contestuale estendersi di determinati fenomeni criminosi come l'estorsione e l'usura in province siciliane tradizionalmente poco soggette a questo tipo di reati. Oggi si pone dunque la necessità di contrastare il fenomeno mafioso con interventi più incisivi rispetto al passato. Si tratta di intraprendere nella nostra regione e non solo, un percorso che consenta di superare limiti che stamattina sono stati evidenziati da più parti, per riuscire a sensibilizzare le coscienze e in particolare le coscienze dell'imprenditore.
Il fronte degli artigiani è un fronte un po' particolare, come quello dei piccoli commercianti, dove il problema delle estorsioni viene vissuto direttamente dall'imprenditore e dalla sua famiglia, è un fronte dove sicuramente la questione della criminalità mafiosa e dell'estorsione si affronta e si vive in modo diverso rispetto alla grande impresa perché il piccolo operatore economico, il piccolo commerciante, l'artigiano, ogni giorno, si trova faccia a faccia nel territorio, nel contesto in cui opera, direttamente col problema della violenza mafiosa. Questo ha fatto sì che molto spesso diversi settori e diverse attività legate alla piccola imprenditoria abbiano preferito inabissarsi e limitare la stessa crescita dimensionale ed economica della propria attività.
Non bisogna dimenticare che nel corso degli anni si è assistito ad una profonda trasformazione del rapporto mafia-economia. Oggi noi siamo in presenza di interi settori economici pubblici e privati che vedono la presenza d'imprese ricollegabili direttamente o attraverso prestanomi a mafiosi e alle loro famiglie. Il trasporto, la sanità, il commercio dei materiali per l'edilizia, il movimento terra, sono settori pesantemente condizionati dall'ingerenza della criminalità organizzata, settori che vedono annullato il principio della libera concorrenza del mercato semmai ce ne fosse stato nella nostra regione.
Rispetto delle regole, certezza del diritto per quel che riguarda la giustizia penale ma anche, soprattutto per le attività economiche, efficienza della giustizia civile, questa la strada che dovremmo intraprendere per riuscire ad assicurare un contesto di sicurezza in cui consentire alle imprese sane di esercitare la loro attività. Assistiamo invece a continui annunci di riforme legislative in ambito penale e civile. Tutto ciò non dà il senso della certezza della universalità delle regole, anzi alcune riforme vengono vissute dall'imprenditore in modo del tutto negativo, basti pensare alla rivisitazione del sistema societario nel nostro Paese vissuto dalle piccole imprese, dagli imprenditori non come una occasione di modernizzazione per la nostra economia., ma come un'ulteriore vessazione per i costi aggiuntivi che ha comportato a favore di determinate corporazioni. Un altro esempio che ci riguarda direttamente è quello della riforma del Sistema dei Consorzi di Garanzia Fidi. Soprattutto in Sicilia e nel Meridione siamo di fronte ad un pericolo. La riforma che è stata fatta per aiutare ed incentivare lo sviluppo di forme associative come risposta alla necessità di reperire credito, come risposta alla necessità di confrontarsi sul mercato del credito liberi dall'usura, liberi anche da un rapporto distorto col sistema bancario, questa riforma al Sistema dei Consorzi di Garanzia Fidi in Sicilia può trasformarsi in una ulteriore occasione per rafforzare da un lato il sistema delle grandi banche e dall'altro può rappresentare un'ulteriore occasione per estendere l'usura nella nostra regione. Una riforma che doveva servire ad incentivare nel mondo delle imprese l'associazionismo, la mutualità a mettersi insieme, può determinare effetti sicuramente non conformi all'idea di sostegno e di crescita iniziale, anche perchè in Sicilia vi è la cappa pesante della legislazione regionale sulla materia che ha impedito lo sviluppo di qualunque tipo di forma associativa degli imprenditori, dei piccoli imprenditori sul terreno del credito. E' un esempio calzante rispetto alle cose concrete che occorre mettere in campo e fare perché è uno di quegli esempi in cui noi abbiamo verificato la grande difficoltà di mettere assieme le forze dell'imprenditoria, non solo per problemi interni legati alla vecchia e tradizionale impostazione personalistica ed individualistica del piccolo imprenditore siciliano, ma anche per l'atteggiamento della Pubblica Amministrazione rispetto al problema. Immaginatevi quindi quale difficoltà dobbiamo affrontare e superare. E' già difficile rispetto alla risposta del bisogno del credito mettere assieme, associare le piccole imprese, immaginatevi le difficoltà nell'associarle attorno al problema della difesa della economia e della piccola impresa dall'attacco della criminalità mafiosa. Però, da questo punto di vista noi ci sentiamo di dire che è tempo di mettere in campo delle proposte concrete che ci consentano di cominciare ad affrontare la questione e di superare i limiti che fin qui ci sono stati. Alcune di queste proposte sono venute fuori dal convegno di Confindustria che anche stamattina sono state qui riproposte.
Oggi pomeriggio le Associazioni d'Impresa della Sicilia dovrebbero firmare un documento da presentare alla società siciliana, alle Istituzioni siciliane. In questo documento uno dei punti essenziali è la battaglia per la legalità, per la difesa dell'impresa sana in rapporto anche alle stesse vicende della Regione siciliana. Noi dobbiamo mettere in questo documento, e le Associazioni d'Impresa sono da questo punto di vista d'accordo, la proposta di aprire un tavolo permanente delle Associazioni d'Impresa sui temi della legalità e della lotta al fenomeno mafioso e alle estorsioni, per venire anche incontro a quella proposta che qui stamattina il dottor De Lucia faceva, della possibilità di attivare meccanismi di denuncia collettiva della estorsione, del fenomeno violento e mafioso nei confronti della impresa.
Noi abbiamo visto come sia stato facile in molte realtà della Sicilia orientale mettere in campo diverse associazioni antiracket nel giro di poche settimane. Nella Sicilia occidentale al contrario, ad oggi, non è stato possibile sviluppare questo tipo di associazionismo. Per fortuna, lo ricordava stamattina Vito, vi sono esempi positivi anche nella città di Palermo che non vengono fuori, che hanno difficoltà ad emergere, in cui accade che gli imprenditori di una singola strada si riuniscono in silenzio senza discutere tanto, magari non facendo la denunzia, ma per opporsi al tentativo di estorsione.
Rispetto alla questione che poneva Mario Centorrino dell'infiltrazione del fenomeno mafioso, vi è la necessità che si attivino meccanismi di cancellazione e sospensione dagli albi camerali. Cancellazione per tutte le imprese mafiose dagli albi camerali in modo automatico e dall'altro lato il meccanismo della sospensione degli albi fino a quando le sentenze non accertino o l'innocenza o la colpevolezza dei titolari di determinate attività economiche, cosa che sin qui non è avvenuto e questo lo dico in riferimento alla necessità di contrastare la penetrazione dell'economia cattiva nell'economia sana.
In Sicilia spessissimo cambia la legge sui lavori pubblici con l'intenzione di contrastare la presenza delle forze criminali nel mondo dei lavori pubblici. Da questo punto di vista andrebbe cercato, a mio avviso, un equilibrio da imporre nelle aggiudicazioni. Non si capisce perché ad esempio non sia possibile tenere una gara in un giorno solo e le gare devono durare un mese con chiusura di atti e riapertura successiva che è uno dei problemi più drammatici di questa questione. L'altro quesito che noi proponiamo da tempo rispetto al nodo dell'infiltrazione nei lavori pubblici è relativo all'obbligo non solo di individuare prima i possibili soggetti a cui saranno affidati i subappalti, ma individuare prima anche i fornitori fornendo gli albi, gli elenchi delle imprese che dovrebbero partecipare nel momento in cui è aggiudicato il lavoro per alcune parti, per alcuni aspetti.
In conclusione io penso che occorrerebbe fare emergere insieme all'associazionismo, la necessità di avere regole rispettate da tutti. Mi riferisco ad esempio al problema della celerità dei processi sulla questione delle estorsioni. E' un dramma per l'imprenditore dover vivere le fasi processuali di un procedimento che dura mesi e mesi in dibattimenti in cui si è costretti a rivivere troppo a lungo la vicenda drammatica che ha portato alla denuncia. Io capisco le esigenze della difesa, ma parto dalla considerazione che occorrerebbe snellire questo tipo di processi riguardanti fenomeni come quello dell'estorsione.
L'ultima questione è quella della scuola. Io penso che sia venuto il tempo di sviluppare nelle nostre scuole la cultura antimafiosa, ripensando gli stessi meccanismi legislativi che sovrintendono a questa possibilità e a questa opportunità per dotare le scuole di ogni ordine e grado di strumenti e di risorse ma soprattutto di percorsi didattici chiaramente indirizzati verso la crescita della coscienza antimafiosa.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringrazio Mario Filippello, la parola adesso al professore Giovanni Fiandaca. Raccomando la sintesi perché si toglie tempo alle relazioni degli altri. Non lo dico per il professore Fiandaca che di solito è contenuto nei suoi interventi.


Professore Giovanni Fiandaca

Io ringrazio innanzitutto gli organizzatori di questo seminario per avermi invitato a prendervi parte come relatore. Accolgo di buon grado l'invito a contenere il mio intervento in tempi ragionevoli poiché sono stato costretto a sospendere gli esami perché in coincidenza di questa iniziativa.
E' ovvio che il tema di oggi è sviluppabile secondo approcci diversi e peraltro convergenti. C'è un approccio di tipo, direi, genericamente culturale e un approccio sociologico, un approccio di tipo politico, amministrativo, organizzativo e anche un approccio più strettamente giuridico che coinvolge anche il penalista.
Ovviamente anch'io parto dalla premessa che l'esigenza di contrastare il fenomeno del racket e quindi della pressione mafiosa sulle imprese ripropone sul tappeto una questione di ordine socioculturale se non anche addirittura antropologico che affonda, come sappiamo, le radici in un lontano passato.
Intervenendo il mese scorso ad un convegno analogo organizzato dall'Associazione Nazionale Magistrati e dall'Associazione Imprenditori Siciliani ho avuto modo di ricordare come il problema di cui ci occupiamo è stato bene individuato e diagnosticato più di centotrenta anni fa dal famoso Franchetti nella celeberrima inchiesta sulle condizioni della Sicilia. Scriveva nel 1876 Franchetti: ".. a ricorrere alla legge non si può pensare poiché le probabilità di ricevere una schioppettata per chi faccia una denunzia sono troppe numerose perché vi si esponga facilmente.." e il nobile toscano aggiungeva ".. affinchè riuscisse una tale associazione (cioè un'associazione di persone oneste, antimafiose) bisognerebbe che fosse così numerosa e composta tutta di persone decise a sacrificare per il loro fine le sostanze, la reputazione, la vita loro e delle famiglie, e questo è impossibile in qualunque Paese del mondo..". Beh, certamente Franchetti vedeva bene qual è la difficoltà di dar vita ad una associazione di onesti che di per sé riesca a eliminare il problema. Probabilmente noi non siamo così pessimisti rispetto a Franchetti, rispetto alla prospettiva di promuovere oggi forme di associazionismo che siano capaci di diffondersi e quindi, da questo punto di vista, di dare un forte contributo al contrasto del racket innanzitutto sul piano di una più diffusa maturazione di coscienza antimafiosa. Però, è anche vero che dobbiamo evitare un rischio sempre incombente cioè il rischio che, confidando troppo ottimisticamente in un rapido diffondersi di un associazionismo culturale antimafioso con funzioni di promozione culturale e sociale, finiamo con l'assumere una posizione di tipo moralistico che alla fine ignora che il coraggio non tutti hanno l'attitudine a farlo sviluppare dentro di sé in misura sufficiente perché si trasformi in fattore promozionale di un riorientamento culturale. Il fenomeno della paura della ritorsione è un fenomeno col quale dobbiamo continuare a fare i conti e per affrontare questo fenomeno sono ancora oggi opportune delle riflessioni che ci riconducano ad un approccio più specificamente giudiziario al fenomeno. Da questo punto di vista il discorso ritorna sul terreno del sistema penale verso un duplice versante del diritto penale sostanziale e del diritto penale processuale cioè sul terreno del diritto sostanziale e del processo. Ora, sul terreno del diritto penale sostanziale dico subito che io da penalista, da giurista non condivido del tutto un certo atteggiamento che è abbastanza diffuso soprattutto tra gli organi requirenti, peraltro non soltanto in Sicilia, un atteggiamento che grida quasi allo scandalo o guarda con assoluto disfavore la possibilità di riconoscere in sede giudiziaria l'esigenza di distinguere tra casi in cui si paga per effetto di forme di collusione più o meno esplicita di collusione diretta, e casi invece nei quali si paga perché chi paga è veramente soggetto ad una soggezione soverchiante in termini di coazione psicologica da chi esercita violenza morale o da parte di chi esercita minacce. Per cui che in certi casi, ancora oggi, un'azione giudiziaria conforme ai principi generali del sistema penale debba indurre a distinguere, con molto rigore e con saggezza, tra ipotesi di pagamenti penalmente censurabili e ipotesi nelle quali, al contrario, gli imprenditori non sono né collusi né compiacenti ma agiscono soprattutto sotto l'effetto della coartazione: dico che questa linea di tendenza, piaccia o non piaccia risponde all'esigenza di ravvisare autentici casi di stato di necessità che esimono dalla responsabilità penale. Piaccia o non piaccia, perché si può ritenere che riconoscere questi casi, alla fine, piuttosto che agevolare renda ancora più difficile la persecuzione del fenomeno dell'estorsione. Però non si può finalizzare la repressione penale a obiettivi politico criminali di lotta alla mafia in misura tale da disconoscere che anche in questo campo alcuni principi fondamentali del diritto penale a vocazione universale o universalistica, debbono trovare applicazione. Da questo punto di vista si segnala una bene argomentata recente sentenza del Tribunale di Palermo, Gip Morosini il quale, con molta chiarezza, ha distinto le due ipotesi della piena soggezione, dai casi di imprenditori collusi o compiacenti. Per questi ultimi l'interazione con il mondo mafioso è frutto di un calcolo razionale talvolta di una spontanea iniziativa dello stesso imprenditore. In questi casi rimane ampia sia la possibilità di negoziare i termini del cosiddetto "contratto di protezione" sia l'autonomia nella gestione dei contatti esterni. Indice rilevatore della non coartazione può essere la sinallagmaticità cioè la corrispettività del rapporto instauratosi, secondo cui l'imprenditore viene a beneficiare del cosiddetto "ombrello protezionistico" offerto dalla famiglia mafiosa, ad esempio l'inserimento in comitati d'affari per il controllo occulto degli appalti pubblici, lo scoraggiamento della concorrenza, la maggiore fluidità della manodopera occupata nelle attività, la notevole disponibilità di denaro in cambio di prestazioni di varia natura. Come sappiamo ci sono delle ipotesi nelle quali, in concreto, la situazione è così ambigua per cui la distinzione tra imprenditori coartati, e soggetti o imprenditori che instaurano un rapporto sinallagmatico diventa particolarmente difficile. Mi si racconta da parte di amici magistrati che non di rado tra vittima ed estortore, in forza del semplice pagamento da parte dell'estorto, si instaura una sorta di relazione possiamo dire "umana" a carattere fiduciario per effetto della quale la vittima in caso di bisogno ritiene di poter rivolgersi all'estortore, per esempio, allo scopo di chiedergli di essere aiutato per ottenere un mutuo da una banca. In un caso di questo genere si instaura il rapporto di reciprocità di favori che dovrebbe costituire un indicatore del fatto che la relazione tra vittima ed estortore supera, diciamo, trascende la situazione di soggezione e già raggiunge la soglia della collusione più o meno manifesta.
E' ovvio però che la difficoltà di discernere da caso a caso non è tipica soltanto dei contesti di criminalità mafiosa. Anche in altri contesti criminali si presentano delle situazioni ambigue in cui la distinzione tra tipologie di casi diversi è difficile ma non per questo si può essere esonerati dall'applicazione di principi generali vigenti nel nostro ordinamento. Per cui il problema non è quello di dire in generale, per esempio, da parte dei Pubblici Ministeri che lo stato di necessità non è mai applicabile in questi contesti ma il problema è quello di vedere, io estremizzo naturalmente, in quali casi lo stato di necessità è concretamente applicabile e in quali altri casi non è applicabile. Naturalmente, poiché si tratta di valutazioni molto difficili e delicate, direi che è anche fisiologico che in relazione ai diversi casi concreti si possano manifestare delle diversità di orientamento tra il Giudice e il Pubblico Ministero, ma questo direi che rientra nella fisiologia della valutazione giudiziaria.
Un altro punto che è tipico oggetto di discussione, riguarda l'idea della cosiddetta denuncia collettiva, che so trovare molti sostenitori, da ravvisare come attribuibile ad una associazione che diventerebbe, da questo punto di vista, rappresentativa delle posizioni dei singoli imprenditori.
L'altro tema che costituisce oggetto di discussione - però controverso perché ci sono reazioni anche vivaci - è quello di prevedere nel nostro ordinamento forme di denuncia "secretate". E' ovvio che nell'ordinamento giuridico attuale, non essendo prevista questa forma di denuncia, è inutile dire io sono favorevole o non sono favorevole come se si trattasse di uno strumento applicabile in atto, però nulla impedisce di potere pensare in una prospettiva "de iure condendo" cioè di diritto da creare in futuro, se e in che misura possa essere compatibile con l'ordinamento la previsione di nuove forme di denuncia secretate. E' facile l'obiezione che la normativa, che i principi generali sul giusto processo impediscono la previsione di queste forme di denuncia. Io da giurista, abituato a cavillare, ad esercitare acribia intellettuale ed interpretativa, vi posso dire che volendo - non vi sto dicendo di essere moralmente favorevole, dobbiamo distinguere i piani, da un lato io faccio il mio mestiere, non sto facendo in questa sede né il politico né il maestro di etica pubblica io sto facendo il giurista - ammesso che sul piano delle scelte fondamentali di lavoro, e su questo possiamo concorrere tutti democraticamente come cittadini, come professori, come esperti, si ritenga percorribile la strada di prevedere riforme legislative orientate in questo senso io ammetto che ci sono notevoli ostacoli però, non del tutto insormontabili. A questo scopo vorrei fare riferimento ad una importante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, della Corte di Strasburgo, che ho avuto occasione di richiamare anche il mese scorso al convegno organizzato dall'Associazione Nazionale Magistrati e degli Imprenditori. I principi del giusto processo stanno particolarmente a cuore anche alla Corte europea dei diritti dell'uomo perché i principi fondamentali del giusto processo si possono ritenere direttamente desunti anche dalla normativa contenuta nella Carta europea dei diritti dell'uomo. Quindi se faccio riferimento alla Corte europea sui diritti dell'uomo è perché la Corte europea è il soggetto giurisdizionale più abilitato ad interpretare portata e limiti dei principi del giusto processo. Allora, in tre famose sentenze, famose a noi giuristi, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha riconosciuto l'esigenza di bilanciare adeguatamente, sempre in una prospettiva di rispetto dei principi fondamentali del giusto processo, da un lato la tutela dell'imputato e dall'altro la tutela delle vittime e della società. E' significativo che di questa esigenza di più equilibrato bilanciamento, negli ultimi anni la Corte europea si sia fatta interprete soprattutto nell'ambito di processi che hanno avuto ad oggetto reati di criminalità organizzata. Proprio sulla questione delle denunce o delle testimonianze anonime o comunque secretate, la stessa Corte europea - non Giovanni Fiandaca, cito la Corte europea - ha sancito un principio importante che può essere sintetizzato in questo modo: ".. in certi contesti o settori specifici di criminalità come nel caso tipico dei processi per criminalità organizzata, l'uso investigativo o processuale della informazione anonima o secretata non è di per sé sempre incompatibile col giusto processo e con i diritti della difesa dell'imputato. Ci sono infatti ipotesi concrete di pericolo per la vita o l'incolumità del soggetto denunciante che possono giustificare, in un'ottica di equilibrato bilanciamento, tra tutte le esigenze in gioco, forme di anonimato e di secretazione .." Da questo punto di vista, il concetto del giusto processo non va assolutizzato ma va graduato in base non già alla logica aristotelica del tutto o niente ma in base a una logica più flessibile che nell'ambito di studi giuridici molto sofisticati va chiamandosi logica fuzzy o logica flou, nel senso che lo stesso principio generale può al tempo stesso trovare applicazione o non applicazione o trovare maggiore o minore applicazione a seconda, appunto, delle caratteristiche dei casi che vengono in questione. In una prospettiva di compatibilità e di relativizzazione della valenza dei principi del giusto processo in un'ottica di bilanciamento tra esigenze discordanti, tutte egualmente meritevoli di considerazioni, la Corte europea ha stabilito:
1. il concetto di testimone tutelabile va inteso nell'accezione più ampia e quindi comprensiva anche della vittima;
2. la Convenzione europea non impedisce di utilizzare in fase d'indagine fonti riservate d'informazione;
3. il processo penale giusto deve essere organizzato in modo tale da contemperare, in misura soddisfacente, gli interressi della difesa dell'imputato e gli interessi del testimone e della vittima.
Come orientare la disciplina del processo penale in modo tale da tutelare meglio questi ultimi interessi, in una prospettiva di bilanciamento, è una pagina che se si vuole, la stessa dottrina processualistica può cominciare a scrivere.
Quindi, da questo punto di vista, col conforto e con l'ombrello dei principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, io ritengo che la possibilità di studiare, anche all'interno del processo penale, subprocedimenti o momenti specifici caratterizzati da una più forte esigenza di bilanciare l'esigenza di tutela anche della vittima, sia una prospettiva che si può percorrere, se è vero che aldilà delle contingenze del nostro teatrino nazionale sui rapporti tra politica e giustizia, l'esigenza di contrastare più efficacemente la criminalità organizzata è un'esigenza che si manifesta a livello che trascende il nostro Paese e già, in ordinamenti stranieri, sono previste proprio quelle ipotesi di secretazione che hanno giustificato poi il ricorso alla Corte europea che ne ha riconosciuto la legittimità. Grazie.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringrazio il professore Fiandaca per l'interessante e stimolante contributo che ha dato ai lavori. Spero davvero che si possa riuscire a costruire delle iniziative, anche sul terreno legislativo, che vadano nel senso delle cose dette.
La parola adesso a Elio Sanfilippo, in rappresentanza della Lega delle Cooperative, della Confcooperative e dell'UNCI.


Elio Sanfilippo, Presidente regionale Lega Cooperative

Io vorrei partire dal titolo del convegno "Associazionismo antiracket e la difesa dell'Impresa", perché mi sembra sia questo il punto di partenza attraverso cui sviluppare un ragionamento che ci può portare a determinare alcune soluzioni riguardo la problematica che oggi stiamo approfondendo e che negli ultimi tempi costituisce oggetto di grande dibattito. Iniziative si susseguono da parte di associazioni di magistrati, associazioni d'impresa e oggi quella del Centro Studi Pio La Torre.
Giorni addietro, a Siracusa c'è stato addirittura un corteo di oltre cinquemila persone indetto da CGIL, CISL e UIL che ha manifestato proprio sui temi della difesa della legalità dalla criminalità organizzata. Penso che questa debba essere una questione che ormai necessita di uscire dalla logica dell'analisi per entrare, molto più concretamente, nel vivo della proposta e degli strumenti operativi in grado di mettere le imprese nella condizione di contrastare la criminalità organizzata.
Io partirei da un dato, che è quello della legalità. Se vogliamo stare al tema "difesa dell'impresa", la legalità è il primo strumento per difendere l'impresa. La legalità non deve essere considerata un onere per l'impresa ma elemento fondante attraverso cui l'impresa può crescere e svilupparsi. E quando parliamo di legalità mi riferisco alla legalità nelle Istituzioni, alla legalità nella Pubblica Amministrazione, alla legalità nell'erogazione del credito e, in ultimo, anche alla legalità nell'impresa stessa. Questo lo dico perché se vogliamo sostenere l'importanza di un positivo rilancio dell'economia siciliana, di un suo progetto di sviluppo, dobbiamo impegnarci a rendere quanto più attrattivo il territorio siciliano per investimenti privati. E' infatti evidente che non ci sarà nessun imprenditore, nessun investitore nazionale o straniero che si deciderà ad investire in Sicilia sapendo di trovarsi di fronte ad Istituzioni inefficienti, come può essere la Regione siciliana per certi versi, di fronte a Pubbliche Amministrazioni inoperose e che bloccano lo sviluppo, di fronte ad un sistema creditizio in cui il denaro si paga sempre più in Sicilia rispetto al resto del Paese e in un territorio condizionato fortemente dalla economia criminale e dalla mafia. Con queste premesse, nessuno investirà una lira in Sicilia e nel nostro territorio. Ecco perché il problema è politico nel senso che bisogna determinare tutta una serie di strumenti e di azioni positive tali da liberare il territorio da queste incrostazioni, al fine di affermare un mercato libero nel nostro territorio.
C'è poi il problema che riguarda direttamente le imprese che è un tema che viene messo un po' ai margini perché spesso si parla di quello che devono fare gli altri, lo Stato, le forze di sicurezza, invece è opportuno chiedersi che cosa deve fare l'impresa per contribuire fattivamente ad un progetto di rivalutazione del nostro territorio. Da questo punto di vista l'impresa, nella sua specificità, ha un ruolo fondamentale nell'affermare la legalità nel territorio adottando codici etici di comportamento che regolino il modo sano di fare economia, di fare impresa, regole a cui l'azienda deve attenersi. Noi, come imprese cooperative, siamo impegnati entro il trentuno marzo, a rinnovare tutti gli statuti delle imprese cooperative in virtù dell'entrata in vigore del nuovo diritto societario che ha praticamente rivoluzionato il modo di essere delle imprese, soprattutto delle imprese cooperative.
Il tema della responsabilità sociale dell'impresa - tutti pensano sia un tema che riguarda soltanto le cooperative con finalità mutualistiche - è esteso a tutte le tipologie d'imprese. Anche la Confindustria organizza convegni convergenti sul tema della responsabilità sociale dell'impresa, ponendosi il problema dell'etica all'interno dell'economia come forma di sviluppo dell'impresa stessa.
Accanto alla riforma del diritto societario, occorre ricordare un'importate iniziativa legislativa del 2001 che si sostanzia nell'entrata in vigore del decreto legge 231 in materia di responsabilità delle imprese. Con questo decreto diventano passibili di responsabilità penale oltre le persone fisiche, come ci insegnano i nostri giuristi, anche le persone giuridiche e dunque l'impresa stessa, perfino le associazioni che non hanno personalità giuridica. Alla luce di queste recenti disposizioni, ha fatto dunque ingresso nel nostro ordinamento una forma di responsabilità che sconvolge la società. Non esiste più il principio che "societas delinquere non potest", anche l'impresa è responsabile di mala economia e di cattivi comportamenti.
L'intento del legislatore è chiaramente quello di responsabilizzare l'impresa. Oggi è il mercato, è l'esigenza della competitività che impone questo tipo di approccio ai problemi dell'impresa, tuttavia ritengo che ci sia da colmare una lacuna del decreto 231, perché se da una parte prevede ipotesi di reato da parte delle imprese tra cui la malversazione, la concussione, la corruzione, la truffa che sono tutte questioni che connotano il panorama imprenditoriale e per le quali può scattare una sanzione, dall'altra il legislatore non fa riferimento a nessun reato di stampo mafioso e non fa neanche riferimento al problema del pagamento dell'estorsione. Calata nella realtà siciliana ci rendiamo tutti conto quanto tale lacuna diventi davvero grave.
A tal proposito, noi riteniamo quanto mai necessaria l'esigenza di colmare questa lacuna, per cui aldilà dell'ottica della ricordata responsabilità sociale dell'impresa è necessario affermare il principio che il pagamento del "pizzo" costituisce un fatto illecito e come tale va perseguito, anche nei confronti dell'impresa. Da questo punto di vista condivido le cose dette dal professore Fiandaca, qui non c'è nessun tentativo di confondere la vittima con il carnefice, le due figure vanno sempre distinte, sono d'accordo con lui, ma dobbiamo anche partire dalla considerazione che oggi l'impresa è necessario che si faccia portatrice di principi economicamente e moralmente sani. Sul pagamento del "pizzo" bisogna fare una importante distinzione, perché una cosa è il "pizzo" che paga il piccolo commerciante o il bottegaio di un quartiere periferico di Palermo, una cosa è quello che paga la grande impresa del Nord. Come ricordava il dottore De Lucia nel suo intervento, per quanto riguarda per esempio le opere pubbliche il cantiere aderisce fisicamente nel territorio e dunque è soggetto al condizionamento esterno.
Non c'è alcun dubbio che non siamo più ai tempi di Libero Grassi. Qualche passo in avanti l'ha fatta l'economia, la società, l'impresa grazie anche all'azione della Magistratura che da questo punto di vista ha compiuto un'opera di bonifica del territorio. Se l'impresa non rifiuta il vantaggio che ricava, pur in un'ottica di coercizione, compromette l'identità legale dell'impresa stessa sotto il profilo economico e sotto il profilo dell'alterazione del mercato. Non c'è più concorrenza, il mercato muore. E quando muore il mercato, quando il mercato è sopraffatto da tutte una serie di azioni negative, dal "pizzo" all'intermediazione, alle forniture ecc., è evidente che non può affermarsi l'impresa, ne l'impresa può crescere, non cresce l'economia, ristagna l'economia.
Ora, al fine di attribuire rilevanza giuridica anche a scelte di politica economica eticamente e socialmente compatibili col mercato, penso sia necessario includere nel novero dei reati indicati dallo stesso decreto anche il pagamento del "pizzo". In tal senso qualsiasi impresa che accetti di pagare il "pizzo" sottraendosi ai vincoli di responsabilità sociale ora previsti dalla legge, compatibili con le nuove strategie di mercato eticamente accettabili, dovrebbe ritenersi soggetto sia alla legge penale, sia alle regole che governano la libera concorrenza. Quindi, a nostro avviso, dovrebbero essere applicate sanzioni pecuniarie e anche interdittive dal mercato per periodi di tempo da stabilire. Noi ravvisiamo l'esigenza, come movimento cooperativo, di collocare fuori dal mercato tutte quelle imprese che attraverso una condotta apertamente illegale e comunque socialmente ed economicamente irresponsabile drogano il mercato, ne falsano la competitività, ne sbilanciano le capacità d'investimenti che le imprese fanno a loro interno, per adeguarsi alla concorrenza libera del mercato stesso.
Alla luce di queste considerazioni è auspicabile l'introduzione di nuove norme giuridiche. Noi tenteremo di presentare alcune proposte che possano avere anche sbocco legislativo. Una prima soluzione potrebbe essere quella di fare decadere, per le imprese che pagano il "pizzo" alla mafia, sia i contratti d'appalto, sia di servizi, sia di forniture, sia di opere pubbliche. Queste imprese messe all'angolo per un periodo di tempo relativamente lungo, dovrebbero dare la possibilità all'impresa sana di prendere coraggio e di potere dire qui veramente si sta facendo sul serio, perché la gente è convinta che non facciamo sul serio comprese le associazioni di categoria, parliamoci chiaro.
Per concludere vorrei sottolineare come, sul problema dell'associazionismo, ci sia una notevole differenza tra l'area orientale e l'area occidentale della Sicilia. L'area orientale è notoriamente più ricca di iniziative in tal senso, ho già ricordato la manifestazione della CGIL, CISL e UIL di oltre cinquemila persone a Siracusa contro il racket, mentre nella Sicilia occidentale non fiorisce alcuna associazione antiracket. Sarebbe lungo spiegare questo gap e io non ho né il tempo né il titolo per poterlo fare, però una cosa la voglio dire, l'associazionismo antiracket lo devono promuovere le associazioni di categoria. Ha ragione il dottore De Lucia quando spiega che al Nord se il mafioso di Catania o di Palermo impone il "pizzo" i commercianti si riuniscono fra di loro, per opporsi appunto ad un corpo esterno, e costituiscono un'associazione per contrastare queste pretese. In Sicilia, invece, il mafioso è un corpo esterno fino ad un certo punto, quindi c'è la difficoltà dell'operatore economico ad esporsi in prima persona.
Io alle denunce anonime credo poco, al punto in cui stiamo sono le associazioni che debbono raccogliere le denunce, che debbono scendere in campo tutte insieme per costituire un grande comitato antiracket a cui gli aderenti si possano rivolgere ogni volta che hanno un problema, per difendere il proprio associato dalla minaccia e dalle intimidazioni.
Quindi, l'altra proposta operativa che aggiungo è quella di fare un incontro tra le associazioni per dare vita ad un'associazione antiracket. Sarebbe questo un primo segnale di fiducia ai propri associati, penso che sia una delle cose importanti. Ripeto nei prossimi giorni noi ci incontreremo con operatori esperti per cercare di presentare una proposta di legge al Parlamento nazionale che possa colmare le lacune del 231 in tema di responsabilità sociale dell'impresa, responsabilità penale dell'impresa, soprattutto in materia di criminalità organizzata e di pagamento del "pizzo". Vi ringrazio per l'attenzione e buon lavoro.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Grazie Sanfilippo, adesso diamo la parola al dottore Piero Grasso.
Seguiranno gli interventi di Giovanni Felice per la Confesercenti, di Lino Busà per l'Associazione Nazionale Antiracket FAI, del Prefetto Marino e del Prefetto Ferrigno Commissario Antiracket.
Dottore Pietro Grasso, Procuratore Capo presso la Procura della Repubblica di Palermo

Scusate se ho forse turbato l'ordine dei lavori ma dovendo tornare in ufficio ho chiesto di potere intervenire subito.
Non ho seguito gli interventi precedenti ma avendo parlato il mio collega De Lucia so che del racket, almeno sotto il profilo giudiziario, già sapete tutto perché come conosce lui l'argomento in Procura …. Non voglio fare disparità rispetto agli altri, però devo dire che a furia di seguire e coordinare indagini si è fatta un'esperienza notevole sotto tutti i punti di vista, quindi nulla da dire in più, lui avrà illustrato con la solita completezza l'argomento.
Io vorrei soffermarmi su due punti che sono stati trattati soprattutto dall'intervento che ho ascoltato del professore Fiandaca. Innanzitutto, il problema dello stato di necessità. Questo è un problema che, come ha già detto il professore, assume tanti aspetti, si può guardare dal punto di vista etico, dal punto di vista economico, dal punto di vista giuridico, dal punto di vista procedurale.
Dal punto di vista giuridico gli organi requirenti non hanno mai abbandonato quella linea di tendenza che cerca, con fatica, di distinguere di volta in volta tra vittime e collusi tra coloro che si avvantaggiano del sistema e coloro che sono invece vittime di intimidazioni, di violenza, di ricatti di danneggiamenti, di attentati; è però necessario che chi subisce una estorsione si assuma questo ruolo di vittima. Il problema, per noi, è che si viene a negare di avere questo ruolo, si viene a negare il fatto che si paghi il "pizzo", soprattutto nel momento in cui le indagini hanno accertato, filmato, documentato il pagamento del "pizzo" e poi colui che dovrebbe confermare quello che faticosamente si è riusciti a ricostruire, al contrario nega in maniera totale qualsiasi contatto o si rifiuta di rispondere. Questi sono i casi che vengono affrontati sotto il profilo giudiziario. Mentre, infatti, ci sono imprenditori e commercianti che messi di fronte all'evidenza non hanno difficoltà ad ammettere che hanno pagato il "pizzo", altri invece, nonostante sappiano che c'è chi l'ha ammesso, che sono magari nel negozio accanto, continuano pervicacemente a negare. Allora lì non abbiamo scelta da un punto di vista giudiziario perché non c'è dubbio che, una posizione del genere, mette in crisi la nostra indagine. Nel momento in cui c'è qualcuno che assolutamente nega quello che altri affermano, magari dalla porta accanto, non si può non considerare che questo comportamento non può che aiutare coloro che sono oggetto dell'indagine, perché indebolisce il quadro accusatorio. In questi casi, l'imputazione di favoreggiamento è obbligatoria secondo il nostro sistema giuridico. Finché non ci sarà data la discrezionalità dell'azione penale non abbiamo scelta, noi dobbiamo procedere.
Riguardo la nota che ha riferito il professore Fiandaca sull'azione di un magistrato che si era pronunciato con un provvedimento in questa materia, a me piacerebbe non parlare dei fatti che sono ancora sub iudice, perché c'è una sentenza che noi, come ufficio, abbiamo impugnato e di cui al momento attendiamo l'esito della decisione degli organi giudiziari. Però, non c'è dubbio, che non si può fare un'affermazione apodittica che, siccome manca la sovranità dello Stato sul territorio, allora esiste una sorta di stato di necessità ambientale che giustifica chiunque, in qualsiasi modo e in qualsiasi maniera a negare la realtà, a negare l'esistenza di una situazione anche di vittima. Questa è una cosa assolutamente diversa, non si può perché ci sono delle leggi.
Credo che noi in Europa, per non dire nel mondo, siamo all'avanguardia sotto il profilo della legislazione antiracket, sotto il profilo della legislazione che protegge il cittadino. Oggi un imprenditore, un commerciante che scelta ha nel momento in cui subisce il racket? Ha intanto quella di rivolgersi alla Polizia Giudiziaria o alla Magistratura, quindi dire che, per definizione, lo Stato non esiste su questo territorio non è accettabile. Sotto il profilo preventivo, può anche darsi che non si riesca a prevenire, ad essere presenti davanti ad ogni esercizio per evitare il pagamento del "pizzo", questo mi pare anche comprensibile, ma dire che se ci si rivolge allo Stato non si riesca ad ottenere risposte è stravolgere la realtà. Le statistiche dimostrano che tutti coloro che si sono rivolti a Polizia e Magistratura hanno risolto con successo i loro problemi, hanno visto arrestare e condannare gli estortori ed hanno potuto continuare liberamente ad esercitare la loro attività.
Quindi c'è questa realtà, così come esiste una legislazione che offre non solo il risarcimento dei danni provocati dalla violenza, dall'intimidazione, dai danneggiamenti, ma che consente anche di diventare testimoni di giustizia e di usufruire di protezione a difesa della propria incolumità.
Capisco, naturalmente, i problemi che comunque possono sorgere, perché la protezione può avere luogo o in forma visibile sul proprio territorio o al contrario comportare uno spostamento, un cambiamento del territorio. Si tratta poi, per ognuno, di scegliere quale delle soluzioni adottare. Noi abbiamo delle soluzioni positive sia nell'un caso che nell'altro. C'è chi ha voluto ricrearsi una attività - e lo Stato oggi dà l'esatto equivalente del valore dell'attività che viene dismessa sul territorio - spostandosi in un altro territorio riprendendo tranquillamente a fare con serenità la propria attività, c'è chi continua qua, sul proprio territorio. Naturalmente ci sono visibili presenze di polizia, cambia il sistema di vita, però queste situazioni ci sono e si deve sapere che esistono. Quindi, non si può parlare di uno stato di necessità ambientale secondo cui tutti, vista questa situazione, sono giustificati, hanno uno stato di necessità che legittima una causa di giustificazione giuridica, a me pare che bisogna distinguere caso per caso. E' vero, ci possono essere dei casi in cui la vittima è talmente sottoposta ad una situazione di sofferenza psichica, fisica e violenza in cui si possono giustificare delle situazioni del genere, noi non lo escludiamo, ma bisogna che queste situazioni si dimostrino con rigore.
C'è poi un problema più vasto sotto il profilo etico, il discorso delle denunce secretate. Lasciamo stare che la nostra è una cultura che da sempre ha avvertito una repulsione per l'anonimato perché visto come qualcosa di negativo, noi, in realtà, non abbiamo bisogno della Corte europea dei diritti dell'uomo per utilizzare, così come ha stabilito quella sentenza, come spunti investigativi anche le denunce anonime, questa è una cosa che avviene normalmente. Un problema è dare dignità all'anonimo di prova, un problema è sviluppare delle investigazioni sulla base di segnalazioni anche anonime. L'anonimo infatti viene successivamente tolto dal processo perché non può avere dignità e questa è una norma del nostro Codice di Procedura Penale, finché non cambia noi continuiamo a lavorare così. Diverso è il problema del giusto processo nel momento in cui la prova si dovrà formare in dibattimento e ci vuole qualcuno che venga li a dire che ha subito il fatto oggetto di reato. Ci vuole la vittima. Allora, la segretezza come si fa a costruirla? Certo, tutto si può fare, ma pensate che noi prima avevamo una norma secondo la quale il Pubblico Ufficiale che riceveva una denunzia, anche verbalmente, poteva venire a testimoniare sulla denunzia che aveva ricevuto. Bene, questa norma è stata cancellata dal nostro processo, oggi il Pubblico Ufficiale non può più riferire su quanto ha appreso nel corso di un'indagine, perché è vietato. Allora dobbiamo metterci un po' d'accordo. Mentre, d'altro canto - per i paradossi che sono tipici della nostra legislazione - per un fatto assolutamente, secondo me, meno pericoloso come il fumo, c'è l'obbligo della denuncia da parte del privato, sanzionato penalmente. Allora mi pare che ci siano delle sproporzioni in questa visione globale.
Qualcuno in passato ha pure detto: perché non introdurre un obbligo di denuncia anche per il "pizzo"? Potrebbe costituire uno scudo nel senso che anche il privato potrebbe dire: "beh, io sono costretto da una legge a denunciare perché sennò subisco una conseguenza penale anche sotto questo profilo". Naturalmente, non dobbiamo arrivare a questi estremi, così come non dobbiamo dimenticare che tra giustificare tutti e avere questo rigore dell'obbligo della denuncia c'è tutta una gamma di situazioni, di comportamenti che si possono richiedere.
E' anche accaduto che, facendo delle indagini scopriamo che, in una data zona, tutti pagavano. A quel punto gli investigatori vanno dagli imprenditori, dai commercianti per avere un riconoscimento attraverso le fotografie di coloro che sono passati ad esigere il "pizzo": gli agenti non solo hanno ricevuto la negativa da parte degli estorti che non hanno riconosciuto nessuno, ma questi stessi imprenditori, scopriamo poi da altre indagini, da altre intercettazioni, che si sono recati da coloro che fanno le estorsioni e sono andati a dire: "state attenti vi stanno arrestando, io so tutte le foto che mi hanno sottoposto e ci sono trentotto fotografie in un album e questi, sicuramente, sarete tutti arrestati". Allora, scusate, questo che cos'è? Questo è qualcosa di più di temere le reazioni violente o le intimidazioni, questa è una forma integrata di partecipazione al sistema, è qualcosa di assolutamente diverso.
Allora il pericolo è che, dovendo giustificare tutti, in questa pletora di persone tutte giustificate ci siano anche i casi di collaborazione, di cooperazione che abbiamo visto.
Quindi, le forme di denuncia segrete possono essere utilissime per la nostra attività investigativa, possono implementare le indagini su determinate attività, territorio e quant'altro. Ben vengano per questo profilo, però non pensiamo che risolvano il problema. Non lo risolvono sotto il profilo processuale perché, quando poi noi accertiamo, se non c'è qualcuno che ammette di pagare il "pizzo", ci sono delle conseguenze negative. Cioè, colui che ha favorito l'indagine e poi si ritrova ad avere fatto scoprire l'indagine nei propri confronti poi, magari, viene incriminato perché non ammette di pagare il "pizzo". Incriminato per favoreggiamento. Allora capite bene che ci sono questi meccanismi che bisogna conoscere e bisogna fare funzionare.
Diversa è la forma di denuncia cosiddetta "collettiva", cioè tutta una zona, mille commercianti fanno la denuncia firmata e la fanno tutti. Allora ben vengano tutte le iniziative che possono spingere da un punto di vista etico, da un punto di vista culturale, alla risoluzione di un problema comune. Un problema che se affrontato col coinvolgimento della massa, allora sì che si potrà effettivamente risolvere. E' fondamentale convincersi della convenienza di stare dalla parte dello Stato. Perché il pagare tutti e poco, come ha detto certamente il mio collega De Lucia, è una comodità, una serenità che non paga, perché magari si paga a chi chiede il "pizzo" e poi non si pagano le tasse, si eludono altre leggi, altre cose.
Io plaudo a tutte le iniziative, prima fra tutte quelle dei giovani che sono impegnati sotto l'aspetto sia etico, sia culturale, affinchè possano sempre più contribuire ad accrescere il numero di chi si dedica all'attività meritoria di far comprendere la convenienza a non sottostare a nessuna forma di privazione della libertà, della democrazia.
Questo continuo tentativo di prevaricazione, badate bene, viene fatto proprio da chi si propone di proteggerti, da chi ti mette in pericolo, cioè un paradosso, io ti minaccio il pericolo e poi mi faccio pagare per evitare questo pericolo che io stesso ho minacciato. Da noi non è come in altre Regioni o altri Stati dove ci si protegge dalla criminalità comune pagando delle Guardie Giurate, non è la stessa cosa, mettiamocelo bene in testa. Lì sono due entità assolutamente distinte, una che vuole mettere in crisi la sicurezza, l'altra che la protegge. Qua è la stessa componente che contemporaneamente mette in crisi e ti protegge.
Allora, consideriamo tutto questo e cerchiamo di trovare, anche sotto un profilo giuridico, delle soluzioni. Però, finché ci sarà questo stato della legislazione, credo che non avremo scelta nel dovere valutare con rigore le ipotesi di mancata collaborazione, così come penso che le denunce anonime non possano risolvere da sole il problema. Grazie.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringraziamo il dottore Grasso nella speranza che il tempo da lui dedicato a questo nostro convegno possa tornargli utile in termini di contributi più generali che potranno emergere alla fine dei lavori.
Adesso seguiranno gli interventi di Giovanni Felice, di Busà, del Prefetto Marino e del Prefetto Ferrigno. Successivamente ci sarà la proiezione del video curata dall'associazione giovanile Addio Pizzo.
La parola a Giovanni Felice.

 

 

Giovanni Felice, Presidente regionale Confesercenti

Io affronterò il tema del convegno nella veste di presidente di una associazione che associa micro e piccole imprese commerciali.
Il primo tema da affrontare, a mio avviso, è il valore dell'associazionismo. Stamattina questo valore mi pare che sia stato, in qualche maniera, messo in discussione, mentre
io ritengo che l'esperienza dell'associazionismo antiracket sia sempre valida e che sempre più debba costituire un importante punto di riferimento. L'associazionismo, infatti, permette sia di frammentare l'esposizione dei singoli soggetti, sia di allargare la base dei soggetti coinvolti per cui diminuisce esponenzialmente l'effetto provocato dalle minacce. Inoltre, associarsi dà maggiore possibilità all'imprenditore di continuare a fare il proprio lavoro che è quello di fare il commerciante non certo l'eroe.
Dopo questa considerazione, la domanda che sorge spontanea è: come mai nella Sicilia occidentale, in genere, e a Palermo in particolare, non si riesce a costituire un'associazione antiracket funzionale che assolva al compito che abbiamo descritto? Quale ruolo hanno le associazioni di categoria in questo contesto? Riescono a supplire alla mancanza di associazioni antiracket?
Il basso numero di denunce dimostra che le associazioni di categoria non riescono a fungere da elemento suppletivo ed è inoltre evidente che non tutte affrontano l'argomento con eguale impegno ed incisività. Un elemento costante è che le associazioni antiracket che funzionano, sono quelle costituite dal basso, e cioè quelle che vedono come protagonisti gli imprenditori che hanno detto no al racket o che solidarizzano con impegno costante con quei colleghi che hanno subito minacce o danni dagli estortori.
Le esperienze della Sicilia orientale e di altre parti d'Italia, confermano questa teoria. Nella Sicilia occidentale ed a Palermo in particolare, non è stato possibile costituire associazioni antiracket che avessero queste caratteristiche. Il clima di fiducia è molto basso anche perché, come spesso le indagini hanno dimostrato, chi raccoglie il "pizzo" è spesso un presunto collega, comunque uno che ha la sua attività accanto alla tua. Le associazioni antiracket che sono nate a Palermo, qualche volta anche in contraddizione e in contrasto fra loro, sono strutturate dall'alto; non riescono ad incidere ed a diventare punto di riferimento per i tanti operatori economici vessati; non riescono a costruire il percorso che porta l'estorto a denunciare.
Il mio convincimento è che nonostante le precedenti considerazioni, i "contenitori" vanno costituiti e resi efficienti al fine di garantire un impegno di sensibilizzazione e di essere pronti a rispondere alle eventuali richieste e bisogni.
Tutti continuiamo a pensare che le mancate denunce siano strettamente legate alla mancanza di fiducia. In questo ragionamento colgo una contraddizione e mi chiedo: perché nonostante i continui successi di Magistratura e di Forze dell'Ordine le denunce calano? E che dire, elemento che ritengo ancora più grave, del diminuire del numero di estorti disposti a collaborare e a confermare il danno subito dopo la cattura dei loro aguzzini.
Io ho affrontato un tema che è quello dell'impianto normativo e della situazione ambientale. A mio modo di vedere, l'attuale impianto normativo, figlio di una stagione drammatica ma al tempo stesso esaltante, va evoluto e al tempo stesso laicamente analizzato. Premetto che non essendo un tecnico cercherò di analizzare la filosofia dell'impianto normativo e l'attualità dello stesso. E' mia opinione che la norma sia stata pensata per infondere coraggio a chi, volendo denunciare, non trovava la forza per farlo. Penso che, nell'attuale situazione, si stia usando una terapia inadatta rispetto ad una diagnosi sbagliata. Mi rendo perfettamente conto della gravità delle affermazioni che mi accingo a fare, ma è mia intenzione introdurre un punto di vista che, se condiviso, ci obbliga a riformulare, in alcuni aspetti, l'impianto normativo. La mia impressione è che le vittime sottovalutano il fenomeno del racket, nel senso che lo riconducono ad una semplice questione strettamente economica e non si rendono conto della gravità del patto che sottoscrivono con la mafia che li fa divenire complici inconsapevoli. La parte economica di questo scellerato patto è la parte meno grave del fenomeno, in realtà si finisce col consentire alla mafia di condizionare pesantemente la libertà economica e alla democrazia stessa. Nel tempo si è costituito un ambiente favorevole alla crescita del fenomeno. Nel momento in cui vuoi avviare un'attività, è il proprietario dell'immobile a chiederti se ti sei messo in "regola" ed in alcuni casi finisce con l'indicarti il referente a cui rivolgerti.
Davanti a iter burocratici ancora troppo lunghi, spesso si trova chi ti offre una scorciatoia. Ritengo sia giunto il momento in cui le amministrazioni pubbliche devono assumere come impegno prioritario quello di accelerare le procedure amministrative, anche attraverso iniziative che prevedono la presentazione informatica delle istanze, privilegiando il rapporto con le associazioni di categoria.
La raccolta del pizzo ha assunto le più svariate forme, dal fare pagare poco con l'obiettivo di sminuire l'impatto della richiesta, alla richiesta di assunzione di personale, alle indicazioni di aziende da contattare per questo o quel prodotto, alle regalie per le feste dei vari Santi, a quelle di Pasqua e di Natale.
Se quello che rappresento è uno scenario possibile, e lo è, bisogna costruire un impianto normativo che preveda premialità per chi denuncia, ma anche penalità per coloro che, accertato il pagamento del "pizzo", non collaborano, se è il caso colpendo il patrimonio e le attività di chi si trova in queste condizioni. Una penalità di questo tipo renderebbe l'imprenditore più forte, in quanto avrebbe una motivazione per dire no all'estortore o in ogni caso ribadire che, nel caso in cui il reato fosse scoperto, sarebbe "costretto" a rivelare nomi e circostanze in cui il reato è maturato. Contrariamente perderebbe comunque tutto. Viceversa bisogna investire su chi denuncia, procedendo immediatamente all'erogazione dei fondi in caso di danno ed attivando successivamente verifiche e controlli per accertare eventuali elementi di dolo.
Il rapporto con gli istituti bancari. Non posso non esprimere preoccupazione per quello che avverrà nel sistema del credito in un contesto in cui il tessuto economico è costituito quasi esclusivamente da micro e piccole imprese. Molti istituti bancari utilizzano già adesso il sistema rating introdotto da "Basilea 2" con il risultato che aumentano le difficoltà di accesso al credito per le aziende, i dinieghi di fido, con la conseguenza certa che molti si rivolgono al sistema parallelo di finanziamento, che nella nostra realtà è spesso costituito dal sistema mafioso.
"Basilea 2", che nasce per garantire gli investitori e per determinare capacità di affidamento delle banche, nella nostra realtà finisce con il trasformarsi in un potenziale regalo alla mafia. Occorre, attraverso il rapporto dei Consorzi di Garanzia Fidi, individuare meccanismi che mitighino, umanizzandolo, il criterio di verifica delle aziende, avendo come obiettivo, in un momento in cui il costo del denaro è comunque contenuto, la facilitazione dell'accesso al credito.
A mio avviso, gli interventi pubblici devono essere finalizzati a ridurre il costo delle istruzioni delle pratiche (richiedere l'accesso ai benefici previsti dalla L.R. 32/2000 costa alle aziende almeno duecentocinquanta euro a prescindere dall'esito del finanziamento), ad aumentare la patrimonializzazione dei fondi rischi rivedendo, in questo caso privilegiando gli istituti bancari, i meccanismi di recupero delle insolvenze. Si deve costruire un sistema in cui le banche debbano dare un rating ed un budget ai consorzi e non alle singole aziende.
La Confesercenti di Palermo è stata la prima a istituire già nel 1991 il telefono antiracket ed al contempo a chiuderlo soltanto pochi mesi fa, e non perché abbia abbassato la guardia, ma perché, quello che è avvenuto per altre esperienze similari lo ha confermato, è uno strumento che si è rivelato inutile.
E' nostra intenzione, per sensibilizzare gli imprenditori, sostituire il telefono antiracket con l'invio a tutte le imprese di un questionario posto all'interno di una busta già indirizzata e preaffrancata da restituire, se si vuole, in forma anonima.
In questa maniera, chi volesse denunciare un fatto o un episodio non sarebbe costretto a confrontarsi con una segreteria telefonica, ma può, con un gesto semplice, come quello di imbucare una lettera, avviare un percorso che potrebbe portare anche alle denunce.
Ritengo che a Palermo, vada comunque costituita un'unica associazione antiracket che abbia nelle associazione di categoria un punto di riferimento e di avere i propri sportelli funzionali, e penso, che nella città di Libero Grassi, debba nascere una fondazione a Lui dedicata.
La lotta al racket non può essere un problema esclusivo della Magistratura e delle Forze dell'Ordine, e se è vero che occorrono le denunce è altrettanto vero che è necessario creare intorno agli imprenditori un clima di solidarietà.
Non bastano, anche se sono utili, gli appelli e le denunce, occorrono atti concreti. Non posso dimenticare che, quando nel periodo delle autobomba venivano istituite le zone rimozione, i commercianti che operavano in quelle zone, perdevano clientela e con loro le attività. Mi chiedo, quanti di noi hanno comprato un indumento della SIGMA mentre Libero Grassi denunciava i suoi estortori, o quanti di noi, davanti ad un negozio "presidiato", hanno cambiato fornitore perché non era possibile sostare nelle vicinanze. Sicuramente, come dicevo prima, gli imprenditori hanno le loro responsabilità, ma la lotta al racket, che ricordo rappresenta un insostituibile sistema di controllo del territorio per il sistema mafioso, la si vince solo se esiste un impegno dell'intera collettività.

Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringrazio Giovanni Felice, la parola al Prefetto Marino.


Giosuè Marino, Prefetto di Palermo

Ringrazio gli organizzatori del seminario per avermi dato la possibilità di partecipare a questo momento di incontro e di approfondimento. Abbiamo trascorso la mattinata ascoltando analisi davvero molto puntuali e considerazioni molto pertinenti anche sul piano tecnico e, sicuramente, sono emersi degli spunti di riflessione che consentiranno anche di trovare delle soluzioni efficaci rispetto ai problemi di cui dibattiamo.
Sono un Prefetto e come tale sono abituato a misurarmi sulla realtà, sulla concretezza e sulla necessità, comunque, di trovare soluzioni a dispetto della inadeguatezza o della perfezione del quadro normativo proprio perché la realtà impone tutto ciò.
Faccio un'analisi molto succinta della situazione della quale stiamo parlando. Nel 2001 sono state presentate 46 denunce per estorsione e 10 per usura, nel 2002, 73 e 6, nel 2003, 57 e 18, nel 2004, 69 e 9, come vedete è un andamento sostanzialmente costante cioè, non c'è né una evoluzione positiva, né una evoluzione negativa. Gli scostamenti non sono significativi di un mutamento della situazione oggettiva. La verità è che c'è un trend che dire "contenuto" forse è eufemistico, comunque un trend di basso profilo sul piano della denuncia. A questo dato oggettivo vorrei accompagnarne un altro che riguarda sostanzialmente il numero delle istanze prodotte per l'accesso al Fondo di Solidarietà per Vittime di Estorsione e di Usura. Si tratta di settantadue domande, di queste settantadue, prodotte dalla costituzione del Fondo di Solidarietà ai giorni nostri cioè dal '99 a seguire, diciannove non sono state accolte, ventisette sono state accolte, le altre ventisei sono in corso di istruttoria. Se guardassimo a questi dati dovremmo dire che il problema di cui stiamo dibattendo è un problema assolutamente marginale, assolutamente inconsistente. Viceversa, la realtà è quella che emerge dai risultati delle indagini, dagli atti giudiziari, da tutto quello che il dottore Grasso e il dottore De Lucia ci hanno rappresentato in maniera molto efficace. Cioè una estorsione e una usura che sono ampiamente praticate sul territorio, a dispetto dei dati numerici cui facevo riferimento prima. Qual è la realtà? Qui ci si sbizzarrisce sempre nel fare e nel quantificare l'incidenza del fenomeno, quando si parla di estorsione e usura si dice che colpisca il novanta, il cinquanta, il sessanta percento, poco importa quantificare, la realtà dei fatti è che sono dei fenomeni che pesantemente caratterizzano lo spaccato sociale e, soprattutto, sono dei fenomeni che pesantemente condizionano l'andamento economico. Non v'è dubbio che una economia sana, con questo sistema, viene sostituita da una economia, ovviamente, che si ispira non ai principi di mercato ma che si avvantaggia di tutti quei benefici che sono propri in chi il danaro ce l'ha con estrema facilità e quindi, ovviamente, ogni principio di concorrenza viene assolutamente ad essere superato.
Vado velocemente perché non voglio sottrarre tempo a chi mi deve seguire.
Voglio semplicemente ragionare sul fatto che noi siamo qui oggi, sì ad approfondire questi temi, ma il tema del seminario è l'associazionismo antiracket e la difesa delle imprese. Abbiamo esaminato, abbiamo approfondito gli strumenti che possono essere messi a punto per portare avanti con particolare efficacia e maggiore efficacia la lotta al racket, ma, tutto ciò ha a che vedere con l'associazionismo antiracket? Mi pare che un approfondimento soltanto su quei temi, lasciando defilato questo aspetto, potrebbe indurre a ritenere che l'esperienza dell'associazionismo sia un'esperienza superata o sia un'esperienza non altrettanto efficace. Usura ed estorsione, sono degli strumenti che la malavita utilizza in maniera molto efficace nella parte occidentale della Sicilia, e dico questo per cercare anche di dare la ragione di una assenza numericamente significativa di associazioni antiracket in questa parte della Sicilia. L'attività della criminalità, che si esprime in estorsioni ed usura, è assolutamente sintomatica di una attività assolutamente a tutto campo. In realtà estorsione ed usura sono strumenti che si inseriscono in un sistema criminale composito ed articolato nel quale ogni attività criminale è indissolubilmente legata ad un'altra attività criminale. Fare estorsione significa colpire il soggetto imprenditore ma significa anche, se il soggetto imprenditore non paga, interventi di attività criminali di violenta aggressione o il confluire in queste aree di attività criminali di rapina che vanno a concentrarsi, ovviamente, non sull'imprenditore che paga, e paga il "pizzo" e l'"assicurazione", ma su quelli che non pagano.
Intendo dire che l'associazionismo qui ha una difficoltà maggiore perché strutturalmente l'organizzazione si caratterizza in misura diversa sul territorio. Ecco perché, le esperienze alle quali, peraltro, a me è capitato di essere testimone nella provincia di Messina sono esperienze di tipo diverso, perché la criminalità messinese, soprattutto datandola agli inizi degli anni '90, non è una criminalità strutturata come quella palermitana. Si, è vero che a Capo d'Orlando c'era un'attività legata al racket pesante, ma è anche vero che arrestato il gruppo dei Tortoriciani, è chiaro ed evidente che si è fatto piazza pulita e si sono ripristinati criteri e meccanismi di legalità.
Però, quella esperienza ha insegnato una cosa. Quella esperienza è nata quando ancora non c'era assolutamente una legislazione premiale e una legislazione che prevedesse e disciplinasse l'associazionismo. Quella è una esperienza che è nata proprio perché sentita fino in fondo, perché avvertita come esigenza di mobilitazione rispetto alla violenza di pochi, molti insieme riescono ad essere capaci di neutralizzare la violenza di pochi. Questo è il significato della esperienza dell'Acio di Capo d'Orlando da cui poi ovviamente ha preso corpo l'associazionismo.
Ma vorrei anche fare una seconda ed ultima riflessione. Si è parlato di prevenzione, il Procuratore Grasso accennava a come fosse possibile fare prevenzione ove noi dovessimo immaginare di mettere accanto ad ogni imprenditore un poliziotto. In realtà, questo non è assolutamente possibile. Però, io che ho fatto il Prefetto ad Agrigento, a Messina, che adesso sto facendo il Prefetto a Palermo vi posso dire che la prevenzione si può fare tranquillamente se c'è chi, apprestandosi ad iniziare delle attività nel territorio siciliano, creda nel supporto delle Istituzioni e voglia collaborare in questo senso.
Mi è capitato spesso di interloquire con imprenditori che venivano da altre zone del Paese e che avevano preoccupazioni ad investire in zone notoriamente interessate dal fenomeno estorsivo. Con costoro si è "concertato" un sistema di assistenza costante che li mettesse al riparo dalla estorsione. Allo stesso modo sto operando a Palermo, dove si stanno avviando grossissime iniziative di tipo commerciale e grossissimi insediamenti. Gli imprenditori che intendono investire qui, con dei protocolli di sicurezza che la Prefettura - il sottoscritto - concerta con loro, hanno la garanzia di avere tutta l'assistenza possibile. E' chiaro che questo, comunque, comporta sempre un rapporto di assoluta reciprocità, perché se il concetto è che tu fai un Protocollo di Legalità in virtù del quale poi c'è una Istituzione che si collega con te, che risponde di tutto e tu non dai nessun contributo, noi abbiamo fatto finta, ma in realtà non riusciamo a fare niente. Il senso, viceversa, di quello di cui sto parlando è assolutamente diverso. Se l'imprenditore - e ci sono imprenditori che in questo credono e intendono impegnarsi - vuole investire ed ha preoccupazione che qualcosa possa accadere, c'è assoluta disponibilità a sostenerlo, costantemente, mettendolo al riparo da qualsiasi tipo di violenza.
Questo perché lo sto dicendo? Perché, unendo i due concetti, quello della iniziale mobilitazione dell'Acio di Capo D'Orlando e quello della disponibilità degli imprenditori a concorrere, attraverso la sottoscrizione dei Protocolli di Legalità con l'Istituzione, si vede sempre e comunque che alla base di tutto ci deve essere la disponibilità a stare da una parte o dall'altra, ci deve essere comunque, sempre, la volontà di denunciare.
Ho ascoltato davvero con tanta attenzione tutto quello che è stato detto, talvolta i passaggi estremamente tecnici mi hanno messo un po' in difficoltà perché non sono un tecnico né di Diritto Penale, né di Procedura Penale, però io dico una cosa, noi possiamo sicuramente trovare un sistema normativo il più efficace possibile, il più perfetto possibile, ma se non c'è la volontà di utilizzarli questi strumenti, che pure vengono apprestati con estrema attenzione, se non c'è questa volontà hai voglia di mettere la denuncia anonima, la denuncia collettiva, il trattamento che si usa per il collaboratore di giustizia ed altri ed altri sistemi ancora. Alla base di tutto ci deve essere una ferma volontà di non collaborare con l'organizzazione mafiosa nel preteso intento di assicurarsi una garanzia contro ogni forma di violenza in quel paradosso che Piero Grasso poc'anzi evidenziava del "carnefice" che diventa "assicuratore".
Detto questo a me pare di tutta evidenza che bisogna assolutamente puntare sulla necessità di prendere posizione. Se poi ciò si faccia in maniera associata, attraverso una mobilitazione che diventi progressivamente più ampia e più radicata sul territorio, sicuramente i risultati arrivano. E' questo il senso di quel richiamo ad un dovere di partecipazione civile, a valori forti di dignità, che i ragazzi che hanno affisso i loro manifesti sulle strade della città hanno inteso.
Se si dimentica questo aspetto, se si dimentica che è proprio attraverso una mobilitazione dal basso che si può arrivare a fronteggiare con efficacia un fenomeno così diffuso, se non si immagina di trovare delle soluzioni che siano, però, legate comunque sempre alla necessità di partecipare attivamente, ma l'imprenditore lo si considera sempre e soltanto come un soggetto passivo che debba essere governato, gestito, nutrito in tutti i modi, sempre in un atteggiamento di attesa, io credo che si sbaglia profondamente e credo che non sia, tutto sommato, quello che le stesse categorie vogliono. Quindi, credo che su questa strada, su questo percorso dell'associazionismo a difesa delle imprese bisogna puntare ancora con assoluta determinazione. Poi, che ben vengano tutti gli interventi, tutte le modifiche, tutte le integrazioni che si desiderano.
Sarà necessario che le associazioni riscoprano l'essenza iniziale del loro impegno che è fatta non soltanto di informazione, pur essa importante, ma soprattutto di quella attività di proselitismo fatta porta a porta, senza riflettori e senza che, in buona sostanza, la denuncia anonima debba essere sacralizzata in una norma, ma attraverso quei meccanismi che hanno consentito, e l'esperienza ce lo dimostra, denunce alle quali sono seguiti processi nel cui dibattimento i commercianti hanno confermato la propria accusa che si sono conclusi con sentenze di condanna nei confronti degli estortori senza che alcun danno si sia causato successivamente nei confronti degli estorti che hanno denunciato.
Credo che sia una via da seguire e credo che sia, soprattutto, un percorso che l'esperienza ci dice essere assolutamente proficuo. Vi ringrazio e mi scuso del tempo che vi ho preso.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringrazio il Prefetto Marino. Mi sarebbe piaciuto che la concretezza ed il portato dell'esperienza che ci ha dato l'intervento del Prefetto Marino potesse essere ascoltato fin dall'inizio dei nostri lavori perché è veramente importante partire da dati di fatto, come egli ha fatto.
La parola a Lino Busà in rappresentanza della FAI.


Lino Busà, Presidente FAI Associazione nazionale Antiracket

Avevo preparato un testo scritto ma anche alla luce delle cose che ho sentito e dei tempi farò delle brevi considerazioni a braccio, iniziando là dove il Prefetto Marino ha concluso anticipando alcuni temi che intendendo affrontare nel mio intervento.
Debbo dire, con molta franchezza, che nel dibattito di questa mattina, malgrado lo slogan che accompagna i lavori, c'è stato un grande assente, e questo grande assente sono proprio le associazioni antiracket, anzi da alcuni interventi sembrava quasi - e lo dico in maniera provocatoria per andare poi alla parte positiva - che avessimo sancito il fallimento di una esperienza che ormai dura da parecchi anni.
Del resto alcune proposte - su questo sono perfettamente d'accordo col Prefetto Marino ma anche con alcune cose dette dal Procuratore Grasso riguardanti le denunce anonime - mi sembrano dei palliativi che cercano di girare intorno al problema e che ci fanno tornare indietro di dieci, dodici anni quando a partire dalla responsabilità personale, dal protagonismo dei commercianti che si sono opposti al ricatto mafioso, che si sono messi insieme perché così garantivano le condizioni di sicurezza ed erano più forti all'interno del processo. Le denunce collettive, di fatto, si fanno da parecchi anni e sono proprio il portato dell'esperienza dell'associazione antiracket.
Io sono Presidente da un paio di anni della FAI, Tano Grasso ne è Presidente onorario. La FAI è nata nel '99 sulla base dell'esperienza di Capo d'Orlando, esperienza che si è allargata in altre parti del territorio nazionale e che ci ha fatto avvertire l'esigenza di avere un coordinamento a livello Nazionale.
In Sicilia, scusatemi se ripeto queste cose, ci sono trentacinque associazioni antiracket, quattro nella provincia di Ragusa, dodici nella provincia di Siracusa, dieci nella provincia di Messina e sette nella provincia di Catania più altre due che di fatto sono già nate, ancora non le abbiamo presentate pubblicamente, a Canicattì e a Gela.
L'associazione antiracket, almeno come la intendiamo noi, non è un club antimafia, non è un luogo di discussione, deve nascere su fatti penali e quindi deve nascere dal basso, dal convincimento degli imprenditori di dovere denunciare al fine di potersi garantire la libertà di fare impresa.
Indubbiamente che ci siano difficoltà nella Sicilia occidentale rispetto alla Sicilia orientale, i numeri che dicevo lo dimostrano, è lampante.
Anche se il movimento antiracket nasce a Capo d'Orlando non dimentichiamoci dell'esperienza, nel '91, di SOS Imprese che è stata davvero straordinaria in quel periodo, non solo per Palermo ma per tutta l'Italia.
E' vero che c'è una differenza notevole tra la piccola impresa e la grande impresa. Io sulla grande impresa ho qui sentito delle cose su cui non ritorno, ma anche la grande impresa trova motivi di convenienza e di collusione con le organizzazioni mafiose.
Ancora, è vero che c'è un problema a Palermo, ma questo perché? Questa è la riflessione che io voglio fare. E' chiaro che ci troviamo di fronte alla capitale della mafia, è chiaro che ci troviamo di fronte ad una grande area metropolitana, però permettetemi di fare l'esempio dell'esperienza che si sta facendo in questi giorni a Napoli. Anche Napoli è una grande città e non mi si dica che la Camorra non vi sia radicata, eppure in questi giorni, in questi mesi, lavorando quotidianamente si sono costituite tre e adesso si presenterà una quarta associazione antiracket nel centro storico, nel centro antico di Napoli. Si sono fatti i processi e si sono portati alla sbarra gli estortori. Perché? I napoletani sono forse migliori o più coraggiosi dei palermitani? Probabilmente lì, si è fatto un investimento politico verso le associazioni antiracket, quello che manca qui.
Io credo che forse dobbiamo pensare che diversa, chiaramente anche dal punto strutturale, è l'esperienza che si può fare a Palermo rispetto a Capo d'Orlando, a Sant'Agata di Mlitello o di un paesino della provincia di Siracusa, ma è chiaro che l'esperienza che abbiamo mutuato a Napoli, cioè di non fare un'unica grande associazione ma partire dai quartieri, dai fatti concreti, può essere un modello vincente.
In questi mesi, in questi anni, in questi ultimi tre anni la FAI e le associazioni aderenti alla FAI, solo in Sicilia si sono costituite parte civile in quaranta processi portando alla sbarra seicento imputati ai quali sono stati commutati quasi cinquecento anni di carcere e due ergastoli, e non do i dati di SOS Impresa, tutto ciò senza che si siano prodotte particolari ritorsioni, ma garantendo ad oltre centocinquanta imprenditori, commercianti ed artigiani di poter continuare la loro attività. Questi numeri dimostrano che l'associazione antiracket non è l'associazione reduci combattenti, testimoni di avvenimenti passati. Se ci si investe, cioè se la politica e gli Enti Locali investono nell'associazionismo, se tutti quanti investiamo, questo modello può dare, anche una città difficile come Palermo, i frutti sperati. Grazie.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Grazie a Busà e adesso la parola, per l'ultimo intervento della mattinata, al Prefetto Ferrigno. La proiezione del documentario avverrà dopo il break per la colazione che durerà mezzora. Signor Prefetto a lei la parola.


Carlo Ferrigno, Commissario antiracket

Desidero innanzitutto salutare le autorità presenti, tutti gli intervenuti e ringraziare il Centro Studi Pio La Torre e le Università di Palermo e di Messina per avere promosso questo momento di riflessione e di approfondimento dialettico sull'importanza dell'Associazionismo Antiracket nell'azione di contrasto delle criminalità e nella difesa dello sviluppo economico.
Dico immediatamente e brevemente che condivido pienamente l'impostazione offerta dagli autorevoli relatori intervenuti, che hanno accennato allo stretto legame che esiste tra benessere sociale e sicurezza, tra libertà di impresa e legalità, tra libertà individuale e sviluppo economico.
Desidero sottoporre velocemente alla vostra attenzione delle riflessioni che ripercorreranno tale impostazione e saranno ispirate a criteri di semplicità a criteri di concretezza, perchè, coerentemente alle mie esperienze professionali ed alle funzioni che oggi esercito, ritengo che sia indispensabile, per predisporre una efficace strategia di contrasto, definire con semplicità i contorni del problema da affrontare.
Nessuna area della regione siciliana si può considerare estranea al problema della presenza della criminalità organizzata, anche se il fenomeno del "pizzo" si manifesta in modo differenziato tra la Sicilia orientale e quella Sicilia occidentale.
In questa ultima area, infatti, la citata fenomenologia delittuosa si esprime in maniera soffocante, tanto che le acquisizioni investigative segnalano che il taglieggiamento appare maggiormente radicato nelle province di Trapani, Agrigento, Caltanissetta e, naturalmente, nel capoluogo.
L'esazione del "pizzo"avviene, questo voi lo sapete comunque lo ripeto, con forme apparentemente meno violente rispetto ad altre aree atteso che le cosche esercitano un controllo così pervasivo sul territorio da tradursi in una costante intimidazione ambientale che non richiede sempre azioni violente.
Una forma di penetrazione imprenditoriale di Cosa Nostra, non estranea alla pratica estorsiva è costituita da infiltrazioni nell'intero ciclo del sistema produttivo, anche attraverso la imposizione di manodopera e influenzando l'imprenditore nelle scelte commerciali.
Nel corso di una operazione di Polizia condotta nel trapanese, per esempio, è emerso che le cosche avevano imposto ad alcuni commercianti ortofrutticoli di limitare la propria attività solo in una specifica area e che, nello stesso contesto, chi aveva necessità di irrorare le proprie coltivazioni era costretto ad acquistare l'acqua dai "padrini" che gestivano una condotta idrica abusiva.
Da questo quadro si evince chiaramente come le estorsioni del settore degli appalti pubblici siano i due pilastri fondamentali su cui poggia l'economia di Cosa Nostra. Dal "pizzo", infatti, si ricavano i proventi per la gestione ordinaria delle "famiglie" mafiose e dagli appalti pubblici si ricavano rilevanti masse finanziarie da riciclare in attività lecite.
Nonostante l'emersione del fenomeno sia fortemente condizionata dalla ritrosia delle vittime a denunciare, fondata su diverse ragioni, non va sottovalutato quanto si registra da qualche tempo , soprattutto nella parte orientale dell'Isola, frutto di una notevole crescita dell'impegno delle forze sane della collettività e dell'associazionismo che induce a rilevare un inizio di reazione del tessuto sociale alle diffuse manovre dell'illegalità.
Nella regione, da oltre un decennio, si è accertato un rinnovato e forte impegno nelle Istituzioni locali che, quasi sempre, stanno trovando un concorso non solo formale delle organizzazioni produttive e di categoria per avviare delle iniziative, come la costituzione di associazioni antiracket, tese ad accrescere la fiducia dei cittadini verso lo Stato ed i suoi rappresentanti.
Le profonde e diffuse interconnessioni tra organizzazioni criminali e sistema economico, trovano nell'usura uno dei sistemi più ricorrenti di penetrazione commerciale, anche se in molte zone essa non viene gestita direttamente dalla famiglia ma subdelegata a soggetti di cui, comunque, si mantiene sempre il controllo.
L'attività usuraia, quindi, si manifesta sempre più come una attività criminale complementare ad altre, fortemente controllata da Cosa Nostra, anche nella forma indiretta, che assolve ad una specifica funzione nel "sistema" economico della mafia.
Pertanto il problema del racket e dell'usura, in Sicilia ed a Palermo, indubbiamente esiste e incide sul rapporto sviluppo-sicureza.
Non mi soffermerò oltre a disegnare il quadro della incidenza del racket e dell'usura in questo territorio, perché ritengo che nessun numero, nessun dato possa aggiungere qualcosa alla diretta esperienza che ciascuna delle persone ed Istituzioni presenti, ogni giorno, matura sul "campo" guardando in faccia la mafia.
Pertanto ruberò solo pochi altri minuti alla vostra attenzione per sottoporre delle considerazioni che ritengo assolutamente pertinenti alla circostanza.
La prima riflessione, dalla quale articolare ogni ulteriore considerazione, è che il racket delle estorsioni e l'usura costituiscono due pervasivi fenomeni criminali che impediscono l'ordinato sviluppo economico di alcune aree del nostro Paese.
Da questa semplice considerazione, che ritengo ovviamente non solo condivisa da tutti i presenti ma assolutamente consolidata come archetipo concettuale, muovono alcune conseguenze logiche che mi sembra opportuno evidenziare.
La ragione per la quale oggi siamo qui, in funzione della quale la parte migliore della collettività sceglie di impegnarsi quotidianamente ed in prima persona nel movimento antiracket ed antiusura, è che le citate manifestazioni criminali rappresentano una questione estremamente seria, che può essere contrastata solo con l'impegno di tutti.
Su questo fronte il mio Ufficio, è quotidianamente impegnato a costruire un rapporto sempre più stretto con tutte le forze sociali, (come le Associazioni di Categoria, le Associazioni e Fondazioni Antiracket ed Antiusura, la Scuola e via di seguito) perché la loro esperienza costituisca il "valore aggiunto" all'impegno che tutte le Istituzioni, senza esitazioni e con grandi sacrifici, esprimono contro l'illegalità.
Non vi è infatti dubbio che la coesione di tutte le componenti sociali ed istituzionali su questi temi, rappresenti l'elemento innovativo che, nel tessuto sociale, ha saputo innescare un processo di riscatto dalla oppressione della criminalità che, se adeguatamente sostenuto, contribuirà significativamente alla sconfitta di tutte le mafie.
Ognuno di noi, pur nella diversità dei ruoli, pur nella diversità delle funzioni, se vuole effettivamente contribuire nell'azione contro questi reati, è chiamato con forza a superare ogni particolarismo e a ricercare ciò che unisce piuttosto che ciò che allontana da tutti gli altri.
I problemi del racket e dell'usura sono questioni che coinvolgono l'intera collettività (le famiglie, gli imprenditori, le istituzioni, la chiesa, la scuola) ed è irrinunciabile che tutti insieme si cerchi, nell'ottica appena esposta, di individuare ogni sinergia possibile.
Io spero vogliate condividere le osservazioni che ho appena espresso formulate soprattutto per ricordare a tutti noi, anche se certamente non è necessario, quale ritengo debba essere il punto di riferimento della nostra attività quotidiana.
Fatta questa premessa volevo informarvi che dal momento della mia nomina dell'attuale incarico, circa un anno, poco più di un anno, sono state tenute settantaquattro sedute durante le quali sono stati concessi complessivamente €10.243.000,00 di cui €4.451.000,00 alle vittime di estorsioni e €5.800.000,00 alle vittime di usura. In Sicilia sono state deliberate elargizioni per €1.715.000,00 per estorsioni, mentre per usura €1.306.323,00. A Palermo, nell'ultimo anno, alle vittime di estorsione sono state erogate complessivamente €177.000,00 mentre alle vittime di usura sono stati concessi €136.515,00. E' noto anche che ai sensi dell'articolo 6 del DPR 455 del 1999, dall'1 dicembre 2004 al 31 gennaio 2005 ha avuto luogo una massiccia campagna d'informazione sulle opportunità offerte dalle leggi 108 del 96, 44 del 99 alle vittime del racket e dell'usura e che ha diffuso sull'intero territorio nazionale, anche attraverso emittenti televisive, organi di stampa locali, un messaggio teso a promuovere la massima conoscenza delle misure di sostegno in favore delle vittime previste dalla normativa più volte citata. In coincidenza con l'avvio della campagna di informazione è stato attivato presso il mio ufficio un call-center con operatori che quotidianamente si sono alternati, secondo turnazioni prestabilite, per rispondere alle telefonate di coloro che hanno notato il numero verde nei vari messaggi diffusi attraverso i media.
Un dato interessante che è emerso in questa prima fase è che le telefonate sino ad ora pervenute riguardano, prevalentemente, soggetti che si collocano nell'ampia categoria del rischio usura, mentre decisamente inferiori sono quelle giunte da persone che sono interessate da fenomeni estorsivi.
Su un altro versante, con la consapevolezza che la più efficace azione di contrasto al fenomeno usurario è quella della prevenzione, sono stati avviati i lavori per l'osservatorio previsto dall'articolo 1 del Protocollo d'Intesa Antiusura sottoscritto con l'ABI il 16 dicembre 2003, finalizzato a risolvere diversi problemi connessi all'impiego dei Fondi di Prevenzione di cui all'articolo 15 della legge 108 cui hanno preso parte, su specifici temi territoriali, anche alcuni Prefetti di zone particolarmente a rischio tra cui il Prefetto di Palermo.
Questa in estrema sintesi l'attività svolta che mi propongo d'intensificare ulteriormente anche sulla base delle indicazioni che emergeranno dal dibattito odierno. Certamente sono ancora molte le questioni che devono essere affrontate per migliorare l'efficacia dell'azione antiracket ed antiusura. Alcune sono già sul tavolo di discussione da diverso tempo, altre stanno ora affacciando alla nostra attenzione, ma con vera soddisfazione desidero evidenziare che il percorso che si è avviato diversi anni fa con le leggi 108 e 44 non ha mai subito battute di arresto, anzi con iniziative come quella di oggi continua a svilupparsi e progredire.
Io desidero concludere questo breve intervento ribadendo ancora una volta un concetto elaborato dall'esperienza di questi anni. Esiste un unico, consolidato principio ispiratore cui dobbiamo continuare a riferirci, quello della sinergia fra tutte le componenti sociali. Tutti insieme, ogni giorno, possiamo contribuire, anche con piccoli gesti, a far crescere la consapevolezza che agire contro il sistema dell'illegalità significa conquistare spazi di benessere sottratti a tutta la collettività.
Vi ringrazio.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringrazio il Prefetto Ferrigno.
Ricordo che i lavori riprenderanno fra mezzora, con la proiezione del documentario realizzato dall'associazione Addio Pizzo, e che proseguiranno con gli interventi di Julo Cosentino per la Confcommercio e di Pino Costanzo Presidente della Confindustria Sicilia. Grazie.

 

INTERVENTI DEL POMERIGGIO


Proiezione del documentario dell'associazione "Addio Pizzo"di cui alcune immagini sono riportate di seguito.


Vito Lo Monaco, Vice Presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

Grazie ai ragazzi di Addio Pizzo, adesso continuiamo il nostri lavori dando la parola a Julo Cosentino Coordinatore regionale della Confcommercio.


Julo Casentino, coordinatore regionale Confcommercio

Buonasera, scusate la voce ma sono influenzato, tuttavia, nonostante l'influenza, sono riuscito a resistere fino a quest'ora, segno che il virus del racket è un virus che si può sconfiggere anche con gli antibiotici.
Intanto vi porgo i saluti del neo eletto Presidente della Confcommercio di Palermo Roberto Helg, eletto alle 13,30 quasi ad unanimità.
Io credo che il convegno di oggi sia stato un'utile occasione per discutere e dibattere su un tema molto importante qual è la presenza sempre più ramificata del racket delle estorsioni sul nostro territorio. Io non voglio entrare nel merito di alcune questioni che sono state finora poste, ma desidero affrontare questa tematica dal punto di vista dell'associazione imprenditoriale.
Noi, come Confcommercio Sicilia abbiamo recentemente fatto una riunione nell'ambito della quale è stata presentata la costituzione del Coordinamento Regionale Antiracket della Confcommercio, che vuole essere una prima risposta di impegno, monitoraggio e contrasto alla criminalità.
Ritengo che sia importante privilegiare la funzione dell'associazione, prendere atto da una parte della sua storia - patrimonio comune a tutta la Sicilia di questi ultimi quindici anni di lotta alla criminalità che ha visto in prima fila tanti imprenditori - ma prendere anche atto delle numerose difficoltà che abbiamo dovuto affrontare. Siamo partiti dal calo delle denunce di circa il 6% a Palermo, ma soprattutto dal mancato funzionamento e conseguente chiusura del "telefono antiracket", ma è anche importante sottolineare come da questa situazione di difficoltà si sia potuta creare una nuova premessa per una azione più incisiva nella lotta alla criminalità.
La Confindustria Sicilia ha voluto aprire questo dibattito sul racket con quel convegno di cui tanto si è parlato, spesso in maniera impropria, perché più che discutere sui contenuti emersi da quell'incontro si è preferito polemizzare sul numero delle presenze. Ma i convegni non vanno valutati per il numero dei presenti, ma per la qualità delle proposte e soprattutto per il tentativo di apertura di un ragionamento. Questo ragionamento si è aperto, e si è aperto in maniera nuova ed anche il dibattito di oggi lo testimonia, perché non c'è dubbio che la presenza, soprattutto in una città come Palermo, della criminalità è una presenza diffusa, come non c'è dubbio che il numero basso di denunce testimoniano una difficoltà degli imprenditori. Proprio partendo da queste difficoltà, non possiamo dare delle risposte come le avremmo date quindici anni fa, soltanto dicendo, per esempio, che c'è bisogno di nuovo associazionismo antiracket perché, lo diceva stamattina il procuratore De Lucia, se in una città come Palermo in tutti questi anni nonostante il forte impulso che è stato dato all'associazionismo antiracket, alla lotta antiracket da più parti, non si è riusciti a costituire una associazione, certo un motivo ci sarà. Bisogna tenere presente che un territorio come quello di Palermo, di una città di un milione di abitanti, non può mai essere paragonato ad una realtà così diversa come quella della Sicilia orientale da cui partì l'associazionismo antiracket. Anche oggi è stato ribadito questo concetto, il Prefetto Marino ricordava l'esperienza dell'Acio e ricordava come i criminali di allora spesso arrivavano da paesi diversi da Capo d'Orlando.
Allora, cosa bisogna affermare? Primo: un nuovo protagonismo delle associazioni imprenditoriali. Credo che non sia un caso che oggi delle associazioni importanti - Confindustria, la mia stessa associazione, e altre associazioni - ribadiscano che l'associazione si deve impegnare ad essere al fianco dell'imprenditore nella lotta al contrasto della criminalità. Questo rappresenta un passo avanti, un passo importante che testimonia che questi anni non sono passati invano.
Secondo: come questo passo avanti si può fare? Intanto non disperdendo gli strumenti che finora sono stati utilizzati come, laddove hanno funzionato, il "telefono antiracket" e le forme di associazionismo, laddove non hanno funzionato trovando delle soluzioni differenti.
Ora, il dibattito di oggi, come anche il convegno di Sicilindustria, ruota attorno ad un interrogativo:l'imprenditore o commerciante è una vittima o è un complice? Perché, se è un complice va perseguito come gli estortori quindi, a questo punto, se il "pizzo" è pagato dal 90% degli imprenditori dobbiamo attestare che la mafia ha vinto ed il tessuto imprenditoriale è marcio. Io ritengo, anche stamattina è stato ribadito, che si debba distinguere il reale stato di necessità di chi è costretto a subire questa violenza intimidatoria da chi invece ne approfitta per potere ottenere una licenza, per potere migliorare le proprie posizioni economiche, perchè c'è una differenza tra chi subisce e tra chi è colluso, tra chi è complice e volontariamente si fa artefice di una società criminale. Il punto è che la maggioranza degli imprenditori sono vittime non sono complici. La minoranza dei collusi, che vanno perseguiti come complici, non vanno assolutamente assimilati a tutto il resto degli imprenditori che rifiutano la criminalità e che la subiscono. A questo punto, è importante capire come aiutare le vittime del racket ad uscire da una condizione di isolamento che, a volte, è anche paradossale. Perché esistono degli strumenti di contrasto, esiste una legislazione premiale, esiste il modo di aiutare la ricostruzione dell'esercizio commerciale danneggiato di chi denuncia, esistono tutti questi strumenti però è anche vero che ci sono realtà della Sicilia dove ancora la denuncia spontanea non arriva e dove, come è stato ricordato, al contrario, la reticenza dell'imprenditore di fronte anche all'evidenza permane. Perché permane? Per sfiducia nelle Istituzioni? Perché l'imprenditore nel suo ambiente non riesce ad essere "coraggioso"? E' questo il problema? Possiamo seriamente pensare, stamattina si accennava alla denuncia collettiva, che in quartieri di Palermo come Brancaccio è ipotizzabile che cinquecento imprenditori presentino una denunzia collettiva? Ragioniamo sul fatto di come è proprio il territorio siciliano che rende difficile l'estrapolazione dell'imprenditore dall'ambiente in cui vive. Non dimentichiamo che spesso l'imprenditore opera in un ambiente dove vive lo stesso estortore. Allora non è soltanto un problema di coraggio individuale, è anche un problema di radici sociali del fenomeno, rispetto alle quali, per poterle sconfiggere ci vogliono due cose, la cultura della prevenzione e della legalità, ma anche l'individuazione di strumenti più efficaci per consentire a questi soggetti di vincere la ritrosia ambientale e poter essere protagonisti, sul piano giudiziario, della politica di contrasto alla criminalità; quindi da vittime far perseguire i propri carnefici e non diventarne complici se pure involontari. Ora, affermando che l'estorsione è un fatto di massa, la risposta non può non essere che di massa, non può essere una risposta che riguarda il coraggioso imprenditore singolo che denuncia e che però poi vive sotto scorta o che ha ricostruito tre volte il proprio locale, perché questo può riguardare la realtà circoscritta ma non riguarda la massa degli imprenditori di piccolo calibro che magari vivono in un grande quartiere metropolitano.
Questa mattina si è anche parlato della denuncia anonima, molto criticata, ed ho sentito il Procuratore Grasso sostenere che nel processo attuale non è possibile applicarla. D'accordo, io intanto penso che denunciare sia un fatto etico, se noi educassimo i nostri imprenditori al dovere etico della denuncia, certamente faremmo un passo avanti.
Si è parlato dell'azione collettiva, questa azione collettiva la può portare avanti un'associazione di categoria in prima persona? Possiamo, nel nostro ordinamento, riconoscere dignità all'azione di denuncia - non solo alla costituzione di parte civile nel processo da parte dell'associazione che già avviene - da parte della stessa associazione di categoria, per garantire all'associato questa copertura da parte dell'associazione? Queste possono essere delle risposte nuove alla problematica, che è abbastanza spingente.
E' stato qua proposto di costituire un comitato antiracket regionale, noi siamo disponibili con le altre associazioni. Alle 17,00 firmeremo il Protocollo d'Intesa con tutte le associazioni alla Confindustria, la parte che riguarda la legalità può essere il primo passo per arrivare ad un accordo fra le associazioni imprenditoriali al fine di costituire un comitato antiracket che funzioni. Facciamolo sapendo che è un passo importante ma che non basta questo passo perché il nostro impegno di associazionismo può essere un impegno forte se non abbiamo le armi spuntate. E le armi non spuntate, lo ripeto, e chiudo, oggi possono essere soltanto la ricerca di soluzioni innovative che ci consentano di essere a favore dei nostri associati in maniera più moderna.
Per quanto riguarda il nostro impegno, ho ribadito la costituzione di questo Coordinamento, il Coordinamento servirà anche ad avere nel territorio, compresa la città di Palermo, l'individuazione di una persona che si occupi di questi problemi dentro l'associazione, che stia in contatto con i nostri legali, che affronti i singoli casi in accordo con la Magistratura, con le Forze dell'Ordine, con le Istituzioni, e quindi fare il nostro dovere fino in fondo di associazione a difesa degli interessi degli imprenditori tra cui per primo la difesa della legalità, grazie.


Vito Lo Monaco, Vice Presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

Grazie, do subito la parola a Pino Costanzo.


Giuseppe Costanzo, Presidente Confindustria Sicilia

Grazie dell'invito,
io proverò in qualche maniera, dal punto di vista dell'imprenditore, a spiegare perché questo imprenditore dovrebbe, per dignità personale, fare la cosiddetta denuncia e perché non la fa. Chi è questo imprenditore in Sicilia?
Delle attività economiche in Sicilia il 30% è sommerso e quindi, per definizione, non può essere legale. Non è pensabile che uno che non è abituato alla illegalità, ma ne fa una propria ragione di vita da imprenditore, possa poi avere un atteggiamento positivo nei confronti di fenomeni come il racket e l'usura. Ma c'è un fenomeno ancora più grave di questo 30% del sommerso ed è quello che io chiamo la voglia di pubblico. Non so se ve ne siete accorti, ma sempre di più e sempre progressivamente, gran parte dell'economia regionale viene sottratta alla libera imprenditorialità. Assistiamo infatti ad un fenomeno ripetitivo e continuo di trasformazione di attività economiche che prima erano gestite dal cosiddetto libero mercato e che sempre più diventano una sorta di monopolio, volete pensare a tutte le utility, volete pensare all'acqua, volete pensare alla luce, volete pensare ai servizi di nettezza urbana, volete pensare alle informatizzazioni, adesso ci mettiamo pure i controlli dei musei piuttosto che altri. Ci sono le società che si clonano, che si clonano con la scusa di potere avviare al mondo del lavoro gran parte dei cittadini che non hanno la fortuna di averne uno, e che finiscono per avvitarsi in un processo di finta economia che non fa altro che alimentare un fenomeno di falsa economia, che secondo me è ancora peggio di fenomeni come quelli del racket e dell'usura, perché è legalizzato, perché a quel fenomeno non possiamo gridare, non possiamo alzare al voce, non possiamo parlare. Non possiamo parlare alle centinaia o alle migliaia di Consigli di amministrazione, di consulenze varie, e chi ne ha più ne metta. Allora, questo imprenditore, che diventa una sorta di Panda da proteggere con un'associazione che non è quella dell'antiracket ma è quella del "WWF", e che è abituato ad avere il cappello in mano perché, lo sappiamo tutti, che nel momento in cui vuole pensare di affermarsi come imprenditore, con un cappello in mano deve andare a chiedere settantadue autorizzazioni a settantadue enti diversi che non hanno nessuna voglia di aiutarlo nella sua attività imprenditoriale. Quindi, il codice genetico di questo imprenditore è un codice genetico di chi si è dovuto sottomettere a qualcuno, di chi ha dovuto in qualche maniera subire una sorta di intimidazione, una sorta di soverchieria. Questo è il suo codice genetico, un codice genetico che poi si estrinseca nel momento in cui riesce a fare l'imprenditore, nel momento in cui deve cominciare a essere competitivo perché il mercato globale gli impone di essere competitivo. Allora, cosa scopre? Scopre che in Sicilia, dove ci sono cinque, sei raffinerie, compra i prodotti petroliferi più cari che nel resto d'Italia, perché c'è una sorta di monopolio, di duopolio fra ERG ed ENI; scopre che l'energia elettrica, finta liberalizzata da una legge che permette ai grandi utilizzatori di potere adire al libero mercato, ha un mercato separato da quello del Nord Italia perché sono meno le influenze da parte della concorrenza e quindi il mercato dell'energia elettrica in Sicilia è notevolmente superiore del mercato dell'energia elettrica d'Italia; scopre che lo Stato ad un certo punto mette balzelli vestiti da altre cose, cito uno per tutti il CONAI a cui molti di noi, che facciamo prodotti per l'imballaggio, paghiamo una sorta di tassa che poi ci dovrebbe essere restituita dal finto riciclo della nettezza urbana che diventa anche un altro meccanismo di facilitazione collettiva o di alimentazione della politica. Ed allora questo imprenditore che tutti i giorni si trova a combattere con questo tipo di problematiche, e mi fermo qui perché potrei addentrarmi nei confronti del credito di un mercato, come quello siciliano, dove nei supermercati delle grandi banche non ci sono prodotti alternativi che non siano quelli del capitale di credito, del capitale a breve, non esistono venture capital o private equity, non esistono evoluti sistemi di finanziamento alle imprese. Questo imprenditore, abituato alla illegalità o abituato ad arginare o a trovare sotterfugi per potere sopravvivere, nel momento in cui si trova ad affrontare un fenomeno come quello dell'estorsione, a quel punto immediatamente prende una stella da un tavolo, se la mette sul petto e diventa sceriffo? E poi alla fine non è altro che un balzello che, per come la mafia ha impostata la sua attività negli ultimi tempi, diventa il minore dei balzelli perché non sottovalutiamo il fatto del pagare poco per pagare tutti che, a questo punto, diventa il problema minore per l'imprenditore. Allora, il problema non è rendere conveniente la denunzia, non è quello di arzigogolare chissà quali meccanismi legali che possano permettere all'imprenditore di potere alzare la testa, il problema è un problema culturale, è un problema in cui dobbiamo tutti fortemente dire che pagare qualcosa alla criminalità organizzata, alimentare la criminalità organizzata, è qualcosa che dovrebbe rimordere le nostre coscienze, è un modo di avere violata la nostra dignità di cittadino, la nostra dignità d'imprenditore. Legalità è legalità a 360°, è una legalità che si deve imporre alla criminalità organizzata, ma è una legalità che si deve imporre anche a quel parastato, che al pari della criminalità organizzata, ci vessa. E' necessario, infatti, denunciare non soltanto l'estortore ma anche il pubblico funzionario che in qualche maniera rende difficile questo percorso. E' un processo lungo, non è un processo che possiamo risolvere con una legge o con un meccanismo "taumaturgico" che dall'oggi al domani ci possa mettere nelle condizioni di fare questo, bisogna ricreare quel clima politico che una decina di anni fa ha determinato una grande rivoluzione del popolo siciliano nei confronti della mafia, offeso dalle grandi stragi.
Oggi bisogna cominciare all'interno dell'associazione, all'interno della coscienza dei singoli imprenditori a far crescere il culto della legalità, ognuno di noi si deve ritenere offeso nella propria dignità nell'alimentare un fenomeno come quello mafioso attraverso il "pizzo", attraverso l'usura. Bisogna, al contempo creare le condizioni perché l'imprenditore venga aiutato non soltanto per potere combattere un fenomeno di questo tipo, ma soprattutto per avere facilitate le condizioni di sopravvivenza, che sono quelle dell'accesso al credito, dell'accesso all'internazionalizzazione, dell'accesso allo sviluppo, all'innovazione e a tutti quei sistemi che gli possono far sentire lo Stato amico. Solo quando sentirà lo Stato dalla sua parte, allora crescerà la coscienza per poter dire adesso io sono un libero cittadino, pretendo di essere un libero cittadino, mettiamoci assieme, denunciamo un fenomeno così avvilente, grazie.


Vito Lo Monaco, Vice Presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

La parola al Senatore Garraffa.


Senatore Costantino Garraffa, SOS Imprese di Palermo

Ringrazio il centro Pio La Torre per l'invito, ritengo che quella di oggi sia un'altra importante occasione per affrontare un tema tanto rilevante. Questa iniziativa segue ad un'altra che, a mio avviso, aveva un suo valore, un significato che i giornali non hanno preso in considerazione.
Ricordo che prima che Libero Grassi morisse l'Associazione Industriali, attraverso la voce del suo presidente, lo riteneva un "tammurinaru".
Il convegno della Confindustria organizzato assieme all'Associazione Nazionale Magistrati, ha comunque creato una controtendenza significativa, le stesse parole del Presidente Costanzo lo dimostrano, come lo dimostra, nei giorni scorsi, l'iniziativa della FAI a Palermo ed oggi questa del Centro Pio La Torre che è sicuramente apprezzabile. Permettetemi di fare una sorta di brevissima cronistoria partendo dal maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone. In quel periodo a Palermo si respirò, all'interno della criminalità organizzata, un'aria da "liberi tutti" e molti commercianti furono vittime, nella città di Palermo, di numerose rapine. La Confesercenti di allora decise di somministrare un questionario, redatto insieme alla Facoltà di Psicologia, e scoprimmo che a Palermo l'11% degli imprenditori pagava il "pizzo" e che dietro la rapina si poteva celare l'estorsione. Lanciammo un telefono antiracket, si riuscirono ad ottenere in quel periodo significative risposte circa centosettanta, centottanta telefonate in un anno, e mi ricordo che l'allora Questore di Palermo, poi divenne Prefetto e poi Capo della Polizia dottore Masone, si incontrava con il sottoscritto alla Cattedrale, dove gli consegnavo la cassetta del registratore in cui registravamo le telefonate arrivate, a dimostrazione del fatto che neanche lui aveva fiducia nelle strutture pubbliche. Sapeva, infatti, che in quel periodo si respirava un'aria non certo tranquilla alla Questura di Palermo. La cosa che veniva fuori da quelle telefonate era che, nelle altre realtà, i soggetti parlavano con chiarezza e indicavano nome e cognome degli estortori, per quanto riguardava Palermo si segnalavano soltanto le zone e, purtroppo, questa cosa dimostrò come Palermo non si potesse considerare una realtà per certi versi emancipata rispetto ai rapporti con lo Stato. A me dispiace che non ci siano gli amici delle altre organizzazioni antiracket, ma sanno come la penso, anch'io ho fatto parte della Direzione Nazionale della FAI, in questo momento "godo" della incompatibilità in quanto ricopro questa carica istituzionale, ma sono ancora il Presidente dell'Associazione Antiracket di Palermo che in dieci anni si è presentata in tutti i processi contro gli estortori, ha istaurato un rapporto, non certo "simpatico", con circa trecentotrenta criminali che hanno subito circa milleduecento anni di pene detentive. Molti di questi sono già liberi e continuano a fare quel mestiere che facevano prima. Bene, come dico ai miei amici dell'Associazione Antiracket, Palermo non può essere considerata alla stessa stregua di qualunque altra città della Sicilia, e spiego subito il perché: a Capo d'Orlando, Sant'Agata di Militello, nei paesi delle province dove è stata radicata la presenza dell'antiracket, c'era una presenza della criminalità organizzata che si vedeva direttamente. Qui a Palermo, quando arrestano un estortore, immediatamente, dopo due giorni, ne arriva un altro che deve riscuotere lo stesso "pizzo" che prendeva il precedente. Allora, qual è la novità vera in quest'ultimo periodo? La novità vera è data da un gruppo di giovani che, poco fa scherzavo con altri, utilizzando lo stesso metodo della mafia - nel senso che sono ancora anonimi e anziché l'attak hanno usato gli adesivi - hanno creato un meccanismo di controtendenza dal basso affiggendo quei manifesti, quegli adesivi che abbiamo visto, dimostrando che c'è tra i giovani qualcosa che si muove. Io, come tanti altri che sono qui presenti, ho fatto parte, anche in maniera significativa, del movimento studentesco. Ma il movimento studentesco, se non ricordo male, non aveva come primo obiettivo la lotta alla criminalità organizzata, c'era: il diritto allo studio, la possibilità di parlare, di incontrarsi nelle assemblee ecc., oggi ritengo che sia stato un limite non rendersi conto che, in effetti, noi, la mia generazione intendo, le nostre battaglie dovevamo farle anche da quel punto di vista. Poi subimmo il fascino di Pio La Torre, perché legava la sua lotta contro la mafia alla vicenda dei missili a Comiso, ma non solo, dovrei parlare per più tempo per spiegare meglio queste mie argomentazioni.
Dopo questa vicenda degli adesivi, c'è stato un periodo di silenzio e poi è arrivata l'inchiesta di Report che ha sconvolto tutti, naturalmente non mi riferisco a coloro che condividono i risultati dell'inchiesta, ma ha sconvolto soprattutto le stanze del Potere che tendenzialmente tendono a sottolineare come con questo Governo tutto vada bene, che la Sicilia sta cambiando, che c'è una evoluzione. Io, non sono assolutamente d'accordo con questa visione della realtà, e ritengo che gli imprenditori hanno la consapevolezza di quello che sta accadendo anche dal punto di vista politico ed istituzionale. Non dimentichiamo che gli imprenditori molto spesso pagano per paura, molto spesso pagano per stare tranquilli perché subiscono delle minacce tali che li costringono a pagare e poi, come ho già ribadito in altre sedi,è più facile risolvere i problemi con un estortore che non con un direttore di banca che è capace, in pochissimo tempo, di farti giungere al fallimento anche per un debito di ventimila euro, a Palermo si è falliti per queste somme ed anche meno. Senza parlare di ciò che accade nella sezione fallimentare del Tribunale di Palermo, le commistioni che ci sono tra parte dell'avvocatura e le stesse banche, tutte situazioni che noi dovremmo affrontare con maggiore incisività.
Al convegno della FAI ho proposto, fermo restando il ruolo sacrosanto delle associazioni antiracket, un tavolo tecnico in cui mettere insieme esperti ed in primo luogo l'Università di Palermo - che ha al suo interno capacità, professionalità, conoscenze - insieme alle associazioni, insieme ai magistrati, insieme ad alcuni rappresentanti del Foro di Palermo che non stanno, per intenderci, a difendere i criminali ma che hanno fatto una scelta di carattere etico-culturale che è quella di difendere le vittime di estorsione ed usura. Sono tanti gli avvocati, e qui ce ne sono anche presenti, che fanno questo lavoro senza commistioni tra rapporti vari.
Ritengo che la vicenda di Report ha avuto un esito particolare, dopo la ribellione del Governatore e di tutti gli altri, poi è venuto fuori il verbale del processo che adesso vede alla sbarra un imprenditore di Bagheria che è collegato al sistema di potere, c'è un Governatore che è in questo momento accusato di favoreggiamento. Vedete, è la dimostrazione che gli imprenditori che pagano, pagano perché sanno di un determinato meccanismo, anche di aggiudicazione degli appalti. E il fatto che dopo Report e dopo la conferenza della Confindustria venga fuori che ci sono imprenditori nella zona di Villabate o di Palermo che appena hanno avuto le fotografie dei trentotto che dovevano essere arrestati sono andati dagli stessi mafiosi a dire: "guardate che c'è la possibilità che vi arrestino" come diceva oggi Grasso, è la dimostrazione che c'è una realtà che noi spesso sottovalutiamo. Ecco perché la diversità di Palermo, e siccome Palermo rappresenta un'anomalia anche rispetto a questo, noi dobbiamo affrontarla in una maniera completamente diversa, perché guardate, la criminalità organizzata, in Sicilia, nella parte occidentale, è sicuramente più forte di quella della parte orientale, non ci sono dubbi, qua c'è la sede governativa ma qui c'è la capitale di Cosa Nostra.
Oggi ci troviamo di fronte ad un meccanismo così garantista che l'avvocato è bravo nel momento in cui non è che non fa andare in galera l'estortore, ma allunga i tempi del processo in modo che, con il meccanismo della prescrizione che ha ridotto i tempi per il reato di usura da quindici anni a sette anni e mezzo, non arriverà al secondo o al terzo grado, ma sarà libero prima perché la prescrizione scatterà a sette anni e mezzo. Se per istruire un processo in primo grado per usura, qua a Palermo, ci sono voluti cinque anni figuratevi per arrivare al terzo grado quanti anni ci vogliono. A questo proposito, dunque,si rende opportuno velocizzare i tempi processuali.
Avete notato come riguardo alle denunce ed alle confidenze anonime c'è una parte della Magistratura che fa qualche apertura, e un'altra parte che invece dice no, affermando con forza la necessità che l'imprenditore vada in sede dibattimentale a ribadire le proprie accuse. Guardate che le udienze sono circa quaranta, cinquanta per un processo di questo tipo. Ancora, avete visto quello che sta accadendo in quel processo che vede coinvolto un Maresciallo dei Carabinieri che è deputato regionale, un Maresciallo della Guardia di Finanza e un altro Maresciallo; la gente, gli imprenditori, hanno la consapevolezza che c'è qualcosa che non funziona, sta a noi, sta alla Magistratura, sta alla capacità delle forze che fanno capo alle centrali di categoria e dell'impresa, dare dei segnali, ritengo che questo sia uno strumento indispensabile anche in una realtà come questa.
L'associazione che presiedo ha cinquanta iscritti, in determinati momenti, abbiamo cercato di contattare, attingendo da un elenco, altre vittime del racket per farle denunciare, ma la maggior parte di queste ci ha chiuso la porta in faccia dicendo che non era assolutamente vero che loro pagavano il "pizzo". Vedete, ci sono delle realtà che noi viviamo giornalmente, bisogna fare i conti anche con la conoscenza del territorio. Quando ho saputo stamattina che un gruppo di commercianti di via Libertà aveva deciso di dire no al "pizzo", ho chiesto al Prefetto: "ma sapete chi sono?". La verità è che questi commercianti, posto che in questo momento non pagano il "pizzo", visto che in quella zona c'è stata qualche rapina e qualcuno ha fatto il colpo, per intenderci, alla "Bellini", io credo che possibilmente taluno abbia già pagato il prezzo di questa mediazione.

 

Vito Lo Monaco, Vice Presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

La parola a Carmelo Diliberto, Segretario regionale CGIL.


Carmelo Diliberto, Segretario regionale CGIL

Anch'io ritengo importante questa opportunità che oggi ci viene offerta dal seminario organizzato dal Centro Pio La Torre, credo che però dovremmo ragionare non solo sulle misure per prevenire e combattere il racket ed in contemporanea salvare le imprese, ma credo che bisognerebbe allargare l'orizzonte delle iniziative, ed ho preso atto, con piacere, che qualche intervento lo ha fatto.
Questo è un tema che sta tornando molto di attualità. Vanno bene i convegni, aldilà delle partecipazioni, ma secondo me bisogna andare un pochettino oltre. Costantino prima di me diceva: "la situazione della Sicilia orientale non è uguale a quella della Sicilia occidentale", io non sono d'accordo ma mi piace partire da una storia. A Siracusa, qualche tempo fa un gruppo di imprenditori ha costituito un'associazione, il suo presidente ha subito, nel corso del tempo, ben tre attentati. Ma Siracusa è anche, probabilmente, l'area della Sicilia dove a stretto giro di posta arriverà il più alto flusso di finanziamenti pubblici. Quindi, se mettiamo assieme questa cosa che vi ho preannunciato, la nascita dell'associazione antiracket, l'apertura di una discussione tra le forze imprenditoriali e sindacali, il risultato ottenuto è stato un'azione di repulsione molto forte da parte della criminalità organizzata che ha portato, ripeto, a compiere ben tre attentati al presidente dell'associazione antiracket. A questo abbiamo risposto, non solo con convegni, ma anche con la manifestazione del diciotto di novembre. La risposta ulteriore alle nostre iniziative, è stata una serie di attentati, due alla CGIL, una ad uno stabile dove si trovano le cinque televisioni locali e così via. A quest'altro attacco abbiamo risposto sabato scorso con un'altra manifestazione di massa, che ha visto assieme, aldilà delle articolazioni delle singole posizioni, tutte le associazioni imprenditoriali e le forze sindacali: io ritengo che abbia visto assieme anche un pezzo importante della città. Quale lezione dedurre da questo episodio che può sembrare lontano da Palermo? La verità è che ogni qualvolta si creano le condizioni per avere un processo di aggregazione e soprattutto di prevenzione rispetto a fatti che si devono verificare, viene fuori la controreazione, viene fuori il tentativo di ostacolarli. Ovviamente questo è un concetto che meriterebbe più tempo per essere approfondito però, se questo è il dato di partenza quale può essere il contributo delle organizzazioni sindacali rispetto al tema? Noi partiamo da una convinzione che è profonda, ed attorno a questa convinzione abbiamo costruito anche nostre piattaforme che tentiamo di portare avanti. La Sicilia, il Mezzogiorno complessivamente, può decollare se mette assieme due cose, lo sviluppo e la legalità, le due cose non sono assolutamente scindibili, e quando andiamo ad esplicitare queste due cose, mettiamo assieme una serie di priorità o convenienze dove ci stanno le infrastrutture, dove ci sta il credito, dove ci sta il ruolo della Pubblica Amministrazione e ci sta la legalità. A me è capitato tante volte di sentirmi chiedere che c'entra la legalità rispetto alle altre tre questioni. Io credo che la legalità non è un capitolo a se stante ma sovrintende rispetto alle tre questioni di cui parliamo. Poi, se guardiamo un attimino al nostro mestiere di sindacalista io dico che il mondo del lavoro dipendente è un mondo che è vittima del sistema del racket per ovvietà che ricordo in maniera sommaria. L'impresa sottoposta la pagamento del "pizzo" automaticamente deve scaricare questi costi aggiuntivi, ovviamente li scarica sul lavoro dipendente, quindi meno salari, meno diritti, meno sicurezza. Per non fare sembrare questa affermazione un semplice slogan, il ragionamento deve avere una vista a più ampio raggio e quindi guardare i diversi ambiti produttivi, il commercio, le piccole imprese, le aree industriali, gli appalti e non penso solo agli appalti nel settore dell'edilizia dove c'è un intreccio tra un'impresa capofila e un'impresa subappaltante.
Ho visto che Costanzo poneva, giustamente, la questione degli spazi che si restringono sempre più per l'impresa privata rispetto alla totalità dei servizi che vanno ad essere gestiti dalla Pubblica Amministrazione. Questa, a mio avviso, è una questione, molto importante da affrontare. Noi come sindacato, ed in particolare come CGIL, da tempo sosteniamo che ormai la politica, soprattutto il Governo della Regione, utilizza uno strumento che poteva essere nobile quando è nato, quello delle società miste, che invece si è trasformato in uno strumento per aggirare le norme dell'assunzione alla Pubblica Amministrazione creando danno due volte, diseducando ad una certa tipologia di lavoro e creando, come diceva Costanzo, una concorrenza sleale rispetto al sistema delle imprese tutto a discapito non solo della crescita dell'impresa in se stessa ma, mi permetto di aggiungere, persino rispetto alla qualità del servizio offerto. Riguardo alla ricaduta sui lavoratori, noi potremmo fare un lungo elenco rispetto alle scelte ed ai modi che vengono messi in campo per poi fare pagare l'anello debole della catena che è quello del lavoro dipendente, il sottosalario. Oggi credo che gli uffici provinciali del lavoro non hanno più vertenze per il sottosalario perchè il sistema delle imprese si è molto raffinato, nella stragrande maggioranza dei casi si impone al lavoratore la firma della busta paga, pur sapendo che quello che è scritto in busta paga, ovviamente, non risponde a quello che viene erogato. Poi ce ne sono altri ancora, un poco più attrezzati, che ti pagano sottoforma di assegno, ovviamente l'assegno corrisponde al salario contrattuale però poi tu devi restituire brevi mano in contanti la differenza tra quanto concordato e quanto invece è previsto dal contratto. Per non parlare della evasione contributiva. Sulle questioni della sicurezza, perché la Sicilia è la Regione dove c'è il più alto tasso d'incidenti sul lavoro? Perché c'è stato un allentamento rispetto alle misure che riguardano la sicurezza. Aggiungo un'altra cosa: nella legge 30, ad esempio, è stato introdotto il principio che il datore di lavoro, vale soprattutto in edilizia ma anche in agricoltura, può mettere in regola un lavoratore dipendente cinque giorni dopo la sua avvenuta assunzione, se andate a guardare il 60% degli incidenti, degli infortuni denunciati, sono infortuni che riguardano dipendenti che erano stati assunti da pochi giorni, ovviamente non c'è bisogno di dire che non è così, ma si utilizza una norma che va a coprire uno spazio di illegalità. Che dire poi del ragionamento sul Testo Unico? Noi abbiamo sempre discusso approfonditamente con gli imprenditori sui costi dell'applicazione della legge 626 - il Governo ci sta levando pure il gusto di discutere di questo - perché se andiamo a vedere i contenuti del nuovo Testo Unico sulla sicurezza abbiamo una depenalizzazione totale delle misure rispetto a chi non le applica. Qualcuno qui stamattina ha parlato che ad esempio nel settore degli appalti noi scontiamo in Sicilia l'approvazione di una legge ogni tre mesi. Non è così: in realtà in Sicilia siamo in presenza di una legge che da tre anni è inapplicata. Da tre anni attendiamo i decreti attuativi della norma sugli appalti, a parte il DURC che è venuto fuori qualche settimana fa, si sono succeduti più di un assessore ma questi regolamenti non vengono fuori, e la misura più importante - quella che doveva identificare e ridurre il numero delle stazioni appaltanti, massimo dieci, oggi sono più di cinquecento - in realtà ancora è tutta in itinere.
Allora che cosa si può fare, io mi chiedevo ascoltando alcuni interventi, come i soggetti che siamo oggi presenti e che raccogliamo questa occasione offertaci dal Centro Pio La Torre, come possiamo andare aldilà dell'intervento del convegno?
Partendo dalla considerazione che larghissima parte dell'illegalità oggi sta in tutti i servizi offerti dalla Pubblica Amministrazione perché lì viene meno la trasparenza, lì viene bloccata o viene sfavorita la crescita delle imprese, noi abbiamo pensato, nel corso di questi mesi, ad alcuni strumenti ad esempio a Protocolli di Legalità. Ma non un documento generale ma un insieme di misure da elencare in dettaglio e da mettere in campo da parte di tutti i soggetti coinvolti, da un lato le Istituzioni, la Prefettura, le Forze dell'Ordine per gli impegni che competono loro, dall'altro l'ente appaltante, l'impresa capofila e le eventuali imprese che dovrebbero subentrare negli appalti. Assieme a questo si pone poi un problema che riguarda la vigilanza. Ma, sono altresì convinto che qualora arriviamo alla definizione di questi Protocolli di Legalità bisognerebbe pensare ancora ad altro. Ed io credo che oggi la battaglia per la legalità si vince essenzialmente nel territorio, quindi la domanda è: come aiutare ad uscire dal ricatto il sistema delle imprese, ma io credo complessivamente le popolazioni, per allargare lo spazio della legalità, e per quanto ci riguarda, per andare al rispetto delle leggi e dei contratti? Io credo che oggi ci sia un punto debole nella società siciliana e parlo delle Istituzioni nel territorio. Sarebbe sicuramente interessante qualche volta approfondire un attimo quali sono le ricadute, a più di dieci anni credo dall'approvazione della norma sull'elezione diretta del sindaco, rispetto alla autorevolezza delle amministrazioni nel territorio. Cioè, io mi chiedo: è un caso che negli ultimi anni è aumentato in maniera sproporzionata il numero degli amministratori locali che vengono arrestati perché vicini a Cosa Nostra, oppure c'è qualche cosa da rivedere - oltre che una caduta di tensione, io dico di attenzione - rispetto a valori che facevano ieri della politica uno strumento anche di selezione alla qualità del gruppo dirigente? Rispetto a questo, credo che lì nel territorio bisogna un attimino approfondire. Voi pensate, ci sono due filoni, la sanità e la gestione dei rifiuti, connessi al tema che oggi stiamo affrontando. Riguardo al primo tema, perché la Sicilia deve avere duemila convenzioni? Siamo in condizione di capire quante di queste duemila convenzioni sono figlie della illegalità che non si pongono il problema della qualità dell'offerta, e di come nel territorio a volte servono a fare un'opera di riciclaggio piuttosto che intervenire in un settore fondamentale come quello della salute? E l'altro che esploderà domani: perché in Sicilia rispetto al grande business dei rifiuti abbiamo un'aggregazione di ventisette ATO? Io ho fatto una moltiplicazione, sette consiglieri di amministrazione per ventisette, caro Costanzo, sono centottantanove persone che sono, come si dice, i sottopancia della politica i quali vengono messi nei consigli di amministrazione con gettoni molto alti ed il cui unico obiettivo è quello di controllare integralmente il business dei rifiuti. C'è uno studio della DIA che parla in Sicilia di trentatrè famiglie mafiose interessate al business dei rifiuti. Occuparsi di queste cose, nel territorio secondo me è importante.
Allora il ragionamento, la proposta: mettiamo assieme queste associazioni, gli imprenditori, le Istituzioni, le organizzazioni sindacali, perché si possa, rinunciando probabilmente ognuno di noi a qualche cosa a cui teniamo molto, favorire la crescita della coscienza che si organizza rispetto a questo problema. Guardate che dovranno prima o poi partire questi benedetti progetti di Agenda 2000, il 2010 area di libero scambio è alle porte, ma come si potrà investire nella legalità se prima non creiamo una griglia in cui sarà difficile passare da parte di coloro i quali invece si muovono in direzione opposta allo sviluppo, o in direzione di uno sviluppo senza legalità. Io credo che questo deve essere poi, aldilà degli interessi specifici dell'organizzazione che ognuno di noi rappresenta, il fine persino di convegni molto riusciti come questo, e chiudo ringraziando di nuovo i compagni organizzatori.


Vito Lo Monaco, Vice Presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

Grazie Carmelo la parola alla signora Fasciana.


Signora Maria Grazia Fasciana di Villarosa, testimonianza di vittima del racket

Ringrazio innanzitutto il signor Vito Lo Monaco che mi ha invitata.
Oggi ho sentito tanti numeri, tante cifre, tante statistiche, ma in realtà di cose concrete, reali qual è la realtà delle vittime, qual è la realtà che vanno ad affrontare, nessuno ne ha parlato. Si è parlato di associazionismo, però se ne è parlato sempre e soltanto come confronti, come numeri. Questa è una cosa che in qualità, non dico di vittima, perché non mi piace usare questo termine, ma di persona che ha deciso di denunciare per riappropriarsi della propria libertà, non mi può bastare. Non mi piace sentire soltanto chiacchiere, perché chi denuncia ha bisogno dei fatti e questi fatti non ci sono da nessuna parte ci si guardi attorno. E' bene che si denunci, soprattutto perché si deve superare il giogo e l'oppressione dei delinquenti, ottenere questa libertà è un grande premio, come lo è sentirsi veramente liberi in questo Stato che purtroppo non sempre ci tutela. Io debbo dire che, tolta la Magistratura, le Forze dell'Ordine, lo Stato spesso è presente soltanto a parole, così come anche tante associazioni di categoria. La prova l'abbiamo con i Confidi, una legge che è stata fatta per evitare che si ricorra all'usura, però i Confidi funzionano male, perché alla fine c'è tutta una burocrazia attorno per cui le persone che possono usufruire dei finanziamenti che lo Stato dà a questi Confidi sono persone benestanti che non hanno rischi, perché chi veramente ha rischi, dalla banca non avrà mai alcun finanziamento. Chi è vittima di usura e denuncia, è protestato, e non avrà mai più la possibilità di entrare in una banca perché nessuna banca le farà più credito, nessuna banca accetterà più di aprirle un conto e nient'altro.
Io mi chiedo una cosa, se i delinquenti scontano la loro pena, vengono riabilitati, ci sono persino delle leggi che li aiutano a reinserirsi nel lavoro e tutto quanto, perché la vittima di usura deve essere denigrata e non ha la possibilità, assolutamente, di risollevarsi più da questo stato di cose? Lo Stato dice che le permetterà di rientrare nell'economia legale, non è vero assolutamente, perché purtroppo di tutti questi fenomeni racket, usura - c'è una cosa brutta che devo dire, ma è la verità, che mi denunci qualcuno se la cosa è diversa da come dico - qualcuno in alto ne ha fatto un business e questo business non può trovare posto quando si parla di legalità, perché la legalità deve partire dall'alto, e parlando in siciliano, visto che siamo a Palermo, usiamo dire che: "il pesce fete da testa", perfetto e allora che questa testa venga o tagliata o cambiata, perché non è possibile fare convegni, chiacchierare, discutere quando poi la realtà è molto diversa.
Io invito tutti a denunciare ma soltanto, ripeto, per avere la propria libertà, potere camminare a testa alta e dire: "non ho paura di questi signori che sono delinquenti"; ma chi ci tutela da chi sta in alto da questi signori che con la loro burocrazia continuano a rovinarci peggio dei delinquenti che ci hanno già rovinato? Nessuno. Allora io invito soprattutto chi è in alto, chi sta al Governo, chi è vicino agli organi di Governo, a vigilare su queste cose, perché non possono assolutamente non tenerne conto. Questi Confidi che non funzionano, le confederazioni di associazioni lo sanno, se uno ha dei problemi grossi, non può andare a pagare la tassa associativa per andarsi ad iscrivere e sentirsi dire: "ora vediamo perché ci sono cento domande prima della sua", è un assurdo. Allora è inutile dare questi finanziamenti ai Confidi, dateli alle Prefetture che li possano gestire in prima persona senza questo giro di affari che si è venuto a creare anche in seno a tutte queste associazioni.
Io so che sarò criticata per queste cose perché sto criticando tante associazioni, così come critico pure la FAI che organizza queste cose dicendo che le uniche associazioni sono quelle aderenti alla FAI. Non è affatto vero. In tutta Italia ce ne sono altre centinaia, però dallo stesso Governo non sono tenute in considerazione, io vorrei sapere il perché. Purtroppo le persone che potevano rispondermi adesso non sono più qua, però dovete sapere che associazioni in tutta Italia ce ne sono tante, tantissime, anche se il Governo, chissà perché, tutti gli accordi li fa soltanto con la FAI, le altre associazioni non esistono, forse perché le altre hanno il coraggio di dire come stanno le cose realmente. Questo non mi piace, allora io dico una cosa, se vogliamo parlare di legalità, dobbiamo parlarne a tutti i livelli.
Noi che abbiamo denunciato abbiamo avuto modo, e come me molti perché ci conosciamo in tanti, di avere vicino le Forze dell'Ordine che sono molto attente ai nostri problemi, la Magistratura, ma molto, molto meno le Istituzioni Statali nel vero senso della parola, perché la burocrazia non fa altro che distruggere tutti.
Tutti parlano di racket, la vittima dell'usura è come se fosse interdetta, non può utilizzare in prima persona il mutuo che le è concesso come se fosse una persona incapace di intendere e volere. Il suo tutore è la CONSAP, che poi è un'assicurazione privata autorizzata a gestire somme dello Stato. Questo vi sembra una cosa giusta? Dobbiamo avere il coraggio di dirle queste cose, non possiamo dire soltanto belle parole, e così facciamo numeri, cifre discorsi, dobbiamo sapere come stanno le cose perché queste persone debbono essere sensibilizzate, veramente, a risolvere il problema di chi denuncia, perché chi denuncia deve sapere di avere lo Stato al suo fianco, ma a tutti i livelli, a tutti i livelli deve sentirsi sicuro perché se lo Stato siamo noi dobbiamo essere sicuri veramente di essere tutelati a tutti i livelli, e con le banche, e con i delinquenti, e col vicino di casa che ti isola, con tutti, questo è quello che io chiedo allo Stato. Ai commercianti e a chi è vittima chiedo di denunciare perché ne vale la pena, ma solo, ripeto, perché non si può subire da nessuna parte provengano i soprusi.


Vito Lo Monaco, Vice Presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

Grazie signora Fasciana, la parola a Carmelo Castorina. Abbiamo lo spazio soltanto per qualche altro intervento e poi daremo inizio alla tavola rotonda con la proiezione di un video su Giò Marrazzo la cui autrice, la giornalista Giuliana Catamo, oggi è qui con noi.

 


Carmelo Castorina, Direttore regionale Coldiretti

Sarò abbastanza breve, intanto voglio ringraziare gli organizzatori per l'opportunità che ci viene data. Perché l'opportunità? In quanto l'agricoltura, le organizzazioni di riferimento, in modo particolare per quanto riguarda questo preciso aspetto, hanno sempre un po', come dire, lasciato lo sviluppo di queste tematiche agli altri, come se fosse un qualcosa che non interessasse le imprese agricole.
In effetti, storicamente parlando, le nostre imprese prima non erano veramente tali perché veniamo da una agricoltura quasi da auto-consumo, però oggi ormai lo sviluppo dell'agricoltura e dell'imprenditoria agricola ha a che fare con il mercato. Ed è proprio nell'impatto con il mercato che questi fenomeni, che sembrava riguardassero solo le attività imprenditoriali dei commercianti, e che abbiamo forse sempre sottostimato, purtroppo ci interessano più da vicino.
E' una presa di coscienza che la nostra organizzazione, quale organizzazione rappresentativa delle imprese agricole siciliane, fa: quella cioè di volere stare in quella cordata che si è costituita non solo per questi obiettivi ma anche per confrontarsi con le Istituzioni riguardo la ripresa economica delle imprese in Sicilia. L'aspetto che più ci interessa focalizzare, riguarda appunto la denuncia che è stata fatta dalla signora che mi ha preceduto perché, giustamente, chi più di chi è stato vittima di estortori può proporre e dare un contributo concreto affinchè da questo o da altri convegni si possa partire per un'azione di risveglio non solo dell'opinione pubblica, ma soprattutto da parte delle Istituzioni.
La nostra organizzazione si affianca senz'altro, non per modo di dire o per circostanza, al più vasto movimento che parte appunto dalle denunce molto circostanziate che ci sono state anche qui oggi in questo convegno, per raggiungere soprattutto un interlocutore importantissimo che è il mondo delle Istituzioni, a partire dalle Istituzioni locali, dai comuni, per arrivare ovviamente a quelli che sono i vertici regionali da una parte e quelli nazionali dall'altra parte, al fine di riuscire a cambiare le cose dall'interno, affinchè chi subisce il racket non si senta abbandonato a se stesso, grazie.


Vito Lo Monaco, Vice Presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

Grazie Carmelo, la parola a Salvatore Cernigliaro Presidente Cooperativa Solidaria.


Salvatore Cernigliaro, Presidente Cooperativa Solidaria

La nostra Cooperativa svolge un'attività di sostegno alle vittime in generale: noi non facciamo una distinzione tra racket, usura o mafia, noi ci occupiamo di tutto quello che è il problema del vittimismo sociale nel suo complesso. Lo abbiamo fatto partendo da quelle che sono le direttive dell'Unione Europea in questo campo che, a nostro parere, potrebbero dare un grosso contributo a quello che è l'argomento in questione. Io voglio leggervi alcuni punti che riguardano le decisioni dell'Unione Europea in materie di vittime di reato, e che sicuramente, se applicate anche in Italia, potrebbero dare un contributo al miglioramento dei rapporti tra i cittadini e lo Stato. Tra questi punti c'è:
1. il riconoscimento della condizione di vittime anche ai familiari, alle persone a carico delle vittime e ai testimoni;
2. la necessità di prestare assistenza materiale, medica, psicologica e sociale alle vittime da parte del Governo promuovendo iniziative non governative;
3. la necessità di predisporre misure volte a proteggere la vita privata e l'anonimato di vittime e testimoni, e a garantirne la sicurezza in ciascuna fase del procedimento;
4. misure concernenti il modo in cui mezzi di comunicazione di massa rendono pubblico il coinvolgimento dei cittadini in casi giudiziari, sia nella fase del procedimento penale, ma anche nella fase della sua conclusione, onde evitare quei fenomeni che costituiscono una violazione dell'integrità personale ed in genere dei diritti individuali;
5. la promozione di strutture intese ad informare le vittime sui loro diritti, ed a metterle nelle condizioni di essere informate su ciascuna fase del procedimento;
6. programmi che prevedono un risarcimento dei danni subiti per le vittime, i loro familiari e le persone a carico;
7. la necessità di garantire alla vittima di reato il diritto di ottenere, entro un ragionevole lasso di tempo, una decisione relativa al risarcimento da parte dell'autore del reato nell'ambito del procedimento penale.
Mi soffermo solo due minuti su questa questione: stabilire che le vittime non sono solo quelle direttamente coinvolte, ma l'intero nucleo familiare, credo che sia una rivoluzione anche culturale che certamente cambierebbe anche l'isolamento che spesso all'interno delle famiglie vivono le stesse vittime, perché appunto si riuscirebbe a coinvolgere l'intero nucleo familiare.
La questione del ragionevole lasso di tempo per l'ottenimento del risarcimento, non può che tradursi in un intervento serio, anticipatorio dello Stato perché, ovviamente, aspettare i tre gradi di giudizio certamente non possono essere tempi ragionevoli. Qui vorrei attenzionarvi ancora due aspetti, di due norme che sono in vigore e che secondo me andrebbero sicuramente riformate: la legge 512 del '99 che ha istituito il Fondo di Solidarietà per le Vittime della Criminalità Organizzata al quale possono avere accesso soltanto le vittime i cui autori sono stati condannati per il 416 bis, questo comporta il fatto che molte vittime del racket non possono accedervi anche se gli autori del reato hanno subito il sequestro di beni. Poi c'era la questione della sospensione dei termini degli adempimenti amministrativi previsti dall'articolo 20 della legge 44 del '99 che proroga di trecento giorni questi termini per le vittime del racket e dell'usura. Questa norma non funziona perché siccome il procedimento dura normalmente più di trecento giorni, ovviamente, appena decade, le vittime non hanno più la possibilità di beneficiare di questa sospensione e credo che sia una cosa illogica, perché, da un lato lo Stato non rispetta i termini per potere erogare il contributo previsto dalla legge e poi, dall'altro, non tutela le vittime stesse.
Sulla legge regionale 20 io vi rimando ad una nostra pubblicazione che uscirà nelle prossime settimane, che denuncerà lo stato di attuazione di questa legge e di quello che ne è stato fatto dal Parlamento regionale che credo non abbia eguali in tutta Italia.
Per finire, semplicemente volevo informarvi che la nostra Cooperativa ha istituito il premio Libero Grassi che per questo primo anno sarà assegnato al miglior manifesto antiracket. Questa iniziativa gode del patrocinio della Prefettura e della Camera di Commercio di Palermo, attualmente della sponsorizzazione della Confesercenti, della CNA, dell'Associazione Giuristi Democratici e del Centro Pio La Torre che ovviamente approfitto per ringraziare. Abbiamo ritenuto importante coinvolgere la società civile in una campagna di sensibilizzazione non istituzionale contro il racket proprio prendendo spunto dall'iniziativa dei ragazzi degli adesivi, dall'efficacia che ha avuto quella loro iniziativa. Noi siamo i primi a chiedere, a pretendere anzi, dallo Stato una più coerente ed efficace azione di contrasto alla criminalità organizzata, una maggiore attenzione nei confronti dei cittadini onesti, alla loro dignità di donne e di uomini nel chiedere il rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza dinanzi alla legge, il diritto al lavoro, di sicurezza, di tutela della libera impresa.
Ma dall'altra parte dobbiamo avere la consapevolezza che soltanto una crescita civile dei cittadini verso i loro diritti potrà costringere le classi dirigenti di questo Paese a modificare radicalmente il loro modo di essere.
In questo quadro, l'associazionismo antiracket può dare il suo contributo se questi diventeranno organismi di promozione sociale, ma anche di controllo e denuncia circa l'azione delle Istituzioni. Vi ringrazio.


Vito Lo Monaco, Vice presidente del Centro di Studi ed iniziative Culturali Pio La Torre

Grazie Salvatore, segue l'intervento della signora Gatto e dopo daremo inizio alla tavola rotonda. Prego.


Signora Gatto, Presidente dell'Associazione antiracket ed antiusura Lo Mastro di Agrigento

Grazie signor Lo Monaco, io sono la signora Gatto e sono la Presidentessa dell'Associazione agrigentina Antiracket ed Antiusura Lo Mastro.
Lo Mastro è stato Prefetto ad Agrigento, ed abbiamo tutti noi voluto intitolargli l'associazione per dare un segnale, per dire a tutti che le associazioni antiracket non sono con le Istituzioni ma sono delle Istituzioni, e la differenza c'è. Questo messaggio ai nostri concittadini è arrivato, e devo dire, è arrivato chiaro perché la nostra associazione oggi conta più di duecento iscritti. E' importante questo, perché dopo tutti gli interventi, io sono la testimonianza che un'associazione antiracket ed antiusura, se funziona, dà risultati. Vorrei parlarvi, rubando meno tempo possibile, dei risultati che l'associazione ha ottenuto; in quattro anni noi siamo riusciti a far denunciare alle vittime situazioni di usura, di estorsione, siamo riusciti a parlare con le persone toccate da questi fenomeni, non con distanza ma abbiamo cercato di dare alle vittime "forza" che è fondamentale, e vi posso garantire che i nostri soci toccati dal fenomeno, sono diventati dei guerrieri perché non hanno paura di andare al processo e testimoniare tutto quello che hanno vissuto. Questo significa successo. Difatti io non condivido la denuncia anonima, perché la denuncia anonima, fino a che noi la pubblicizziamo, non facciamo altro che dare forza al malavitoso. Purtroppo sono molto dispiaciuta che la sala si è svuotata. Si è svuotata perchè ho assistito a molte personalità che si sono limitate a fare il loro intervento ed in gran fretta hanno abbandonato la sala. Secondo me questo è un errore di fondo, perché è bello sentire le testimonianze di tutti i presenti, perché significa crescere, significa sapere che cosa serve per la lotta. Per la lotta serve soltanto una cosa, noi che siamo a capo di associazioni antiracket dobbiamo avere il coraggio di lanciare messaggi positivi, perché fino a che noi parliamo delle associazioni antiracket come di uno strumento pericoloso, portiamo le testimonianze di chi ha denunciato e di chi vive con la scorta, noi abbiamo fallito, noi dobbiamo portare le testimonianze della vittoria, vittoria significa denunciare ed avere il coraggio di puntare il dito contro il malavitoso nelle sedi opportune.
Desidero ringraziare il Presidente del Centro Pio La Torre perché ha dedicato un giorno alle vittime del racket e dell'usura. Giorni fa un altro signore, il professore Costantino che ho qui davanti, ha organizzato un altro incontro ed io lo ringrazio pure anche se in quell'occasione, forse, il mio messaggio è stato un po' più duro, però mi ha dato l'opportunità di parlare. Io vi garantisco che le associazioni antiracket ed antiusura, se vanno portate avanti come un servizio, senza diventare eroi, senza voler diventare i primi in classifica, forse un contributo alla nostra società lo possono dare.
Chi vi sta parlando è una persona che ha vissuto sulla propria pelle esperienze brutte e che egoisticamente avrebbe potuto dire: le mie battaglie me le sono affrontate da sola, adesso voi pensate per le vostre. Siccome chi si occupa di antiracket ed antiusura, chi è a capo di un'associazione deve avere un senso di altruismo notevole, io non mi sono tirata indietro. Oggi il mio messaggio è soltanto quello di smetterla di parlare del fenomeno del racket e dell'usura facendo testimoniare soltanto persone che hanno denunciato e che vivono con la scorta, perché questo è un messaggio negativo, dobbiamo parlare in positivo, positivo significa: chi ti fa soffrire, chi entra in casa tua per volerti danneggiare denuncialo, perché hai fatto un tuo dovere. Io ripeto, sono felice di essere stata oggi qua, vi ringrazio e in bocca al lupo.

 

 

Relazioni depositate agli atti del convegno


Giuseppe Montalbano, presidente della CNA Sicilia

Aldilà delle strumentalizzazioni e delle distorsioni i temi della sicurezza e della lotta alla mafia sono tornati al centro dell'attenzione. L'ampia partecipazione ai seminari realizzati dal Centro Studi Pio La Torre sono un evidente dimostrazione di ciò.
Negli ultimi anni e negli ultimi mesi è continuato l'attacco della criminalità mafiosa e della criminalità comune alla sicurezza del cittadino e alla sicurezza delle imprese. Alcuni fenomeni criminali un tempo limitati ad alcune aree territoriali della regione si sono estesi a quasi tutta l'isola. Le estorsioni e l'usura, presenti prima nelle province di tradizionale insediamento mafioso, si sono estese anche nelle province di Messina, Siracusa e Ragusa.
L'acceso e cruento scontro tra le famiglie camorriste di Napoli ha portato all'attenzione dell'opinione pubblica italiana la pericolosità, per tutto il Meridione, delle diverse associazioni criminali. La nuova guerra di camorra ha fatto riemergere che una delle emergenze principali per il Meridione è costituita dal radicamento della criminalità organizzata nel territorio. Radicamento che non è solo ostacolato per la sicurezza dei cittadini e per la sicurezza delle imprese, ma anche condizionamento forte di tutta l'economia.
Riteniamo false le argomentazioni di che pensa che parlare di mafia significa screditare la Sicilia e il Meridione. Occorre partire dalla considerazione che i veri nemici della Sicilia e del Meridione sono le forze criminali che ne ostacolano lo sviluppo.
Le operazioni di polizia e i colpi inferti dalla Magistratura Inquirente negli ultimi mesi a Palermo, a Catania, ad Agrigento e Siracusa hanno evidenziato che è possibile contrastare e sconfiggere le organizzazioni criminali e la mafia.
Però, abbiamo anche assistito nelle ultime settimane a tante polemiche vivaci che, di fatto, hanno da un lato accentuato il risalto sugli aspetti negativi sui fatti e avvenimenti attinenti alla lotta alla mafia e dall'altro, a prescindere dalla reale volontà, non hanno contribuito a valorizzare importanti e nuovi fatti positivi per il contrasto del fenomeno mafioso: uno l'ho già citato, i colpi inferti nelle varie parti della Sicilia al racket delle estorsioni dalle Forze di Polizia e Magistratura, l'altro è la ripresa delle iniziative e del dibattito sul modo migliore di contrastare la mafia e sul ruolo dell'associazionismo e della società civile in questa battaglia. Su questo fronte ci è sembrata rilevante e significativa l'iniziativa di Confindustria e dell'Associazione Magistrati, iniziativa a cui ho partecipato assieme ad altri colleghi artigiani.
Questo evento, con tutti i limiti dovuti alle tante assenze, costituisce però un punto importante per una nuova presa di coscienza degli imprenditori e delle loro associazioni. Non so valutare se è stato disinteresse, ma so sicuramente che è stato un grave errore evidenziare nelle cronache solo l'esiguità delle presenze all'iniziativa, mentre in essa sono emerse proposte nuove e indicazioni rilevanti. E' la mia personale e concreta esperienza di imprenditore artigiano che mi porta a constatare che la mancanza di sicurezza determinata dalla presenza invasiva della mafia e della criminalità comune è da ostacolo alle nostre imprese e soprattutto è da ostacolo ad ogni nostra possibilità di crescita e sviluppo.
Le estorsioni, il pizzo, il pagamento della protezione non possono essere considerate come costo aggiuntivo pesante ed inevitabile della attività di impresa. Questi fenomeni tipici della criminalità mafiosa sono il vero ostacolo della crescita dell'impresa ed in particolare di quella artigiana.
L'imprenditore artigiano lavora dentro l'azienda e assume su di se la responsabilità diretta non solo patrimoniale, ma anche di direzione pratica di gestione della sua impresa e quindi si trova quotidianamente a confrontarsi direttamente non solo con la produzione, il mercato e la gestione aziendale ma anche con la necessità di rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono alla sua attività. Intendo evidenziare con ciò che il modo in cui è vissuto concretamente il mafioso nella grande impresa è sicuramente diverso dal modo in cui è vissuto dal piccolo imprenditore o da un artigiano che è costretto a imbattersi quotidianamente, lui e al sua famiglia, nella concreta presenza del mafioso. Deriva anche da ciò la infausta tendenza della nostra piccola impresa, dell'impresa di dimensione limitate, ad inabissarsi, a nascondersi, a lavorare sommersa.
E' infatti risaputo che purtroppo la pressione fiscale dello Stato è facile aggirarla, mentre la presenza mafiosa ha un controllo del territorio e dell'economia non aggirabile. Oggi, nella nostra regione, la mafia tende ad esercitare il suo potere per trarre ingenti profitti attraverso attività illecite ma spesso anche attraverso attività lecite. Interi settori economici, pubblici e privati vedono oggi la presenza di imprese ricollegabili direttamente o attraverso prestanomi ai mafiosi e alle loro famiglie: sanità, trasporto, commercio dei materiali per l'edilizia, insieme ad altri settori e attività sono condizionati pesantemente e vedono alterato il normale svolgimento della libera concorrenza nel mercato.
L'estorsione, l'imposizione della protezione, l'usura, le truffe alla Pubblica Amministrazione per lucrare sui contributi e sulle risorse pubbliche, le turbative delle aste per i lavori pubblici, sono le attività illecite più diffuse, che alimentano e finanziano i patrimoni mafiosi. Tutto ciò ci fa dire che oggi nella nostra regione come in altre aree del Paese il libero mercato è fortemente condizionato e non esiste libertà di intraprendere per i piccoli operatori economici. Il libero mercato è la possibilità di espletare liberamente e senza condizionamenti di nessun tipo l'attività imprenditoriale, rispettando tutti nello stesso modo le stesse regole nel pieno dispiegamento della libera concorrenza. Rispetto delle regole, quindi alla base di tutto rispetto dei diritti del cittadino e prima di ogni cosa, il diritto al rispetto della proprietà privata, rispetto della legalità, rispetto di regole e contratti pubblici e privati senza coercizioni e tassazioni arbitrarie e violente. Occorre dare sicurezza al cittadino e ciò deve essere garantito dallo Stato e dalle Istituzioni. Certezza del diritto e giustizia sono le basi essenziali e i beni primari su cui coinvolgere il cittadino e soprattutto l'imprenditore in un "patto condiviso". La presenza dello Stato deve essere visibile e tangibile per tutti, l'efficienza della giustizia civile oltre che l'efficienza di quella penale è aspetto fondamentale del ripristino della presenza dello Stato e delle Istituzioni nel nostro territorio. Il diritto alla giustizia è obbligatorio garantirlo in tempi rapidi e certi per tutte le imprese e per tutti i cittadini. Sia sul terreno civile che su quello penale occorrono sentenze certe e applicate per tutti. Assistiamo invece a discussioni spesso strumentali e a continui annunci di riforme che riformano le precedenti riforme sia sui temi del diritto civile che sui temi del diritto penale. Tutto ciò non dà il senso della certezza della universalità delle regole, lo Stato e la Pubblica Amministrazione appaiono sempre più condizionabili dai singoli potenti o dalle potenti corporazioni che di volta in volta riescono ad eleggere propri rappresentanti nei due rami del Parlamento. Alcuni esempi banali, vissuti dalle imprese come vessazioni e non come riforme modernizzanti: la riforma del diritto societario, impone ai più, obblighi burocratici costosi a vantaggio di qualche ente e qualche corporazione e mi riferisco alle spese obbligatorie per le modifiche statutarie. La riforma del Sistema dei Consorzi di Garanzia Fidi piuttosto che favorire un sistema del credito più moderno ed efficiente per le imprese potrebbe comportare maggiori oneri e maggiori costi a tutto vantaggio di banche e forse di usurai. Queste questioni non sono avulse dalle questioni che stiamo affrontando anzi, evidenziano la necessità di avere regole che siano riconoscibili soprattutto in Sicilia come regole uguali per tutti e quindi finalizzate ad essere rispettate da tutti. Certezza delle regole statali e delle regole della Pubblica Amministrazione.
Le leggi sui lavori pubblici e sugli appalti in Italia e in Sicilia sono in continuo e perenne cambiamento e si passa da un anno all'altro a metodi di aggiudicazione dei lavori e delle prestazioni che producono ribassi delle offerte che vanno in alcuni periodi quasi allo zero, in altri periodi altre regole producono ribassi fino al 50% degli importi a base d'asta, ciò causa la mancanza assoluta di garanzie per la Pubblica Amministrazione e per l'interesse generale penalizzando le imprese sane e oneste.
Su queste questioni noi proponiamo che vengano introdotte norme che assicurino oltre alla trasparenza, anche l'equilibrio nei ribassi che consenta di avere corrette esecuzioni dei lavori. Riteniamo che occorra cancellare dagli albi camerali le imprese mafiose o legate alla mafia e occorra procedere a sospendere le imprese corrotte e corruttrici fino alla loro totale cancellazione a condanna definitiva avvenuta. Chiediamo che le gare vengano svolte in un'unica seduta fino all'aggiudicazione e che si forniscano preventivamente da parte di tutti i partecipanti alle gare oltre agli elenchi dei subappaltatori anche gli elenchi dei fornitori di materiale di prestazioni varie a cui si intenda ricorrere. La lotta al racket delle estorsioni richiede prima di ogni cosa una reale collaborazione e un reale impegno dei cittadini e delle imprese e delle loro associazioni. Valutiamo estremamente positiva l'esperienza sviluppata negli anni dalle varie associazioni antiracket perché prima di ogni cosa bisogna unire le imprese per contrastare la criminalità mafiosa. Com'è stato più volte ricordato la prima cosa da fare è non lasciare mai solo l'imprenditore che denuncia o si oppone ai poteri criminali. Solo l'unione delle forze può evitare il ripetersi delle tragedie, la violazione e la sopraffazione. Con la denuncia perciò, l'associazionismo è la più importante difesa dell'impresa di fronte alla minaccia mafiosa. Il seme gettato da tanti volontari che negli ultimi anni in tante parti della Sicilia e del Meridione si sono prodigati nell'opera di costruzione delle associazioni antiracket và adesso alimentato con un nuovo impegno e un nuovo slancio. In questa direzione non ho nessuna remora nell'affermare che le nostre Associazioni d'Impresa a partire dalla mia, la CNA, debbono fare molto di più di quanto hanno fin qui fatto. Riteniamo ormai indispensabile un impegno concreto e diretto nell'unificazione delle forze e delle associazioni per supportare e sostenere l'opera di quegli uomini delle istituzioni che su questo fronte sono impegnati quotidianamente. Occorre creare un punto d'incontro tra tutte le Associazioni d'Impresa della Sicilia istituendo un tavolo permanente sui temi della sicurezza, sul contrasto alle economie illegali, sul contrasto alla invadenza mafiosa nel sistema economico e sulla lotta al racket delle estorsioni. Questa proposta può far moltiplicare le iniziative e far emergere proposte concrete per la lotta alla criminalità.
Le associazioni imprenditoriali devono dotarsi di codici etici e di comportamento discussi, accettati e praticati da tutti gli associati. Si è dibattuto sulla proposta avanzata negli ultimi tempi di introdurre nel codice penale una nuova tipologia di reato, il reato derivante dalla mancata o omessa denunzia, da parte dell'imprenditore o del cittadino, della estorsione avvenuta o tentata ai suoi danni. Noi riteniamo che il problema non sia questo, cioè non occorre introdurre nuove tipologie di reato nei codici, al massimo pensiamo che va distinta la estorsione subita dalla protezione ricercata che va invece sicuramente punita. Ribadiamo che l'applicazione di poche regole, la definizione di processi, la sentenza e l'applicazione delle condanne sono armi formidabili per sconfiggere la criminalità e garantire la sicurezza. E' riprovevole che alla denunce e agli arresti degli estortori seguano spesso le scarcerazioni degli stessi che tornano a passeggiare dinanzi ai negozi e alle aziende delle vittime. Com'è riprovevole che chi ha denunciato venga lasciato senza sorveglianza e debba subire ripetuti attentati com'è già avvenuto al presidente dell'Associazione Antiracket di Siracusa. Riteniamo pertanto più utile che per il reato di estorsione si accorcino i tempi delle procedure giudiziarie e in contemporanea si allunghino i termini di scarcerazione e di prescrizione. Semplificare le procedure delle denunzie: l'estorsione per la vittima è di per sé un grande calvario, un dramma personale e spesso familiare a cui non è giusto aggiungere il nuovo calvario che deve percorrere chi ha denunciato, per riesporre più volte i fatti rivivendoli nelle lunghe e interminabili udienze delle aule giudiziarie. Rendere conveniente la denunzia è poi un'ulteriore strada da intraprendere, con possibili detassazioni e incentivazioni e sicuramente anche attraverso la drastica diminuzione degli attuali costi delle assicurazioni. I costi per questo tipo di assicurazioni sono altissimi e spesso è quasi impossibile trovare in alcune aree territoriali compagnie assicurative disposte a fare contratti di copertura di questo rischio. E' in discussione tra le forze sociali ed il Governo un provvedimento legislativo sulla competitività e sul sostegno alle imprese meridionali, noi riteniamo che in questo ambito si debbano definire interventi che destinino risorse per la sicurezza del territorio e delle imprese.
Lo Stato dovrebbe destinare alla sicurezza del territorio meridionale e siciliano e in particolare alla sicurezza delle imprese e dei sistemi locali di sviluppo una serie di investimenti. Le risorse dovrebbero essere destinate anche ad accrescere la dotazione di mezzi e di strumenti tecnologici della Polizia dei Carabinieri della Finanza e degli organi giudiziari più direttamente impegnati nel contrasto delle attività illecite della criminalità dedita alle estorsioni.
Ai nostri occhi non appare secondaria infine la necessità di un ulteriore intervento per incentivare nelle scuole di ogni ordine e grado la diffusione della cultura antimafiosa e della cultura della legalità tra le giovani generazioni. Le novità introdotte da norme nazionali e norme regionali per aiutare lo sviluppo di attività didattiche e paradidattiche nelle scuole non sono state, ad oggi, pienamente e uniformemente utilizzate. Società civile, scuola e istituzioni devono concretamente intraprendere percorsi formativi volti a diffondere ed accrescere un comune sentire antimafioso. Infine è tempo ormai di dotare la nostra regione di moderne e responsabili classi dirigenti che basino la loro attività concreta sul rispetto delle regole e sul mantenimento degli impegni di legalità e trasparenza. Non è tollerabile in una terra come la Sicilia che le istituzioni continuino a disattendere impegni e obblighi derivanti da norme, nascondendosi dietro la burocrazia e le procedure. A tale proposito le imprese artigiane, purtroppo troppo spesso, vedono negati elementari diritti da parte della Regione.


Simona Falsaperla


ISTITUITO DA ASSINDUSTRIA DI SIRACUSA IL NUMERO VERDE ANTIRACKET

E' ormai urgente, oltre che indispensabile, arginare il fenomeno della estorsione, della cosiddetta "Dittatura del Pizzo" come è stata definita dal Presidente di Confindustria Sicilia, Giuseppe Costanzo. Ciò non soltanto per motivi di sicurezza e ordine pubblico ma, anche, per affermare la cultura della legalità e per favorire lo sviluppo del territorio.
La sicurezza in un territorio resta il presupposto imprescindibile per sostenere processi di sviluppo economico, insieme alla necessità di realizzare infrastrutture e servizi. Le estorsioni, gli attentati, la mancanza di sicurezza cancellano sviluppo e civiltà. Per questi motivi Assindustria è stata a fianco del sindacato nelle iniziative antiracket promosse ed ha dimostrato la propria solidarietà alla CGIL nei recenti fatti intimidatori subiti. Assindustria lancia ora la nuova iniziativa: il telefono verde antiracket, un numero telefonico utilizzabile con assoluta garanzia di riservatezza e tutela per l'imprenditore che denuncia l'estorsione o il tentativo di intimidazione subita.
L'iniziativa è stata presentata nel corso di una conferenza stampa nella sede di Assindustria dal Presidente Ivanhoe Lo Bello. Hanno presenziato alla conferenza stampa il Presidente della Commissione Nazionale Antimafia Roberto Centaro, il Prefetto Francesco Alecci ed il Presidente della Camera di Commercio Ugo Colajanni. Presenti anche il Questore Vincenzo Mauro, il Sindaco Titti Bufardeci, il coordinatore provinciale delle Associazioni Antiracket Bruno Piazzese, i segretari generali di CGIL, UIL e UGL Zappulla, Munafò e Galioto, i rappresentanti delle altre organizzazioni produttive dei commercianti, artigiani e agricoltori.
Il telefono verde, dunque, intende offrire alle aziende associate ad Assindustria uno strumento di autodifesa dai tentativi estortivi con assoluta garanzia di anonimato e tutela della provenienza della segnalazione. Il Presidente Lo Bello ha anche annunciato che Assindustria si costituirà parte civile nei processi per estorsione che coinvolgeranno aziende associate. Potranno infatti essere gli stessi legali dell'Associazione a presentare la documentazione a prova dei tentativi di estorsione senza che l'imprenditore si esponga in prima persona. Ciò può aiutare a dare coraggio a chi non ne ha o a sostenere chi ce l'ha già di suo.
Il numero verde antiracket è collegato ad una linea telefonica indipendente dal centralino, collegata a sua volta ad una segreteria telefonica digitale, con durata di registrazione dei messaggi illimitata, e ad un PC. Il chiamante non può essere identificato in alcun modo dal ricevente perché il sistema è disabilitato al riconoscimento del numero in entrata. Il messaggio registrato in segreteria viene automaticamente trasformato in file audio crittografato e salvato sul PC all'interno di una cartella protetta da Password. I messaggi registrati e convertiti in file protetti vengono consegnati alle Forze dell'Ordine in forma crittografata, protetti da password.
Queste caratteristiche tecniche garantiscono di per sé, la tutela della riservatezza assoluta. Per ulteriore garanzia il numero verde non verrà divulgato ma fornito direttamente alle aziende associate. Lo Bello ha anche ribadito che resta fondamentale la collaborazione tra Istituzioni, Forze dell'Ordine, rappresentanze politiche, forze sociali e organizzazioni imprenditoriali, solo così e tutti insieme si può realizzare un sano sviluppo integrato.
Il Presidente della Camera di Commercio Ugo Colajanni, ha sottolineato a sua volta l'importanza della sinergia tra tutte le organizzazioni produttive. Nella Camera di Commercio sono istituzionalmente rappresentate tutte le categorie imprenditoriali. Proprio la Camera di Commercio, secondo il Presidente Colajanni, rappresenta la sede istituzionale nella quale questa sinergia può pienamente esprimersi ed attivarsi. C'è tutto l'impegno affinchè questo obiettivo venga raggiunto. E' questo un ulteriore passo avanti nella collaborazione con tutte le forze sane della società civile per gli obiettivi della sicurezza, dello sviluppo, dell'affermazione della cultura della legalità.

 

 

 

 

 

TAVOLA ROTONDA
"Giornalismo di inchiesta"

 

Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Prima di iniziare la tavola rotonda sul giornalismo d'inchiesta, sarà proiettato il video: "Giò Marrazzo" La passione della verità. Prima della proiezione vorrei semplicemente dire questo: di giornalismo d'inchiesta ne parliamo oggi qui in una città dove ha avuto un predominio assoluto grazie ad un giornale indipendente sostenuto dalla sinistra che si chiamava il giornale L'Ora, e grazie al fatto che nella società, a seguito anche dello sviluppo del movimento contadino e sulla base della lotta politica per la democrazia e per i diritti, esistevano delle organizzazioni politiche e sindacali che avevano una capacità di lettura attenta di quello che avveniva nella società perché rappresentavano dei sensori vivi di quanto avveniva, ed esercitavano un'azione di contrasto in un'epoca in cui la lotta alla mafia non era la lotta alla mafia in termini astratti, ma si poteva individuare in concreto il mafioso, perché il mafioso era conosciuto ed il contadino sapeva chi era il campiere mafioso, l'operaio sapeva chi era il cottimista mafioso, gli operai del cantiere navale conoscevano quelli del racket delle mensa e così via, e li indicavano con nome e cognome e li combattevano. Successivamente diventò più difficile individuarli, diventò più difficile conoscere chi si muoveva dietro la società anonima che acquistava o realizzava i lavori per il Comune o per la Regione, e la tensione sociale si è allentata. Tuttavia, per anni, il giornalismo d'inchiesta è stato alimentato anche e soprattutto dal fatto che c'era una possibilità ed una capacità di lettura degli avvenimenti nei singoli Paesi che era straordinariamente penetrante. L'argomento del nostro dibattito parte appunto dalla divulgazione dell'attività di un giornalista d'inchiesta esemplare qual era Giò Marrazzo. Si proceda.


Proiezione video Speciale Rai 3: " Giò Marrazzo" la passione della verità.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Diamo inizio alla tavola rotonda, invito Giuliana Catamo, Salvatore Costantino, Antonio La Spina, Antonio Maria Mira, Maria Grazia Mazzola, Franco Nicastro e Vincenzo Vasile a prendere posto.
In questa fase del dibattito, nella qualità di Presidente del Centro Pio La Torre, mi assumerò la responsabilità di fare io le domande, di smistare gli interventi di ognuno dei presenti.
Come avete potuto vedere, dal filmato si evince uno spaccato della realtà contadina, sottolineato magistralmente da un esempio di vero giornalismo d'inchiesta, che è il "caporalato". Che cosa significava? Da noi si usava un termine "adduare" cioè "aggiogare" come i buoi, termine che si riferisce al reclutamento del bracciante del "jurnateri", e di "chiddu" cioè quello che era addetto ad "adduare" ad aggiogare che era l'equivalente del caporale, il campiere di solito, il delegato del proprietario, del feudatario. E questo era veramente un aggiogare perché in sostanza il contadino era considerato alla stregua di una bestia da soma che veniva assunto per lavorare "di punta a punta", cioè dall'alba al tramonto, perché tanto durava la giornata lavorativa.
Ho voluto ricordare questo momento per fare intendere proprio la pregnanza, la capacità di aderire ad una realtà drammatica, viva e drammatica che aveva il giornalismo d'inchiesta alla Marrazzo, il giornalismo d'inchiesta che veniva praticato anche da quella straordinaria scuola di giornalismo che fu L'Ora di Vittorio Nisticò. Noi stasera abbiamo con noi l'ultimo dei direttori dell'Ora Vincenzo Vasile ed il vicedirettore Franco Nicastro che è anche testimone delle storie drammatiche di diversi giornalisti d'inchiesta che hanno pagato, in alcuni casi anche con la vita, il loro impegno.
Io vorrei partire proprio da Franco Nicastro: si può fare oggi giornalismo d'inchiesta sulla mafia? A proposito del racket stamattina nell'intervento del Procuratore De Lucia veniva detto che forse qualche imprenditore è possibile che venisse lasciato in pace se non pagava ma non denunciava, è veramente così, o sono costretti tutti a pagare? Che differenza c'è tra le inchieste che si possono fare, oggi, su questo tema e la realtà com'era trenta anni fa, quaranta anni fa? Che cosa è cambiato? E' possibile sapere esattamente come stanno le cose? C'è una impenetrabilità oppure a poco a poco si può scavare e si può trovare qualcuno che comincia a parlare e consenta di delineare un quadro più chiaro?


Franco Nicastro, Presidente regionale Ordine Giornalisti

Devo dire che ho trovato molto curiosa la disputa che recentemente c'è stata anche in televisione in occasione delle polemiche che sono esplose dopo la trasmissione di Report sulla mafia. Anche persone autorevoli hanno cominciato a mettere in dubbio il fatto che in Sicilia si continuasse a pagare massicciamente il "pizzo". Io credo che l'unica risposta, la più banale forse, che si possa dare ad una disputa di questo genere, è quella di andare a riprende le analisi e i risultati di alcune inchieste che si sono fatte e i dati diffusi dalle associazioni antiracket che non riguardano solo le denunce, perché sappiamo che le denunce coprono soltanto una piccola porzione del fenomeno, molti invece preferiscono pagare e tacere, anzi costituisce motivo di allarme la diminuzione delle denunce da parte delle vittime del racket perché questa diminuzione del numero delle denunce non viene posta in diretta relazione con un contenimento del fenomeno, ma al contrario con una ulteriore e più spiccata capacità della mafia di intimidire le sue vittime. E questo per quanto riguarda il risultato delle indagini.
Poi ci basta leggere ogni anno le relazioni dei Procuratori Generali per l'inaugurazione dell'Anno Giudiziario e si viene a scoprire, cito testualmente un'espressione usata proprio dal Procuratore Generale Celesti di Palermo, si viene a scoprire proprio che: "il "pizzo" è un fenomeno largamente diffuso sul territorio". Ora, qui non importa sapere se siamo all'80% se siamo all'85% o al 72%, sono numeri che comunque stanno ad indicare una certa dimensione del fenomeno, e negare una realtà come questa è come mettersi la benda agli occhi, è negare una evidenza, una verità che è sotto gli occhi di tutti.
Che c'entra il giornalismo con questo discorso? C'entra, perchè l'informazione ha un compito essenziale, che poi è una ragione fondante di questa professione, che è quella di trasmettere una conoscenza adeguata, completa, di ogni fatto, di ogni evento. Io posso dire che, è un'osservazione che faccio come professionista del giornalismo, proprio sui giornali c'è un'attenzione che definirei rapsodica, molto legata al livello emotivo che può suscitare ogni singolo episodio; se c'è il fatto grave se ne parla molto, c'è l'approfondimento, se il fatto è contenuto anche nella sua rilevanza pubblica i giornali se ne occupano molto poco o comunque con una modalità espositiva che è tipica del linguaggio della cronaca: ti racconto il fatterello, io giornalista divento uno che registra in modo notarile il fatto, ti ho raccontato il fatto, il discorso è finito. Purtroppo, a me sembra che questo sia un modello di giornalismo che va prendendo piede, che si va largamente diffondendo. E' un giornalismo che intanto è senza memoria, e poi rivela anche un grave deficit professionale perché non è in grado di offrire al lettore non solo la notazione essenziale del fatto, ma anche delle chiavi d'interpretazione, e soprattutto non riesce a scavare oltre la superficie di certi fatti. E' un giornalismo che scivola via come l'acqua sul marmo. E' un po' un modello che si va diffondendo, con questo non voglio dire che sia l'unico modo di fare questo mestiere, sarebbe una bugia, sarebbe far torto a tanti altri colleghi che invece sono molto impegnati in questo settore e svolgono il loro lavoro al meglio e con impegno civile e professionale, d'altra parte, però, è anche vero che io aprendo il giornale mi aspetto di trovare, almeno sul fenomeno del racket, un approfondimento che non si limitasse soltanto all'intervista volante alla vittima del racket, ma che mi desse anche informazioni molto più sostanziose che riguardino, per dire: il coinvolgimento, il modo con cui si svolgono le indagini, i risultati a cui siamo pervenuti, anche un'incidenza statistica del fenomeno che mi possa offrire una lettura di tipo sociologica che mi consenta di capire la profondità e soprattutto l'incidenza di questo fenomeno, nel funzionamento dei meccanismi dell'economia legale. Questo invece non mi è consentito, ci sono grandi titoli, i cronisti si limitano a raccontare il fatto, possibilmente c'è anche la registrazione di qualche intercettazione telefonica, il resoconto di una operazione di polizia, e finisce tutto li.
Questo che io sto dicendo è un discorso che si può allargare un po' a tutto il modo in cui oggi si fa giornalismo, fortemente condizionato, io penso, da come di certi fatti si occupi la televisione. Proprio dalla televisione il giornalismo, ed io mi riferisco al giornalismo soprattutto della carta stampata, ha mutuato tanti vizi e poche virtù. Cioè io vedo in giro un'opera di depotenziamento della notizia, io lo vorrei definire proprio così, una grande frammentazione delle notizie per cui si perde spesso il filo che collega tanti fatti, e per questo io sono molto preoccupato della qualità dell'informazione che diamo al lettore. Ed aggiungo che proprio a causa del condizionamento che la televisione esercita anche la qualità del consumo di informazione si è notevolmente abbassata, e devo dire pure che soltanto raramente, e soltanto in alcune isole felici della televisione, si riesce ad intercettare un programma di approfondimento. Noi qui stasera abbiamo la collega Maria Grazia Mazzola che è l'autrice di quella bellissima inchiesta su "La mafia che non spara" che tante discussioni ha suscitato, e quindi mi viene facile fare subito questo raffronto. Che cosa è accaduto in quel caso? Che abituati come siamo a questo giornalismo che scivola via, che non si sofferma a valutare ed a riflettere, ci ha molto colpito il fatto che la televisione ci abbia proposto un servizio in cui si adottano tecniche di produzione dell'informazione che appartengono alla tradizione migliore del giornalismo, soprattutto del giornalismo siciliano. Nino Mannino ricordava qui il caso del giornale L'Ora che ha rappresentato una importante scuola per intere generazioni di giornalisti, e adesso quindi ci sorprendiamo, non noi certamente ma mi riferisco a chi una informazione di questo genere può dare fastidio, che ci possa essere uno spazio d'informazione che sia serio, fatto con criteri professionali, e che soprattutto cerchi di scavare dentro i fatti. Questa trasmissione, frettolosamente, qualcuno l'ha definita, addirittura, un uso criminoso dell'informazione, con i risultati che conosciamo, ma devo dire che vengono immediatamente intercettate queste trasmissioni e accusate di rappresentare delle tesi precostituite, addirittura qualcuno dice che fanno molto male all'immagine della Sicilia o anche alla sua economia e che sono soprattutto politicamente orientate. Io in queste accuse ritrovo una certa abitudine a contrastare quelli che, per il fatto stesso che denunciano alcune storture o gli effetti perversi della mafia e della criminalità, vengono immediatamente accusati di infangare il buon nome della Sicilia. Io ricordo l'accoglienza che ha avuto un libro fondamentale per capire la storia della Sicilia e la storia della mafia come l'inchiesta di Franchetti e Sonnino. Ci fu qualcuno che addirittura pensò di chiedere un intervento riparatore, siccome allora la televisione non esisteva, intervenne Capuana con il libro "L'isola del sole" che si può considerare un'opera riparatrice rispetto all'inchiesta di Franchetti e Sonnino. Poi ci fu il delitto Notarbartolo di cui fu accusato l'Onorevole Raffaele Palizzolo che venne anche arrestato e processato. Intanto i giornali siciliani si divisero e in quel caso addirittura fu L'Ora a sostenere la tesi innocentista di Palizzolo, addirittura si costituì un "comitato proSicilia", che aveva anche agganci con l'America, con l'obiettivo di difendere il buon nome infangato della Sicilia. Per venire molto rapidamente ai nostri giorni, quando morì don Calò Vizzini e fu indicato come suo successore Genco Russo che era stato Sindaco di Mussomeli, tutti si apprestarono a dire che finalmente c'era una persona perbene a capo della mafia, e tutti si lamentavano del fatto che Genco Russo veniva accusato di essere un mafioso e in questo modo si diffamava la Sicilia.
Vorrei per concludere ricordare una vicenda che è ormai sfuggita anche alla memoria dei cronisti, certamente non a quelli della mia generazione o a quelli che mi hanno preceduto, ricordo una trasmissione che si chiamava TV7, che era uno spazio di approfondimento del TG1, che nell'aprile del 1962 mandò una troop, c'era Gianni Bisiach che la guidava, per capire che cosa stesse succedendo a Corleone dove c'erano delle dinamiche mafiose che avevano portato alla ribalta una nuova generazione di mafiosi, c'era un certo Riina, c'era un certo Bernardo Provenzano, c'era un certo Liggio che stavano prendendo il sopravvento. Andarono li, fecero un programma che rimane un pezzo della storia televisiva, bene, andatevi a leggere i giornali del 1962, rileggerete le stesse reazioni che ci sono state in questi tempi per la trasmissione di Report. Anche in quel caso tutti si lamentavano del fatto che in questo modo si stava infangando la Sicilia, e ricordo tra gli altri, chi poi fu quello che diede il via a tutte queste recriminazioni, il Sindaco che casualmente si chiamava Nando Liggio, che prese una netta posizione ed accusò la televisione di infangare il buon nome della Sicilia.
Io credo che oggi non sia cambiato poi tanto se ancora siamo qui a sostenere la bontà del giornalismo d'inchiesta e soprattutto del fatto che abbiamo bisogno di un giornalismo che sia considerato un giornalismo non solo pesante, come si usa dire, ma anche pensante, grazie.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringrazio Franco Nicastro per gli interessantissimi spunti del suo intervento e do subito la parola al professore Salvatore Costantino che è stato il responsabile del comitato scientifico che ha organizzato questo secondo seminario, e che proprio qualche giorno fa, nella Facoltà di Scienze Politiche, ha presieduto un seminario organizzato assieme alla FAI.
Raccomando brevità negli interventi.


Professore Salvatore Costantino

E' vero quello che dice Arbore, nella sua bellissima trasmissione, che "meno siamo e meglio stiamo " però non bisogna esagerare, l'ora è gia tarda, forse abbiamo fatto male ad organizzare così tardi questa tavola rotonda che era il primum movens del contributo che io ho voluto dare per l'organizzazione del seminario di oggi al Centro Pio La Torre come Dipartimento di Studi su Politica Diritto e Società, nell'ambito di un discorso che cerchiamo di fare proprio sulla società civile.
Noi non viviamo di passioni, io definisco certi atteggiamenti, anche della stampa e della ricerca scientifica, atteggiamenti mordi e fuggi per cui a seconda di come si accendono i fari o il grado d'interesse, se vogliamo, su determinati fatti, ci si orienta e si orientano ricerche, si orientano studi.
L'unico motivo della mia presenza oggi, tra cotanto senno, è quello di avere dato un contributo a fare qualche ricerca empirica sulla stampa sia col Centro Pio La Torre, sia con alcuni illustri colleghi e giornalisti che sono qui presenti. Con Vincenzo Vasile il nostro discorso sulla stampa e sulla mafia è vecchio. Io vorrei ricordare che in questa stessa sala si fece la prima iniziativa sulla mafia che coinvolse per la prima volta l'Università degli Studi di Palermo, Mario Centorrino e altri lo ricorderanno. Ha fatto bene il Rettore a sottolineare l'impegno profuso in questi anni dall'Università siciliana nell'approfondimento di tale tematica, e ha fatto bene Mario Centorrino a sottolineare anche il resto. E' importante dire che noi siamo qui, lavoriamo, ma non vogliamo solo avere riconosciuto il nostro impegno ma altresì essere aiutati nella ricerca, è con questo spirito che abbiamo organizzato questa iniziativa, che non riguarda solo l'antiracket, la mafia, ma coinvolge tutta la società civile.
Ritornando al giornalismo d'inchiesta, ci sono cose che nel giornalismo si impongono, ci trascinano come trascinano quelle immagini di Giò Marrazzo, quella intervista direi sorprendente, incredibile, che fa al primo pentito di mafia che tutti abbiamo visto, o come la bellissima inchiesta "shock" di Maria Grazia.
Io non sono contro quel tipo di approfondimento emotivo che lascia il tempo che trova, ho anche espresso qualche critica a suo tempo sulla famosa lunga notte di Samarcanda dove si presumeva di misurare il tasso di mafiosità, con tutti gli aspetti positivi su quel tipo di giornalismo - per carità, io apprezzo molto Santoro - con l'accensione di una lampadina: queste inchieste lasciano, appunto, il tempo che trovano.
Avevo detto che non voglio farla lunga, dico soltanto che noi non abbiamo, soprattutto nel nostro Paese, una forte tradizione di giornalismo d'inchiesta, anzi forse non esiste alcuna tradizione in tal senso. Se dovessimo stare a quello che dice Pansa dovremmo dire che il nostro è stato prevalentemente un giornalismo di tipo, anche se ci sono state delle eccezioni, politico, propagandistico.
Non sto adesso a soffermarmi sulla qualità del giornalismo che abbiamo in Sicilia, il discorso sarebbe troppo lungo, non sto a ricordare i morti sul campo dei giornalisti che hanno fatto inchiesta, non sto a soffermarmi sul ruolo importantissimo nel campo dell'informazione che ha avuto il giornale L'Ora, voglio soltanto dire che non abbiamo una tradizione di giornalismo d'inchiesta e che il merito della Mazzola è stato quello di avere messo di nuovo in movimento un discorso. Molti dicono che il giornalismo d'inchiesta sia molto vicino all'indagine della Magistratura, beh, io dico che è molto vicino anche alla ricerca, alla ricerca sociologica, alla ricerca scientifica in senso lato, anche se i tempi e i ritmi sono diversi.
Prima di concludere,vorrei dirvi che in un primo tempo ero molto preoccupato che tre giornate di riflessione sull'antiracket potessero risultare, come dire, eccessive. Noi col Centro Pio La Torre le avevamo programmate già da tempo, ad un certo momento si è aggiunta quella di Magistratura Democratica, a quel punto abbiamo temuto che ci fosse uno scollamento, uno spreco di energie e di risorse, invece no, io devo dirvi che dopo la giornata di oggi sono più fiducioso, nel senso che si comincia ad incentrare da magistrati, intellettuali, operatori, associazionismo - con le varie rigidità, con i vari modi di intendere il loro ruolo - un discorso comune, una piattaforma. Io credo che su questo noi possiamo costruire un discorso fruttuoso.
Io sto ultimando un lavoro di confronto tra le due trasmissioni quella di Maria Grazia Mazzola e quell'altra che avrebbe dovuto restituire l'onore, come diceva Franco Nicastro, a una Sicilia ancora una volta ferita nell'orgoglio, e vi posso assicurare che noi siamo di fronte ad un giornalismo di grandissimo interesse e di aiuto alla crescita della società civile così come emerge sia dal servizio di Maria Grazia Mazzola, ma anche dal servizio di Giò Marrazzo con quel metodo che tutti abbiamo apprezzato e che ci ha commosso, grazie.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Grazie al professore Costantino, andiamo al giornalismo d'inchiesta. Maria Grazia, che difficoltà hai trovato prima, perché quelle dopo immagino che tu già le prevedessi, ma prima, quando sei andata a fare quel tipo d'inchiesta, sicuramente avrai trovato degli interlocutori che non sempre erano disponibili. Raccontaci questa esperienza, grazie.


Maria Grazia Mazzola, inviato speciale RAI 3

Voglio dire che mi legano affettivamente a questa iniziativa due cose, la prima è la figura di Pio La Torre che è un uomo che è morto per la verità, assassinato dalla mafia per dirla, per cercarla, e la seconda perché mi sono laureata in Scienze Politiche in questa mia Facoltà, in questa mia terra, in questa città.
Avevo preparato - io sono un pò prussiana nel mio modo di lavorare, di vivere e di scrivere - e risponderò anche alla tua domanda, degli appunti che sono appunti di viaggio. Non aspettatevi da me questioni teoriche perché io parto dalla realtà, ho vissuto venti anni come inviato in giro all'estero e in Italia, e quindi vi propongo delle questioni pratiche. Attraverso questi itinerari, voglio leggere questi appunti che sono appunti pratici non teorici, preferisco leggerli piuttosto che andare a braccio perché perderemmo più tempo. Molto sinteticamente partiamo dai fatti e insieme condivideremo questo itinerario che è un percorso minato, quello del giornalismo d'inchiesta, ovvero una sorta di salto all'ostacolo continuo, e voglio partire dalla figura di Libero Grassi. E' il 10 gennaio 1991 quando l'imprenditore Libero Grassi dice no al racket dell'estorsioni, lo fa in modo chiaro, civile, moderno, con una lettera della quale chiede pubblicazione al Giornale di Sicilia, dice poche cose semplici, inequivocabili dice: ".. volevo avvertire il nostro ignoto estortore.. " scrive Libero Grassi "..di risparmiare telefonate minacciose, micce, bombe, abbiamo deciso di non pagare e ci siamo messi sotto la protezione della Polizia..". Una posizione netta, o bianco o nero, e Libero Grassi sceglie di stare dalla parte dello Stato. Stai da una parte oppure da un'altra, e se paghi, alimenti la zona grigia, incrementi le telefonate anonime, le micce, le bombe, se paghi la "protezione" emargini colui che non paga e lo rendi più debole. E noi giornalisti abbiamo un dovere in più, dare voce a quelli ai quali hanno chiuso la bocca. L'inchiesta, la ricerca della verità, lo scavo, andare a guardare là dove in tanti voltano la faccia, guardare là dove non si vede.
Lo scoop, che cos'è lo scoop? To scoop è un verbo inglese che significa scavare. Non è sinonimo di un giornalismo che specula sulle sensazioni, letteralmente vuol dire scavare con un cucchiaio, gli inglesi sono precisi. Ed è questo che è chiamato a fare chi si dedica al giornalismo d'inchiesta, scavare con gli strumenti della professione: studiare il territorio, i dati, ascoltare gli altri, analizzare i fatti senza fermarsi alla superficie, critici, severi, come un chirurgo mai sordi alla sofferenza.
E poi è necessario evocare anche la memoria, in un Paese come il nostro dove spesso si vive come se fosse il primo giorno, cioè dimenticando la storia che ci si porta dietro, quella della quale andare orgogliosi, ma anche quella della quale è necessario a volte vergognarsi quando riguarda il malaffare e la corruzione.
Ecco la storia. Che cosa fa il Presidente dell'Associazione Industriali di Palermo dell'epoca? Di fatto, isola Libero Grassi, lo fa pubblicamente con un'intervista, prendendo le distanze dal coraggioso imprenditore. Il 22 gennaio 1991, appena dodici giorni dopo la denuncia di Libero Grassi, il Presidente degli Industriali di Palermo dell'epoca dice, testualmente, queste sono le sue parole e dobbiamo tutti ricordarle: ".. le buone famiglie tendono a tacere ..". Se mi è consentito questa frase mi evoca l'immagine della famiglia dove botte e tradimenti sono la regola tra le mura domestiche ma poi quando si varca la soglia di casa ci si finge una famiglia esemplare, e magari fuori ci credono pure! Così, il Presidente degli Industriali dell'epoca spiega che Libero Grassi ha scatenato una "tammuriata", usa questo termine, cioè un rullo corale di tamburi, quindi ha fatto molto rumore, questo dice l'industriale, un rumore assordante che ha richiamato troppa attenzione, che ha fatto apparire la Sicilia come terra di sola criminalità dove l'industria non può vivere e svilupparsi, questo dice il Presidente. Un argomento molto abusato anche di recente. Comunque questo intende, o fai silenzio e pensi ai tuoi affari, o se parli e dici la verità, vai fuori dal circuito delle buone famiglie, il tuo posto è ai margini, i guadagni sono magri, e magari da te non compro più, perché non sei come gli altri, non stai in silenzio e non ti fai gli affari tuoi. E il cronista che fa? Deve tacere, come si fa nelle buone famiglie? Non deve raccontare ciò che gli occhi e la coscienza registrano? Quello che ha verificato di persona? E quando la realtà è capovolta, non deve dirlo? Non deve mostrarlo? Un giornalista d'inchiesta non può far parte delle buone famiglie, meglio essere orfani e non appartenere ad alcuna famiglia, neanche adottiva, non si possono avere padrini se si vuole raccontare quello che vedi, meglio avere come compagni di viaggio un taccuino carico di notizie vere e complete, documentate, di interesse pubblico. Queste sono le regole cui attenersi con rigore, meglio una telecamera ricca di immagini inedite, a volte già viste, perché la realtà si ripete, la vediamo talvolta eguale a dieci a venti anni fa, ed anche quello bisogna dire, e anche quello bisogna mostrare. Meglio avere una telecamera che ha registrato le storie delle vittime dell'ingiustizia, del racket, dell'arroganza, degli abusi del potere, delle collusioni politiche con la mafia, perché la mafia senza la forza della politica sarebbe già stata sconfitta da tempo e la storia ce lo insegna. Cari signori, la realtà cambia se noi la facciamo cambiare con gesti semplici, quotidiani, di verità. E allora, facciamo rullare i tamburi della verità "tammuriamo" come ha fatto Libero Grassi; il giornalista lo faccia con gli strumenti della sua professione e ciascuno con quello di cui dispone, ma dica la verità, e quando non dirà la verità sappia che sta isolando colui che la sta affermando e se ne rende responsabile. Se evadi il fisco e non paghi le tasse, la pressione fiscale si farà più pressante sul resto della collettività che la paga, e così se l'imprenditore non paga e non versa i contributi al lavoratore dipendente, si assume la responsabilità del suo impoverimento. Dunque il giornalista ha il dovere di andare a fare inchieste sul lavoro nero, sul lavoro minorile, sulla sicurezza nei posti di lavoro, ancora oggi si muore cadendo da una impalcatura nell'indifferenza, nel silenzio generali. Ancora oggi rimangono insoluti molti delitti, e quanti i delitti dei colleghi assassinati mentre indagavano su un traffico di armi oppure in zona di guerra, non a caccia di sensazionalismi ma per raccontare a voi la verità, per questo sono morti. Ancora oggi dal 1970 noi non sappiamo chi si è portato via Mauro De Mauro, non lo sappiamo, mentre era all'opera con le sue inchieste, mentre cercava la verità sulla fine di Mattei. Sappiamo che è stata la mafia, ma a distanza di tutti questi anni non si è mai fatta piena luce. E se Palermo ha oggi ancora una fiaccola di resistenza civile accesa, è anche grazie a quella generazione di cronisti coraggiosi e infaticabili del quotidiano L'Ora che ha fatto storia, grazie a Mario Francese, a Beppe Alfano, a Fava, a Impastato e ancora a quanti. Noi non conosciamo i mandanti delle stragi, e poi ci sono i familiari delle vittime degli attentati che attendono giustizia ancora dopo venti, trenta anni. Ma che storia è mai quella che non include la verità ma soltanto barlumi, frammenti. Che democrazia è se non si scopre la verità e non si ha il coraggio di pubblicarla. Non possiamo permetterci di vivere da ingannati o da ciechi, e se si paga il racket si sappia che si finanzia la potenza militare e si pagano i vestiti degli estortori e le auto dei killer, questo si deve sapere. E poi c'è l'indotto della mafia. Attenzione, è importante riflettere su questo, sul percorso di Libero Grassi. Non solo la mafia, ma anche altri hanno seminato chiodi e vetri, sapendo che l'imprenditore portava i sandali, non le scarpe chiodate. E quando non si dice la verità si mina gravemente il percorso proprio e quello degli altri. Le banche applicano all'imprenditore Libero Grassi, dopo la sua denuncia, tassi d'interesse del 23%, un numero da capogiro, pensate ben 6 punti percentuali in più rispetto ai tassi applicati agli altri industriali. Questa è la storia, e la storia deve essere ricordata, e la storia si ripete. E vengo alla risposta. Dopo l'inchiesta che ho curato per Reporter "La mafia che non spara" mi ha chiamata un industriale del quale, per ovvii motivi di riservatezza non posso fare il nome, e mi ha detto: ".. finché abbiamo avuto il boss mafioso all'interno della nostra attività economica, le banche ci facevano credito, ora che lo abbiamo buttato fuori ci stanno affamando e rischiamo di chiudere, non ci fanno più credito, la vostra inchiesta ha detto la verità ed ora denuncerò anche questo..". E la verità può fare solo scandalo quando siamo sommersi dalle bugie. C'è un principio evangelico che mi appassiona da molto tempo e dice così: ".. le cose che ti sono state dette in segreto, di nascosto, al buio, tu gridale sui tetti, falle sapere alla luce del sole..", parole semplici ma chiare, questo ha raccontato Report con un lavoro che è costato tre mesi e mezzo. I dati sui fenomeni sommersi si scovano, si trovano, non ce li facciamo dare su un piatto d'argento da nessuno, perché sono fenomeni sommersi e quindi bisogna andare ad indagare sul territorio. Allora, se non ci sono più denunce, che cosa vuol dire che non c'è più il fenomeno? Se il telefono antiracket tace, cosa vuol dire che le estorsioni non ci sono più? La mafia non spara, e allora non c'è più la mafia? L'abbiamo sconfitta? E come la mettiamo con gli indicatori delle inchieste giudiziarie dalle quali emergono che si paga a tappeto? Andiamo a guardare nei libri mastri di Cosa Nostra, sul libro paga sono in tanti, tantissimi, pagano tutti anche i poveri. Il 70% è la media regionale in Sicilia di quanti pagano il "pizzo", lo ripeto, e per un mafioso che va in carcere è gia previsto il passaggio di consegne, sono stati ritrovati i biglietti dove il mafioso scrive, senza scomporsi perché va in cella, ".. dicci a Gino che quello non ha pagato e che ci deve ripassare il mese prossimo ..". la verità è che c'è crisi della legalità, il cittadino ha bisogno di chiarezza, deve sapere che il rappresentante dell'Istituzione non può andare a braccetto con i mafiosi, il cittadino ha bisogno di sapere che se va a fare una denuncia deve avere una faccia chiara a cui rivolgersi. Questo cittadino oggi è ripiegato in se stesso, è chiuso nel silenzio, perché non sa più chi ha di fronte, sono pochi quelli che hanno la faccia pulita, questa è la verità. Il politico non può andare a braccetto col mafioso. Allora poi ci interroghiamo perché pochi denunciano. Allora, in quale Paese democratico un'impresa di calcestruzzi, finché è stata proprietà del mafioso latitante e dei suoi figli, ha fatto affari a palate, e quando con fatica lo Stato l'ha confiscata, i suoi affari sono crollati, perché nella città di Trapani, il calcestruzzo dallo Stato gli imprenditori non se lo comprano più, quegli stessi imprenditori che compravano lo stesso calcestruzzo dal mafioso. Come mai quella stessa qualità di calcestruzzo prima era buona e ora non lo è più? E quell'impresa oggi rischia la chiusura con il licenziamento dei suoi dieci dipendenti. Che sconfitta per la legalità sarebbe se la Calcestruzzi Ericina chiudesse. Mi risulta che dopo l'inchiesta di Report qualche imprenditore è ritornato, dopo tempo, dopo anni, a comprare in questi giorni il calcestruzzo dello Stato. C'erano almeno trenta siciliani doc intervistati nell'ambito dell'inchiesta sulla mafia, e tutti hanno rifiutato la cultura del silenzio, hanno fatto affermazioni di verità, hanno messo la loro faccia sotto la nostra telecamera e hanno denunciato la mafia mettendo a rischio la propria incolumità. Sono loro che hanno fatto rumore a Report, hanno scelto di "tammuriare" imprenditori, insegnanti, magistrati, operai, esponenti delle istituzioni, familiari delle vittime hanno fatto sentire la loro voce ed hanno lanciato un grido d'allarme, ci hanno raccontato che la realtà si è capovolta. Questa è la Sicilia degli onesti, quella che ha il coraggio di dire parole di verità. L'imprenditrice di Vicari che apriva l'inchiesta di Report sulla mafia ha detto questo, questa donna è stata minacciata, l'uomo di Provenzano le ha tagliato il collo per dieci centimetri, l'ha taglieggiata per anni, questa donna è riuscita a denunciare. Quest'uomo d'onore, di Cosa Nostra, è stato arrestato e questa donna viene vista male in Paese perché dice ".. il male l'ho fatto io che ho parlato..".
Allora, altro punto, la realtà è talmente capovolta che c'è un uomo di settantadue anni che si chiama Provenzano, ricercato da quarantadue, accusato di essere il capo di Cosa Nostra, che è riuscito fino ad oggi ad anticipare sempre le mosse degli inquirenti, spiandoli, e si fa beffa dello Stato perché non lo prendono, perché altri controllano il territorio più dello Stato, nonostante con grande sacrificio alcuni lo cercano, questa è la verità, e Report l'ha mostrato con un filmato inedito che ha anticipato un'importante operazione antimafia della Procura di Palermo.
Questo è un Paese cattolico, bene, il Vescovo Scola ha detto giorni fa "..il servilismo dei giornalisti è peccato..", l'ha detto anche il Papa, perché se si vuole fare un'informazione libera, ci si fa comunque dei nemici, soprattutto se si indaga, se ci si chiede il perché, se mostri durante l'inchiesta le bugie e gli inganni. Diffido di quelli che vanno in giro dicendo che in trenta anni di giornalismo non hanno mai avuto nemici, ne querele, mah! Vuol dire che da "watch dog" come chiamano gli inglesi il giornalismo d'inchiesta, cioè cane da guardia, si sono trasformati in "servant dog", cani da compagnia, oppure ciambellani del Re, quelli che reggono i microfoni al potente di turno e gli pongono una domandina a piacere come si faceva alla scuola media, oppure quelli che rifanno il trucco al Re perché appaia in pubblico più bello, più rassicurante, più attraente soprattutto se in televisione, mentre in qualche angolo di redazione ci sono giornalisti emarginati perché non sono manipolabili, non rassicuranti con le loro domande, con quel maledetto vizio di ficcare il naso dappertutto per chiedersi perché, e ce ne sono di questi colleghi, colleghi ai quali non è più consentito di fare le inchieste perché disturbano, perché richiedono tempi lunghi fatica, e invece oggi tutto deve essere veloce, godibile subito, le inchieste sono scomode, non rassicurano, procurano nemici in alto e partono le bordate. E' un percorso, credetemi, ad ostacoli, infatti il giornalismo d'inchiesta non solo rischia di sparire perché crea troppi problemi, ma rischia di sparire anche il giornalismo più semplice, ne parlavamo con Vincenzo Vasile, perché la tendenza ormai è quella di tenere alla scrivania il redattore - ecco perché è importante che ci incontriamo e ci diciamo le cose - si tiene il redattore alla scrivania, gli si fanno cucire i pezzi con le notizie che gli arrivano da fuori, tenendolo distante dalla verifica diretta della strada, una specie di sartoria dell'informazione, una catena di montaggio, una fabbrica coreana della notizia che sforna prodotti ben confezionati e a buon mercato, ma quanto poi quelle notizie corrispondono alla realtà questo è tutto da verificare. E poi ci sono le querele, le querele a volte sono legittime, ma ormai è accertato dallo stesso Ordine dei Giornalisti, che la querela viene spesso usata ed abusata come strumento d'intimidazione nei confronti del giornalista e quindi dell'informazione libera, soprattutto se fai certi nomi, se approfondisci certi argomenti, se sfiori cordate economiche oppure enti di rilievo, ti becchi comunque la querela anche se poi si rivela infondata, ma nel frattempo che la causa va avanti e passano gli anni in redazione, al giornalista sarà tolto quel caso che stava trattando, su quell'argomento non potrà più scrivere, almeno è così in alcune redazioni, e magari se hai pestato troppo i piedi, tolgono anche la specializzazione, se è giudiziaria lo mettono a fare la cronaca delle persone scomparse così non può più dare disturbo. Allora, il giornalista, il potere e l'informazione o si scontrano o si sposano a prescindere dalle conseguenze. Il problema non è la libertà d'informazione, perché la nostra Costituzione la garantisce, il problema è l'informazione libera, quindi la libertà te la devi prendere. Allora, l'informazione libera è una conquista quotidiana, una battaglia, la devi fare valere ogni giorno, e ogni giorno puoi correre il rischio che ti spostino di scrivania, e le regole a tutela sono pochissime. Il giornalista deve esercitare il potere di verifica sulla realtà, sui poteri, sull'operato di un Governo, altrimenti, chi fa da contraltare? Chi va a vedere dietro le quinte? Se sono tutti d'accordo Governo e giornalisti, assisterete ad una informazione virtuale, alla rappresentazione di una realtà che non c'è.
Allora, la democrazia è in grave pericolo quando i ciambellani del Re aumentano e i cani addomesticati vengono assorbiti dal potere e quindi diventano cani da compagnia. Dunque, il punto non è affermare principi teorici, oppure ostentare passerelle, discorsi intellettuali sul giornalismo, il problema è pratico, se chiedono al giornalista di scrivere una cosa diversa da quella che ha visto, se ha deontologia, deve ritirare la firma e la faccia. Il contratto nazionale di lavoro, questo dovete saperlo, lo prevede, quello dei giornalisti, proprio a tutela e del giornalista, e della verità e a vostra tutela. Se il giornalista è autorevole e credibile, non può mentire e darsi alla propaganda, il nodo è esercitare un'informazione libera, non esercitare le mandibole con belle frasi o fingere di non capire che è arrivato il momento di dire no: quanti poi lo fanno! Bisogna essere consapevoli che a volte è necessario pagare un prezzo e che l'omologazione dei servi sciocchi può costare il pregiudizio anche della Costituzione che è costata il sangue dei padri fondatori. Voglio concludere con le parole di uno degli attuali padri del giornalismo libero, Bill Kovac, che durante un incontro con gli studenti dell'Università Autonoma di Madrid, alcuni giorni fa, ha invitato i giovani a sviluppare il pensiero critico, non disfattista, critico, di qualità vero e credibile, al riparo di ogni propaganda. Kovac ha spiegato che l'invasione dell'Iraq è stata appoggiata grazie al mondo virtuale di una minaccia imminente creata dagli Stati Uniti con l'appoggio della stampa che non ha esercitato il suo potere autonomo di verifica.
Io sono convinta che il grado di civiltà di un popolo si misura dal grado di informazione libera che esso esprime.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringrazio Maria Grazia, non è che non avessi il coraggio d'interromperla perché è andata oltre il tempo, ma il piacere di starla a sentire superava la necessità di regolare i tempi di questa manifestazione.
Ecco, adesso bisogna cominciare a "tammuriata". Professore La Spina, partendo dall'intervento di Maria Grazia sia come sociologo, sia come docente, ci può dire se riusciamo o riusciremo ad avere dalle nuove generazioni una sorta di ribellione a questa ondata di conformismo che ormai da alcuni anni tende a ridurre il giornalismo alla pubblicità delle "bandane"?


Professore Antonio La Spina

Parlare dopo un intervento così bello, così appassionato, mi fa piacere perché in questo intervento ho sentito affermare con forza cose, scelte, concezioni di come si dovrebbe fare o in certi casi si riesce a fare il giornalismo, che spesso in altri contesti ho sentito considerare o giudicare con una certa sufficienza. Un po' forse nel mondo dell'Università ma soprattutto nel mondo del giornalismo l'idea che si possa fare o si debba fare del giornalismo d'inchiesta nel senso in cui è stato esposto ed affermato, con questo vigore, dalla Mazzola, non viene tanto accettato. Cioè, alcuni giornalisti quando si parla di giornalismo d'inchiesta, quando si parla quindi anche di quei tre requisiti che sono stati messi in evidenza e senza i quali il giornalismo d'inchiesta non ci può essere, tendono ad avere un atteggiamento un po' realista: ".. ma.. si sa come vanno le cose, si ..lo sappiamo che ormai il giornalismo d'inchiesta è una cosa che appartiene al passato, ormai il modo in cui funziona una redazione si sa che non può consentire tutta una serie di cose ..".
Da un lato c'è dunque l'esigenza, che spesso viene calpestata, della indipendenza, e di esercizio dello spirito critico: quindi il fatto che al giornalista non vengano assegnati o vengano ritirati certi argomenti impedendogli di fare l'inchiesta quando lui la vuole fare. Dall'altro lato, effettivamente, non è infondato che il giornalismo, come si fa oggi, molto spesso sembra, ma non è veramente antitetico al giornalismo d'inchiesta.
Noi nel nostro piccolo, con degli alti e bassi, abbiamo voluto creare qui a Palermo una scuola di giornalismo e stiamo cercando di orientarla o di riorientarla esattamente nella direzione che si diceva. Io indegnamente ne sono il responsabile, però c'è sempre, fortunatamente, il contributo dei colleghi giornalisti e anche di Franco Nicastro che è qui.
Effettivamente, quello che spesso abbiamo sentito dire è che il modo in cui si lavora nelle redazioni è un sistema che, appunto, esclude o comunque rende difficile il giornalismo d'inchiesta e che il modo in cui dovremmo insegnare agli studenti a lavorare, è quello standard. In parte questo è vero, è vero che chi aspira ad inserirsi in una redazione deve capire come una redazione funziona, deve capire qual è la prassi quotidiana e quindi deve saperla, ma questo non significa - ammesso che la prassi quotidiana, che la prassi standard sia diversa, completamente diversa dal giornalismo d'inchiesta - che per questo ci si debba omologare o assimilare ad essa, anche perchè non si capisce a quel punto, o non si capirebbe a quel punto, il perché delle scuole di giornalismo. Le scuole di giornalismo, al contrario secondo me - non tutti la pensano così, anche molti miei colleghi non la pensano così - dovrebbero cercare di istillare nei loro studenti, che poi sono dei praticanti, quelle stesse motivazioni, quegli stessi obiettivi a cui faceva riferimento la Mazzola.
Perché il giornalismo "standard" di oggi spesso sembra incompatibile o comunque totalmente diverso rispetto al giornalismo d'inchiesta? Perchè, purtroppo, diciamo la verità, la gran parte del giornalismo o gran parte del modo in cui funzionano le redazioni è passivo, è a rimorchio, un giornalismo che riceve soprattutto dall'esterno una infinità di notizie, informazioni, comunicati, veline che basta mettere un po' assieme, "rimpupare", e il giornale è fatto, senza neanche questo grandissimo sforzo, mentre il giornalista così come veniva concepito prima, era una persona che raccoglieva le notizie in mezzo alla strada, tra la gente.
E' chiaro che, rispetto alla logica di funzionamento delle redazioni, tre mesi sono un tempo infinito, inconcepibile per un'inchiesta, e quindi ecco, se si deve ragionare nei termini del quotidiano, non solo nel senso del formato del quotidiano, ma proprio del giorno per giorno, l'inchiesta viene stritolata perché è molto più razionale, molto più produttivo ricevere notizie, fare una telefonata, fare una ricerchina su internet e si possono produrre miliardi di battute per riempire qualunque giornale.
Un nemico del giornalismo d'inchiesta in certi casi è anche, chiaramente, il potere, cioè il fatto che - come è stato detto molto meglio di come lo possa dire io, in modo molto più vissuto di come lo possa aver vissuto io - le inchieste danno fastidio, danno fastidio quando si fanno, ma soprattutto si immagina che daranno fastidio prima che vengano fatte e quindi non le si fanno. Ma spesso è anche la stessa prassi giornalistica che è nemica dell'approfondimento, è nemica in un certo senso anche di quella passione civile che è assolutamente necessaria per fare giornalismo d'inchiesta.
Ora, quel è la possibilità di reagire o di comportarsi in modo diverso? Da un lato bisogna affermare con forza che non è affatto vero che il giornalismo d'inchiesta sia per così dire in perdita perchè, proprio in televisione ma in realtà anche nella carta stampata, se si ha quella intelligenza e quella capacità di guardare al medio-lungo periodo - non soltanto al giornale o alla trasmissione che devo fare oggi ma anche allo share o alla quota di mercato che il mio giornale potrebbe acquisire - pubblicare delle buone inchieste in realtà tira, perché il lettore non è così acritico, come noi siamo abituati a raffigurarlo, ma spesso è più avanti dei politici e anche di molti giornalisti, quindi, se trova una buona inchiesta, o se vede alla televisione una buona inchiesta gli interessa leggersela e gli interessa seguirla. E' chiaro che se io guardo il giorno per giorno non punterò a questo, ma se guardo un po' più al di là del mio naso, a questo posso puntare.
L'altro strumento, e vado rapidamente alle conclusioni, è proprio la scuola perché se noi ci affidiamo alla prassi standard, la prassi standard essendo più veloce, più comoda, più facile, dà delle remunerazioni sia a livello individuale, cioè per il singolo giornalista che il pezzo lo porta a casa senza muoversi dal desk, sia a livello collettivo cioè al singolo giornale o alla singola televisione o alla singola testata che produce quello che deve produrre: la comodità piace a tutti. E' chiaro che, se ci si assimila a questo, il giornalismo d'inchiesta avrà ancor più vita difficile, quindi è proprio nelle scuole di giornalismo che questi valori e questa idea proprio della prassi, della deontologia del giornalista va affermata. Proprio le scuole di giornalismo dovrebbero essere anzitutto finalizzate a quello che poi è anche il tentativo che facciamo noi a Scienze della Comunicazione: insegnare un metodo, insegnare che bisogna dedicare tempo e che ci vuole un certo rigore non soltanto metodologico ma anche nella verifica delle fonti. Quindi, il ruolo fondamentale delle scuole di giornalismo consiste nel conservare ma anche nel riaffermare l'importanza e la produttività, anche dal punto di vista economico, del giornalismo d'inchiesta, sempre che si abbia il coraggio e la capacità di guardare al medio-lungo periodo.
Ultima battuta: io ho parlato del giornalismo d'inchiesta molto in generale, ma in realtà la giornata di oggi riguarda il giornalismo d'inchiesta con riferimento ai fenomeni legati alla mafia, ed alle reazioni nei confronti della stessa. E' chiaro che si tratta di un tema delicatissimo ed in cui fare inchiesta può essere pericoloso sia per chi la svolge, ma anche per chi risponde, perché se l'imprenditore non si vede per esempio tutelato nel suo anonimato, oppure se ha di fronte a se un giornalista che lui vede poco professionale non parlerà o si pentirà di avere parlato e da quel momento in poi i suoi colleghi parleranno molto di meno. Quindi, proprio in questo campo, sono d'accordissimo: è possibile avere molte più notizie rispetto a quelle che arrivano spontaneamente, ma è necessario scavare, è necessario appunto "to scoop", è necessario documentarsi, garantendo però in modo assoluto la incolumità non soltanto fisica dei soggetti. Illustrare per esempio i tipi di attività che prevalentemente vengono sottoposti ad estorsione, l'entità dell'estorsione, le trasformazioni che ci sono state nel tempo, le modalità attraverso le quali l'estorsione materialmente si realizza, le possibilità di reazione, tutte queste sono cose che normalmente non vediamo né in televisione né spesso leggiamo sui giornali. Si parla di antiracket o di racket, ma se ne parla normalmente, come spesso succede, a rimorchio di indagini giudiziarie, quindi partendo da una indagine giudiziaria, arriva il comunicato o comunque la notizia della Procura, ed ecco che si crea il pezzo su di essi. Invece il giornalismo d'inchiesta potrebbe fare moltissimo in questo senso, anche sfatando un mito che spesso sentiamo circolare e viene ripetuto ai vari livelli: cioè che la mafia in fondo crea ricchezza, che la mafia in fondo è qualche cosa che serve tutto sommato, sia pure una cosa inumana, dal punto di vista economico, è una cosa colpendo la quale abbiamo dei problemi. E' vero l'esatto contrario, la mafia impedisce, tra le altre cose, la concorrenza, la mafia strozza e stritola l'attività economica, la mafia, colludendo col potere politico e soprattutto con le amministrazioni, ripropone e conferma una società complessivamente dipendente e quindi forse questo, in particolar modo, è uno dei contributi che può dare un giornalismo d'inchiesta in questa nostra terra. Grazie per l'attenzione.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ringrazio il professore La Spina e adesso vorrei passare la parola a Vincenzo Vasile, che è stato l'ultimo direttore del quotidiano L'Ora e anche l'autore di un importante libro "Salvatore Giuliano, bandito a stelle ed a strisce" di cui noi abbiamo curato la presentazione qui a Palermo. Affido a lui il compito di introdurre Giuliana Catamo che è autrice di Blu notte e dello speciale "Giò Marrazzo" che abbiamo appena visto.


Vincenzo Vasile, giornalista de L'Unità

Io sono molto d'accordo con il professore La Spina soprattutto su un punto: quando vi dicono, gli addetti ai lavori, i giornalisti, che le inchieste sui giornali non le trovate più per motivi di ordine "tecnico" perché i ritmi sono diversi, perché il lavoro di redazione è un atro, perché sul tavolo dei redattori non ci sono più soltanto quattro cinque fogli di agenzia, ma c'è un flusso d'informazioni che ti travolge, è tutto vero solo che non è vero. Il vero motivo per cui le inchieste non le trovate più, non sta nelle forme del lavoro redazionale, io ritengo che stia nei contenuti, nel clima politico e culturale dentro il quale lavoriamo, dentro il quale si fanno i giornali, dentro il quale succedono le cose di cui stiamo parlando. Perché, a ben vedere, l'unica maniera per fare giornalismo in certi settori della società italiana, in certe parti d'Italia, in certe parti del mondo è, se ci pensiamo bene, il giornalismo d'inchiesta. Proprio l'esempio di Maria Grazia, chi non la conosceva, oggi l'ha conosciuta così battagliera, brava, intelligente. Ma anche se non fosse stata battagliera, brava ed intelligente, per svolgere il tema "La mafia che non spara" o fai un'inchiesta oppure non riesci a scrivere una riga, perché se non spara, se è invisibile, se è un fenomeno occulto o comunque non immediatamente percepibile, o scavi, appunto, oltre la quotidianità, intervisti la gente, consulti diverse fonti, o non fai informazione, non fai giornalismo.
Io mi trovo in una situazione un po' strana, vale a dire, io sono lontano ormai da un paio di decenni dalla Sicilia e quindi vivo le questioni siciliane un po' da emigrato, ed ho una curiosità non solo professionale, ma personale per le cose. Vi assicuro, senza polemica nei confronti di chi fa il mio stesso mestiere, che io quello che succede in Sicilia, da emigrato piuttosto attento, non lo so, non lo so. Che succede non solo sui fatti "di mafia", ma che succede nel potere, che succede nella società siciliana. Badate che quando Report dice che otto su dieci pagano il pizzo, è davvero un pugno nello stomaco per qualunque lettore più o meno attento, più o meno competente. Queste cose il giornalismo italiano, ecco, finora, semplicemente non le ha scritte, non solo non si è chiesto il perché, ma proprio non le ha scritte.
Cosa accade? Accade che ci sono, per fortuna delle isole felici, delle specie di oasi, avvolte neanche necessariamente, oasi prettamente giornalistiche, in cui si riesce in qualche maniera a far passare: non è un messaggio, intendiamoci, è un modo per informare su quello che accade. E gli esempi che facciamo stasera sono tutti e tre interessanti.
Interessante l'esempio di Giò Marrazzo. Giò Marrazzo che cos'era? Era, se volete, uno dei tanti cronisti, uno dei tanti inviati della RAI riformata: cioè negli anni '70 c'è stata una riforma della RAI, ed il secondo canale diede spazio ad una generazione di giornalisti diversi l'uno dall'altro, si andava appunto da Barbato a Fiori fino a Giò, Giò era probabilmente quello ritenuto meno importante, per dirla tutta. Marrazzo reinventò un modo di fare giornalismo, forse copiandolo da qualcuno, dal giornalismo televisivo americano chissà, o se l'è inventato lui. C'è una parte di questo video di Giuliana, che voi non avete visto, che riguarda degli appunti che il figlio Piero ha trovato, che sono vere e proprie sceneggiature, lui era regista di se stesso. Chissà quanti di voi si ricordano di un Sindaco che si chiamava Martellucci, la più bella intervista a Martellucci la fece Giò Marrazzo. Martellucci non disse una parola durante tutta l'intervista, però Giò Marrazzo ed il suo operatore gli girarono per sei sette volte attorno con la telecamera e quello ripeteva semplicemente che a Palermo non c'era una situazione grave perché non si sparava: era uno dei tanti periodi in cui la mafia non sparava.
Giò Marrazzo, la puntata di Report, che poi peraltro era uno Speciale Report non era neanche la rubrica, e "Blu notte", la trasmissione di cui è coautrice con Lucarelli Giuliana Catamo, rappresentano delle piccole oasi di informazione. Giuliana vi racconterà probabilmente di quante e-mail, di quante lettere riceve, dagli ambienti più diversi e da generazioni più diverse: è un programma che ha fatto riscoprire oppure scoprire i cosiddetti misteri italiani che poi sono abbastanza poco misteriosi. Quindi, ci sono parti d'Italia e del mondo in cui informazione non se ne può fare, e chi informa è un'eccezione. Badate che c'è purtroppo, e finisco e do la parola a Giuliana, una similitudine, una analogia di questi giorni che è preoccupante. Qualche giorno fa in Commissione Difesa e Giustizia della Camera, è stato per fortuna bocciato, ma era stata presentata e se ne era discusso, un emendamento al Codice Penale Militare di Pace che minacciava fino a venti anni di carcere agli inviati di guerra che non si fossero limitati a riferire soltanto i comunicati dei comandi militari. Bene, in giornalismo lo chiamano engaged vale a dire arruolato. Ecco, mi chiedo, c'è un giornalismo engaged, un giornalismo arruolato un'altra volta alla mafia, approfittando del fatto che siamo in un periodo che la mafia "non spara"? questo forse è un interrogativo pesante però dobbiamo chiedercelo perché non vorrei che cadessimo in una discussione un po' troppo accademica sul giornalismo e sulle sue strutture formali.
Ecco, Giuliana Catamo ci potrebbe raccontare queste due esperienze, lei ha lavorato sul repertorio delle inchieste di Giò Marrazzo.


Giuliana Catamo, autrice di Blu notte e speciale "Giò Marrazzo"

Tre parole perché rischio di ripetermi, visto che avete detto tutto quello che era possibile dire. Io ho trovato tutto molto interessante, non so voi. Quello che vi posso raccontare è la mia piccola esperienza di venti anni di televisione in cui ho fatto di tutto. Negli ultimi cinque sei anni mi occupo di Blu notte, che è questo programma che facciamo io, Vincenzo, Francesco La Licata e altri giornalisti con lo scrittore di gialli, uno dei più grossi scrittori italiani di gialli, Lucarelli, i primi due anni trattando di cronaca nera e poi passando, allo storico-politico cioè ai misteri italiani più in generale e quindi anche alla criminalità organizzata. Abbiamo fatto almeno cinque, sei puntate dal 2001 al 2002 sulla mafia, anche qualcosa sulla camorra e qualcosa sulla 'ndrangheta, ma essenzialmente, avendo Vincenzo e Francesco come consulenti, ci siamo orientati soprattutto su questo tipo di problematica.
Nel programma Blu notte, noi raccontiamo gli eventi che Lucarelli descrive in studio e ci avvaliamo anche di contributi che sono in parte di fiction ed in parte di repertorio che prendiamo dagli archivi storici, tutti i tipi di archivi e soprattutto quello della RAI. Facendo questo lavoro ho scoperto, perché ho visto tutto quello che è passato in RAI dagli anni '50 in poi, che di mafia non si parla in televisione, assolutamente. Ne parlano i telegiornali quando ci sono eventi di cronaca drammatici, quando muore qualcuno, ma la tematizzazione reale dell'argomento, della mafia non è mai esistito. Ci sono state pochissime cose in cinquanta anni di storia, siamo nel 2005 la televisione è nata nel '54, in cinquanta anni di storia televisiva d'inchieste serie, vere, profonde, reali, l'avete detto tutti, ce ne sono state pochissime. I primi venti, trenta anni sono stati caratterizzati essenzialmente da fiction sulla mafia fino alla serie della Piovra, ma ce ne sono tante altre, non so se ve le ricordate, tratte dai romanzi di Sciascia o di Camilleri che, però, erano fiction, importanti, importantissime, ma comunque fiction. Poi c'è stata qualche cosa del TV7, fatta soprattutto da Marrazzo. Negli anni '80, come diceva Vincenzo, c'è stato questo spazio offerto dal TG2 , che era diretto da Barbato, e quindi lì per questioni di apertura politica reale, sono stati fatti dei servizi abbastanza straordinari, quasi tutti di Giò Marrazzo ed anche di qualcun altro, di qualche collega che è riuscito a fare delle inchieste interessanti, del giornalismo d'inchiesta abbastanza interessante. Sono centinaia di pezzi che andrebbero visti, bisognerebbe fare un grosso lavoro, alcuni sono, ne ho visti parecchi, veramente interessanti di fine anni '70 inizio anni '80. Negli anni '90 c'è stato qualcosa dentro Mixer, qualche servizio, qualche inchiesta non da buttar via, e qualcosa anche in Samarcanda e tutte le cose che ha fatto Santoro. Fine anni '90-2000, arriva Report, con qualche pezzo, non tanto, e Blu notte. Non mi dilungo troppo su Blu notte, comunque è poco, è spaventosamente poco se si pensa che sono cinquanta anni di storia, e io facendo appunto questo lavoro, avendo notato Marrazzo ho deciso di dimostrare che era possibile fare qualcosa di diverso. Quando c'è stato l'anniversario dei cinquanta anni della televisione ho proposto al mio direttore di fare un servizio su Marrazzo, per ricordare che esiste il giornalismo d'inchiesta, che esiste la possibilità di provare a dire qualcosa con passione, di cercare la verità, di rischiare, Ricordiamo che Marrazzo è stato l'unico giornalista della RAI che è stato minacciato e che ha subito un attentato, l'altro giornalista televisivo è stato Costanzo e sappiamo però in che contesto. Quindi, per noi Marrazzo rimane una figura assolutamente fondamentale, anche se non è neanche citato nella storia della televisione di Aldo Grasso, incredibilmente! E non è citato quasi da nessuna parte. Io ho fatto questo lavoro l'anno scorso, è stato molto apprezzato, me lo chiedono dappertutto, lo vedono nelle scuole, nei corsi di giornalismo, ma io lo do, lo davo con un po' di depressione perché pensavo che erano passati venti anni, era l''85 siamo nel 2005, e di cose altrettanto interessanti non ne vedevo, e ora devo dire che con il lavoro di Maria Grazia mi sono di nuovo rincuorata, perché è la prima volta che vedo una cosa che ha uno spirito, un valore, un coraggio che raramente si incontra. Spero che Maria Grazia continui - è anche la mia compagna di stanza, siamo colleghe, siamo vicine - e che continui questo lavoro con questa passione, con questo coraggio e che riesca a trasmetterlo anche ad altri colleghi che non hanno la sua stessa passione, il suo stesso coraggio. Basta.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Ecco, questo coraggio, c'è la possibilità di continuare ad averlo questo coraggio? Antonio Maria Mira Vice caporedattore di Avvenire.


Antonio Maria Mira, Vice caporedattore di Avvenire

Già parecchi hanno citato Giò Marrazzo, ma io lo cito per una cosa che forse apparentemente può sembrare che non c'entri niente. Un anno fa ho fatto un lavoro, non per il mio giornale ma per la RAI, sui cinquantacinque giorni del rapimento di Aldo Moro, e mi sono capitati tra le mani i servizi di Giò Marrazzo, soprattutto quelli del primo giorno, del 16 marzo. Forse tutti ricorderete il servizio di Paolo Fraiese, un bravissimo collega cronista, che fece quella che noi giornalisti della televisione chiamano "piano sequenza", questa telecamera che non si spegne mai e fa tutto il cammino verso le macchine, inquadra poi i morti, la sua voce, vi ricorderete, affannata. Marrazzo scelse un altro modo di lavorare, non perché il primo non sia degno di lavoro di giornalista, Giò Marrazzo andò a cercare i testimoni, subito, immediatamente, nei minuti immediatamente successivi all'attentato, andò a cercare i testimoni, e ci sono delle bellissime interviste, anche perché aveva un bravissimo operatore, spesso dimentichiamo che anche loro sono morti sui fronti di guerra, che ci sono degli operatori senza i quali, probabilmente, i bravi giornalisti della televisione non riuscirebbero a fare quello che riescono a fare pure essendo bravi. Ecco, fece delle interviste incredibili, vero giornalismo d'inchiesta, arrivò prima lui, sicuramente, delle Forze dell'Ordine, anche se io non credo che noi giornalisti dobbiamo sostituirci ai magistrati, alle Forze dell'Ordine, noi facciamo un'altra cosa. Bisogna stare molto attenti, perché c'è una tendenza a fare inchieste giudiziarie che non è quello che noi giornalisti dobbiamo fare.
Cito anche un altro collega molto bravo, Giovanni Maria Bellu di Repubblica, nel suo libro - che poi è la storia della sua inchiesta sulla nave della speranza affondata a Porto Palo qui davanti alla Sicilia che trasportava degli immigrati clandestini dello Sri Lanka - ad un certo punto racconta come nasce la sua inchiesta: mi chiama il mio capo, Beppe D'Avanzo, il responsabile del giornalismo del settore inchieste di Repubblica e mi dice "ma in fondo è una tautologia, giornalismo d'inchiesta, giornalismo punto e basta". E secondo me ha proprio ragione, invece c'è una tendenza, e l'ho sentita qui evocare, nei giornalisti, in molti giornalisti, a trasformarci in caselle postali di altri, anche nelle migliori intenzioni. Questa tendenza a pubblicazione di verbali, delle intercettazioni, che riceviamo in modo anche abbastanza acritico, non è uno spunto, ci fermiamo lì, qualcosa di molto freddo. E questo mi veniva in mente perché prima di cominciare il nostro dibattito, ho fatto una bella intervista, non perché l'ho fatta io ma perché mi ha provocato emozioni, a Bruno Piazzese che conoscete sicuramente, il pluri, come si può dire, "bombardato" dal racket a Siracusa (tre bombe eppure continua ancora). Devo dire che ho avuto anche un momento di forte emozione, quando chiedendogli qual è stato il momento più duro di questi anni, mi ha detto quando ha visto piangere la madre il primo giorno che gli era stata assegnata la scorta, e pensavo invece a quanti ritengono la scorta soltanto un segno di privilegio in quel di Roma da dove io vengo, perché io qua sono l'unico estraneo alla regione. Ecco, emozione, commozione, secondo me è una delle componenti fondamentali nel giornalismo d'inchiesta quella, scusate il termine, che è anche sapersi "incazzare", l'uno e l'altro, saper piangere e sapersi arrabbiare. Due anni fa mi trovavo a San Giuliano, io sto allargando molto ma secondo me non c'è differenza, il giornalismo d'inchiesta è giornalismo d'inchiesta di mafia, di camorra, di illegalità, di tangentopoli, di tutto, è uguale, è la stessa cosa. Mi trovavo a San Giuliano di Puglia proprio il giorno del terremoto, e confesso di aver pianto sulle piccole salme dei bambini, nello stesso tempo, però, non mi sono accontentato di fermarmi a raccontare il dolore, ma, come secondo me devono fare i giornalisti in queste situazioni, cominciai a chiedermi perché. E lì chiedersi perchè voleva dire anche delle cose banalissime, andarsi a leggere delle carte, cercare delle carte, trovare qualcuno che mi desse delle carte, le carte le ho trovate e alcuni dei miei articoli sono stati utili anche al seguito dell'inchiesta che ahimé non sta avendo però dei grandi risultati. Quindi emozione come capacità di commuoversi, di emozionarsi, come punto di partenza, perché, e qui è un altro punto secondo me fondamentale del giornalismo d'inchiesta, noi dobbiamo essere capaci di accendere i riflettori prima che avvenga il fatto. Che spazio aveva avuto don Puglisi prima di essere ucciso, sui nostri giornali? La colpa è di tutti noi, e don Peppe Diana, per andare in un'altra zona a Casal di Principe, prima di essere ammazzato? Lo spazio lo ha avuto dopo, anzi, da parte di alcuni che io non posso chiamare colleghi, hanno trovato spazio per dire che era stato un regolamento di conti all'interno della camorra. Ma dopo dieci anni dalla sua morte, nessuno se l'è ricordato. L'anno scorso sono stati dieci anni dalla morte di don Peppe Diana, in occasione della bellissima manifestazione che ha attraversato Casal di Principe, non c'era neanche il TG3 regionale, e questo mi sembra particolarmente significativo.
Lancio lì qualche ricordo di cose che ho scoperto in questi anni. Perché non parlare, per esempio, di un centro di recupero tossicodipendenti sorto in Toscana dove prima c'era una raffineria di cocaina, o perché non parlare di una casa famiglia per bambini abbandonati, nella villa di Pupetta Maresca, che forse tutti quanti sapete chi sia. Spesso quando mi capita di parlarne con dei colleghi, anche quelli che hanno cominciato prima di me, malgrado io non sia più giovanissimo, a scrivere di queste cose mi dicono: "..eh! ma le conosciamo queste storie.." Bravi rispondo, ma perché non le scrivete? Perché non le raccontate? Ecco, sembra che ci sia una sorta di, ormai, abitudine a dire "..le conosco però non le faccio conoscere agli altri". Perché soltanto a settembre i giornali si sono accorti che a Napoli si moriva ammazzati? Forse perché si moriva ammazzati di più di prima? No, sarebbe bastato fare dei conti, ci saremmo accorti che si moriva nella stessa quantità a gennaio, a febbraio, a marzo, ad aprile e via dicendo, forse perché a settembre è nata, in realtà c'era già da prima, questa guerra a Scampia? Ma che forse i morti a Paliano o da qualche altra parte valevano di meno? E adesso, si scrive ancora di camorra sui nostri giornali o non se ne scrive più? Si continua a morire, ancora, a Napoli, o no? Si. Basterebbe guardare le agenzie di stampa che ci arrivano perché poi, dopo, il morto comunque fa notizia, no? Però poi sui giornali al massimo una breve, come si dice in termine tecnico, ma chi è che è andato a vedere cosa c'è dietro questa che sembrerebbe quasi solo una guerra tra bande, un po' più che una guerra dei ragazzi della via Pal, un po' più pesante ma sempre una roba che riguarda solo un gruppo e gli scissionisti, sembra quasi una sorta di congresso di un partito d'altri tempi.
Ahimé, purtroppo qui, e rispondo al professore La Spina, non credo che le scuole di giornalismo possano insegnare veramente a fare giornalismo d'inchiesta, possono dare delle basi, ma io sono assolutamente convinto che la vera scuola del giornalismo d'inchiesta sia il marciapiede, siano le suole consumate. Alcuni miei colleghi più anziani dicono sempre che il giornalismo d'inchiesta si fa con i piedi, che poi uno dice sempre "vuol dire che si fa male", no, si fa camminando, si fa con le sveglie all'alba, mentre invece ho l'impressione che adesso si voglia fare il giornalismo d'inchiesta soprattutto con il mouse o con internet. Quindi io sono pienamente d'accordo con il professore, sembra di avere il mondo in mano e poi non ci accorgiamo di quello cha avviene dietro casa nostra. In realtà, spesso, dire che non si può fare giornalismo d'inchiesta, ed è vero che adesso in Italia se ne faccia molto poco, forse è anche un alibi da parte nostra, qui parlo anche da sindacalista, perché è vero che ci sono, in certe situazioni, maggiori difficoltà però è anche vero che se davvero piace questo lavoro - e a me piace moltissimo farlo, è quello che volevo fare - la mattina uno si alza e la prima cosa che fa è dire, oggi cosa scrivo? Non aspetta che qualcuno glielo dica, oggi fai questo, giochiamo d'anticipo, i colleghi ci provino, una volta può andar male, due volte può andar male, tre volte può andar male, ma io sono convinto che alla fine ci si riesca, non è poi così difficile, non facciamo sempre le vittime. Ho l'impressione che diventi un alibi a non fare a non provarci. In fondo, Maria Grazia ci ha provato e ci è riuscita, ha scatenato un casino, certo l'ha fatto sulla Rete Tre, forse era un po' più semplice, però ho visto anche qualche altro servizio, magari in ora tarda, magari non certo in prima serata. Mi è anche capitato di vedere RAI Educational di Minoli, quante cose abbiamo detto male su di lui nel passato ed invece è davvero un bravo giornalista, ma bravo anche ad utilizzare gli altri, ho visto recentemente come ha tirato fuori dei bellissimi servizi di Sergio Zavoli in un bianco e nero che neanche ti accorgevi che erano in bianco e nero, per come erano belli. A dimostrazione che non è necessaria poi la carta patinata, in questo caso i bellissimi colori, per fare dell'ottimo giornalismo.
Quindi, mentre da un lato davvero sono convinto, mi sembra che tutti lo abbiamo detto, che giornalismo d'inchiesta se ne stia facendo purtroppo, ahimé, molto poco. Sono anche convinto che c'è una tendenza a fare del giornalismo una sorta di mestiere impiegatizio, quello a cui accennava Maria Grazia del taglia e cuci. Ci arrivano tante notizie, in realtà poi forse, più che alcuni direttori, alcuni editori sono convinti che basta questo e non per niente c'è una tendenza anche a fare dei contratti non giornalistici all'interno dei giornali e quindi utilizzare dei falsi giornalisti, in realtà dei ragazzi di belle speranze che si accontentano di prendere le agenzie, cucirle e farle lì, quello non è giornalismo. Però se invece accetta di fare questo anche chi vuole essere giornalista, beh, allora poi non si metta a lamentare e dire non me lo fanno fare. Non è poi così difficile, basta guardarsi intorno, basta avere oltre ai piedi di cui ho detto prima, anche gli occhi, anche una grande curiosità.
E poi torno all'inizio, secondo me se non abbiamo nuovamente la capacità di emozionarci, commuoverci, veramente di stupirci di fronte a determinate realtà, se consideriamo e guardiamo tutto solo con freddezza matematica, ci mettiamo solo a fare dei conti: quanti sono morti, quante bombe sono state messe, senza andare a vedere chi c'è dietro. Torno indietro a quello che ho detto prima. Mi sono bastate quelle tre parole che mi ha detto Bruno: la vedevo sua madre che piangeva di fronte a questo cambio di vita, una vita che lui mi ha detto non me la ridarà più nessuno. Questo è quello che noi dobbiamo raccontare, che vale molto di più di qualche numero in più, qualche verbalino in più, qualche intercettazione in più.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Cercheremo di stringere il più possibile, anche se debbo fare un fuori programma, perché vedo qui Daniele Billitteri che è il segretario dell'Associazione della Stampa Siciliana, e vorrei chiedergli una cosa: mi è capitato di leggere l'introduzione che un deputato del partito svizzero del lavoro, diventato pubblicista e giornalista Jean Ziegler ha scritto in un suo libro "I signori del crimine" presentato nel 2000. Questo autore ha scritto un altro interessante libro "La fame nel mondo spiegata a mio figlio", ma di questo magari parleremo in altre occasioni, in questa introduzione è riportato un giudizio dell'ex capo del controspionaggio tedesco Eckart Werthebach: "Il pericolo per lo stato di diritto non risiede nell'atto criminale in sé, ma nella possibilità della criminalità organizzata di influenzare, grazie alla sua enorme potenza finanziaria, i processi decisionali democratici in modo duraturo". Non ti pare che questo abbia qualcosa a che fare con l'andazzo della stampa e con la necessità di rilanciare e un giornalismo d'inchiesta e comunque un giornalismo di cronaca, di pura e semplice registrazione dei fatti, e quindi un giornalismo di verità?


Daniele Billitteri, Segretario Federazione giornalisti siciliani

La domanda di Nino è certamente stimolante, io sono qui non solo come giornalista che da trentacinque anni si dedica a questo lavoro, per quindici anni come cronista negli anni tra l'inizio del 1970 e la metà degli anni '80, quelli dove ne sono successe di cose e di scarpe ne abbiamo consumate. Ho anche fatto nove anni al giornale L'Ora dove non avevamo altro se non le scarpe e grazie al cielo la testa che poi ha fatto di questo giornale una grande scuola di giornalismo, la scuola di Nisticò e di tanti e tanti altri. Sono qui invece come rappresentante sindacale, perché tutti i discorsi che noi abbiamo fatto, poi, in qualche modo, dal nostro punto di vista, confluiscono in una realtà, che è quella dell'informazione, che ha un aspetto che, visto dal punto di vista sindacale, evidenzia tutta una serie di cose tra le quali quei problemi che sollevava Nino Mannino nella sua domanda.
Abbiamo detto e spiegato, su questo naturalmente non mi dilungo, che se il giornalismo d'inchiesta è morto il suo killer principale è il potere quello con la "P" maiuscola, che è fatto di tante altre "P", il Palazzo, la P2, e tante e tante altre cose, questo è sicuramente vero, quindi su questo non ci torno, lo do per assodato. Tuttavia la situazione, se possibile, è aggravata dal fatto che il giornalismo d'inchiesta non è solo il giornalismo che scava, il giornalismo che parla della mafia, della camorra, della 'ndrangheta, il giornalismo che denuncia, il giornalismo che scopre; il giornalismo d'inchiesta è per esempio stabilire, fare un test di un mese su quanto impiega un autobus ad andare da un capo all'altro della città, andare a vedere quanti autisti ci sono nell'azienda degli autobus, andare a vedere perché ci sono i precari e non ci sono gli assunti a tempo indeterminato. Questa è un'inchiesta, tecnicamente voglio dire, e nessuno mi convincerà mai del fatto che un'inchiesta su questi argomenti, da un punto di vista della risposta democratica e del ruolo democratico che l'informazione svolge in questo Paese, è meno utile dell'inchiesta sulla mafia fatta magari, come diceva Mira, con le carte che troppo spesso noi ci "beviamo" senza pensare che chi ce le sta dando, ce le sta dando in virtù di una logica, perché dietro ogni scoop c'è pure chi te lo fa fare. A metà degli anni '70 uscì un film che si chiamava "Diritto di cronaca" che provocò un grande dibattito nella categoria, i ragazzini come Maria Grazia non se lo possono ricordare, ma quelli vecchi come me e come Nicastro se lo ricordano, tutto avveniva in modo surrettizio e tutto avveniva attraverso il fatto che, una fonte lasciava sul tavolo un fascicolo che una giornalista ebbe modo di vedere. In realtà l'informatore fino a quel momento non gli aveva mai dato una notizia, allora: chiediti come mai uno che non ti ha dato mai una notizia improvvisamente ti lascia un fascicolo sul tavolo e se ne va dandoti un'ora di tempo per guardarti il fascicolo. Ora, io sono convinto che di questi episodi raccontati da un film, nella realtà ce ne saranno stati, ce ne saranno stati decine. Che noi entriamo come proiettili in guerre per bande, anche su questo non c'è discussione, è veramente così. Allora, il problema è un altro. Cioè, paradossalmente, ipotizziamo che il giornale più governativo della città "x" faccia un'inchiesta cercando di dimostrare l'ipotesi che non c'è migliore amministrazione comunale di quella. Io vi dico che oggi non si può fare neanche questo, per un motivo semplicissimo, perché non ci sono i giornalisti che possono fare le inchieste. Nei giornali medio-grandi le strutture redazionali, non hanno le risorse per destinarle anche ad un'inchiesta, come dire, "addomesticata". Non si fanno le inchieste anche per questo, perché i giornali sono un'altra cosa.
Ancora, la domanda di fondo è banale ma ha tutta una serie d'importanti conseguenze. La domanda è questa: di chi è la notizia? La Costituzione dice che la notizia non è di nessuno ed è di tutti, tanto è vero che il ruolo dell'informazione viene visto nella duplice veste di diritto e di dovere. E' diritto nostro esercitarlo al servizio del pubblico, è diritto del pubblico avere l'informazione, ma è anche dovere di una società democratica garantire questa informazione. Questo nobilita il concetto di notizia, perché mette la notizia in una terra di nessuno dove nessuno se ne può appropriare ed utilizzarla per fini personali. Nelle aziende editoriali italiane sta succedendo esattamente il contrario, cioè, sta così prevalendo la logica industriale, imprenditoriale e produttivistica che l'editore è sempre più convinto che la notizia è un bullone e che quindi la notizia va trattata, in termini di produttività, ne più e ne meno di come si tratta una catena di montaggio con l'MTM la Misurazione Tempi e Metodi messa a punto da Taylor e Gilbert, epigoni del Fordismo, quando studiarono tutti i movimenti del corpo in modo da perdere meno tempo possibile e fare più bulloni in una catena di montaggio. Questo stanno diventando i giornali. La settimana scorsa sono stato a Milano ad una assemblea dei giornalisti dei periodici. Periodici a Milano ce n'è un'infinità. Gli editori, che ne stanno chiudendo decine in questi giorni, dichiarano tranquillamente che a loro un periodico serve farlo uscire tre mesi, in modo da smaltire la pubblicità del settore specifico di quel periodico e poi lo chiudono, perché tanto non gliene frega più niente. Quindi, loro realizzano un periodico per smaltire la pubblicità, pensano un periodico, che vi posso dire, sugli orologi che esce sei mesi per smaltire la pubblicità, diciamo, su tutto il settore del lusso status symbol: orologi, gioielli ecc, finita questa esigenza chiudono il periodico. Allora, se tu devi fare contenitori di pubblicità dillo ed apriamo un discorso su che cosa è la notizia e su di chi è la notizia.
Le redazioni ormai sono fatte di giornalisti "deskisti", desk uguale scrivania, giornalisti che stanno al tavolo, davanti ad un computer e sono come tanti bellissimi fiori solitari, distanti l'uno dall'altro che non faranno mai una siepe. Le redazioni non sono più una siepe, per uscire dalla metafora, le redazioni hanno perduto quella centralità che faceva dei giornali un intellettuale collettivo. Qui, non c'è più nessuno che esce dai giornali, a parte i due cronisti istituzionali, uno di nera che si fa il giro dei Carabinieri, Finanza, Polizia ecc., uno di giudiziaria, ed il cronista, diciamo così, del Comune a livello cittadino. A parte questo tutti i giornalisti di cronaca di giornali medio-grandi, stanno tutti seduti, altro che inchieste amici miei, non se ne deve parlare. D'altra parte, per fare questo lavoro in questo modo, si può anche rinunciare alle esperienze che invece sono indispensabili al giornalista del giornalismo d'inchiesta che è un giornalista sul quale un'azienda deve investire per anni per poi produrlo. Mettiamola in questi termini, è come un pilota di jet, l'aviazione americana spende miliardi per addestrarlo, poi quello prende il jet ed è top gun. Il giornalista d'inchiesta è uno che deve essere seguito per anni, e poi è giornalista d'inchiesta, nel frattempo gli hai dato lo stipendio ecc. Quindi un'azienda investe nel giornalista d'inchiesta e questo investimento è cessato al pari di tanti altri investimenti. Adesso abbiamo una redazione che di solito ha un nocciolo duro di giornalisti con contratti ex articolo 1, cioè a tempo indeterminato, e una marea di flessibilità del lavoro, che nel giornalismo si sta rivelando una cosa veramente letale perché l'interruzione continua dei contratti a termine, il turn over forsennato dei contratti a termine, impedisce al redattore di crescere nell'ambiente più idoneo alla sua formazione, cioè a contatto con i colleghi, confrontandosi con i colleghi, sbagliando, prendendosi rimproveri dal caposervizio, dovendo riscrivere gli articoli. Riscrivere gli articoli? Ma perché chi scrive più nei giornali? Aprite il giornale e vedete quanti sono gli articoli firmati, il resto sono tutte agenzie, nei giornali non scrive più nessuno, nei giornali spingiamo tasti che attivano un misterioso sistema editoriale che fa in modo che un titolo vada a mettersi in un'area della pagina, fine della trasmissione. Allora, questa è la realtà, e vista da qui, vista in Sicilia, dove ahimé è ancora più utile avere un amico che avere un diritto, se i giornali non abituano la gente alla richiesta del rispetto dei diritti, altro che sconfitta della mafia. Vi faccio un esempio per intenderci: a Palermo c'era l'Anagrafe in viale Lazio, l'Anagrafe era meccanizzata, c'erano una serie di sportelli con i cosiddetti carri armati che erano meccanismi che scorrevano perchè fisicamente si prendesse la targhetta, e c'erano i vari sportelli con i nomi per esempio da Abate a Visconti, l'utente che stava lì in mezzo aspettava il proprio turno in fila, naturalmente le file erano bibliche. Che cosa c'erano? Gli "spiccia faccende", tutti messi lì con la loro cartellina, uno passava con la macchina, perché li posteggiare non se ne deve parlare, gli lasciava tre mila lire, richiedeva il certificato che gli serviva, stato di famiglia, bollo e così via "..subito dottore ripassi all'una..", all'una si passava, e senza avere fatto nessuna fila otteneva il proprio certificato. Quando hanno informatizzato l'Anagrafe, ormai uno stato di famiglia si può fare pure al telefono, si è estinta questa categoria degli "spiccia faccende", ma questa categoria degli "spiccia faccende", se ci vogliamo riflettere in termini proprio culturali, rappresentava un mezzo di trasmissione della cosiddetta subcultura mafiosa, perché certificava il meccanismo quasi automatico di ricorso all'amico e non all'ovvio diritto di aver un certificato di famiglia senza doversi sobbarcare una specie di percorso di guerra. Questo concetto ci è stato estraneo per tantissimi anni e appartiene ormai ahimé un poco a quel sistema genetico che tramandiamo pure ai nostri figli.
Ora, per sradicare tutto questo c'è bisogno di un giornalismo che racconti le cose, e non c'è bisogno necessariamente di fare la super inchiesta sulla mafia, ripeto, basta fare l'inchiesta su quanto impiegano gli autobus a fare un certo percorso, perché anche in questo modo avremo fatto il nostro dovere di giornalisti, altrimenti accontentiamoci di lasciare il giornalismo d'inchiesta a Striscia la Notizia che, con una battuta, si dice che sia l'unica redazione che lo fa, i cui cosiddetti "giornalisti", perché giornalisti non sono, esibiscono proprio questo fatto che loro sono "naif" e con una battuta che sarebbe piaciuta a Ennio Flaiano quasi intendono avvertirci: "..fidatevi di noi mica siamo giornalisti..", grazie.


Onorevole Antonino Mannino, Presidente del Centro di Studi ed iniziative culturale Pio La Torre

Credo che a questo punto dobbiamo chiudere i lavori di oggi dandoci appuntamento al prossimo seminario per continuare a sviluppare e ad approfondire le tematiche di stasera. Grazie a tutti i partecipanti, ma grazie soprattutto a Maria Grazia Mazzola ed a quanti hanno voluto animare questa tavola rotonda.

Grazie.